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LA “SALUTE MENTALE” DEI BAMBINI DI GAZA TRA RABBIA, INCUBI E FAME

 

LA “SALUTE MENTALE” DEI BAMBINI DI GAZA TRA RABBIA, INCUBI E FAME

 

 

Vorrei qui parlare, in queste righe, di quello che è il “dolore mentale” dei bambini di Gaza.

 

Le domande da cui parto sono queste: “Ma che senso ha tuto questo?” e soprattutto: “I bambini di Gaza che senso possono dare a quello che accade attorno e dentro di loro?”

 

Come può un bambino trovare il senso alla propria sofferenza mentre soffre dentro al suo corpo, e la sua mente è impotente a capire ed elaborare? Specie se questa sofferenza è la sofferenza del proprio corpo che egli vede riprodotta nel corpo di altri bambini, di altri padri, di altre madri, di altri fratelli e sorelle?

Il bambino di Gaza vede la sua sofferenza riprodotta in una infinità di sequenze (quasi sempre tutte uguali) rappresentata dallo strazio e dalla morte reale che egli realmente tocca con mano.

 

Dare un senso a qualche cosa vuol dire mettere ordine, dare un posto alle cose e agli eventi, capire che e se c’è un motivo. Dare senso significa in fin dei conti “capire” proprio dal latino capere, tenere dentro, fare posto dentro di sé, sostanzialmente “giustificare”, dare un giusto posto, anche se questo posto è una abiezione e la malvagità resa potenza, fatta persona. E il bambino di Gaza questa “persona” la vede tutti i giorni e tutte le notti.

 

 

Il bambino di Gaza non può “capire” quello che sta accadendo proprio perché il suo corpo e la sua mente non hanno posto sufficiente. Il posto interno del bambino di Gaza è già tutto occupato dalla realtà e dai fantasmi della realtà.

 

Il bambino, lo sappiamo tutti, non ha strumenti di pensiero e nemmeno di “sopportazione” per dare un “senso” della distruzione che egli vede in sé e attorno a sé. Ma questi strumenti, mi verrebbe da dire, non ce li ha, a volte, nemmeno l’uomo adulto.

 

Il bambino di Gaza non ha il tempo per pensare. Non ha nemmeno tempo in quanto il concetto di tempo è strettamente legato al pensiero di “costruzione e futuro”. Il tempo del bambino di Gaza è solo un tempo passato e una memoria recente, terribilmente recente.

 

L’espressione “L’innocenza dei bambini”, sbandierata e infranta in tute le Civiltà e in quasi tutte le Società non esiste nemmeno nel vocabolario gazawi , non esiste minimamente il pensiero che (almeno a parole) l’innocenza del bambino dovrebbe essere rispettata. E patentemente non è rispettata ma bene inclusa nel vocabolario di ministri del governo israeliano e anche ascoltando audio registrati dai soldati dell’ IDF.

 

Io sono convinto che i bambini di Gaza “sanno” che non sono considerati innocenti dal “nemico” e sono quindi esposti tanto quanto tutti gli altri gazawi ad un tiro a segno dove per loro non esiste una anche lontana garanzia data dalla carta di identità (se mai ce l’hanno). Come si vedrà alla fine di queste righe.

 

A mio modo di vedere questa questione del “sapere” che non sono considerati innocenti né da Smotrich, né da Ben-Gvir né da Katz e altri e tantomeno sul campo dal nemico IDF influisce molto su quello che i bambini possono pensare sul “senso” della loro sofferenza. Ovvero che il senso risiede nel grilletto di tutti i “rifle” che hanno visto in vita loro o in tutti i sibili di bomba d’aereo o di cannone che li ha svegliati di notte. Punto e basta.

 

Sapere che si è nudi davanti al nulla della ragione umana, e dunque alla sua massima capacità distruttiva, per i bambini di Gaza è un sapere già acquisito dopo qualche mese di vita.

 

Sapere della propria nudità è lo strazio più grande che vivono i bambini, e sarà anche il loro pensiero di sè proiettato nel futuro. Ma i bambini di Gaza, in qualche modo, vedono un futuro?

 

Mi viene qui in mente (per assurdo e forse anche per nemesi al contrario) il film “Schindler List”, la scena del campo di concentramento in cui l’ Hauptsturmfuhrer Amon Goth (Ralph Fiennes) una volta costruito il nuovo campo di concentramento di Krakov-Plaszov dà l’ordine che sparerà immediatamente a tutte le persone che vede ferme dal lavoro nel campo e poi, al contrario, a tutte quelle che si muovono senza suo ordine. Uno roulette russa. La banalità del male. La occasionalità della morte. La imperscrutabilità degli occhi e del volere di chi ti ha denudato.

 

Ecco, penso che i bambini di Gaza sia come giocarsi la loro innocenza (giuridicamente garante per la loro vita) al tavolo della bisca di Saigon, come Christofer Walken nel film “Il cacciatore”. Cioè senza senso. Senza nessun plausibile senso perchè il senso, di qualsiasi cosa nella vita, è dato dalla sua prevedibilità, o per lo meno da un ragionamento su di essa.

A Gaza regna invece l’eclissi della ragione che ben sappiamo cosa produce. E qui ha già prodotto.

 

Uno studio di Charles S. Clark del 1993 rileva che, grazie alla televisione, un bambino americano (ma, ormai, anche italiano) assiste in media a otto mila omicidi e a 100 mila atti di violenza prima di aver terminato le scuole elementari.

 

A quanti “omicidi” dal vero (invece) ha assistito un bambino di Gaza nei suoi ultimi tre anni?

 

Nella mente del bambino una cosa è la registrazione di una bomba che esplode, magari in lontananza, e lui assiste, magari, alla corsa delle improvvisate ambulanze verso gli ospedali o l’assistere alla corsa dei corpi dentro una coperta o un lenzuolo che cercano un ospedale ormai introvabile. Ma un altra cosa è la registrazione che fa nella sua mente il bambino se vede un suo amico, o magari anche uno sconosciuto, che viene centrato da un proiettile vicino a lui.

 

Il primo pensiero che può fare è sulla “intenzionalità” della fucilata. Non che non capisca che anche la bomba che è scoppiata a centinaia di metri non sia esplosa in modo inintenzionale. Ma sul corpo che cade a terra vicino a lui ha immediatamente il pensiero della nudità della sua vita esposta e colpita e inevitabilmente anche alla sua nudità in predicato di essere definitivamente cancellata da questa vita.

 

Esprime un dolore e una rabbia diversa verso la pallottola che non verso la bomba. E diversa sarà anche la sua pulsione alla vendetta, proprio perchè l’ingiusto e malsano pericolo l’ha sfiorato da vicino, quasi si realizzava in lui. Il pericolo che il bambino vede e sente è diventato il suo futuro. Il futuro dei suoi pensieri e anche dei suoi incubi. Come dirò più avanti.

Io sono sicuro che i signori della guerra israeliani sanno che stanno seminando semi che diventeranno germogli e piante del prossimo “terrorismo”, come lo chiamano loro. Ma il bambino che vede con i suoi occhi l’amico morente avrà dentro di sè il senso della devastazione mille volte più grande del bambino americano dello studio Clark. E nessuno può dire del futuro della devastazione subita.

 

Si sa che l’unica esperienza di morte che l’essere umano ha è quella della morte dell’altro. Ma se quell’altro che muore mi sta a qualche metro (o centimetro) di distanza e io vedo qui e ora il suo sangue venire fuori dal suo corpo, allora l’essere umano capisce meglio che cosa è la morte, anche se senso non ha.

 

I bambini e le bambine palestinesi che hanno potuto essere sfollati in Egitto nei primi mesi della guerra (allora si poteva, forse, parlare di guerra) sono ora tormentati dagli orrori che hanno vissuto. Combattono contro incubi, rabbia, enuresi notturna e ansia. Medici senza Frontiere afferma che il 90% delle richieste per ricevere supporto psicologico, riguardava i bambini. I bambini che portano questi quattro segni ben precisi.

L’incubo. L’ incubo, (la parola etimologicamente nasce dal medievale “incubare” e richiamava lo spirito maligno che cova nel petto di una persona che sta dormendo) è anche detto “sogno disforico” e quasi sempre porta come sintomatologia angosciante una oppressione al petto e difficoltà respiratorie. Ma la componente principale dell’incubo non è l’angoscia bensì la paura che emerge nelle immagini del sogno e che il bambino vive con immenso dolore perchè teme che l’evento sognato (una bomba, un colpo di fucile, una ambulanza che scappa, l’amico ferito o reso mutilato) possa ripetersi/verificarsi nella sua realtà e colpire direttamente lui. Il bambino ha incubi dolorosi perchè pensa che sarà lui il prossimo. Lo attende quello che nelle immagini del sogno lo svegliano e soprattutto gli impediscono di riprendere sonno. Ancora una volta il non essere protetto, il non essere difeso e il non potersi difendere. Anche solo con i propri vestiti: la nudità ancora.

Ricordo che, statisticamente a livello generale, gli incubi sono più frequenti nei bambini dai 4 ai 12 anni. Quelli di Gaza per l’appunto.

Semplicemente qui voglio dire che il bambino di Gaza che ha gli incubi si porterà dietro il pensiero che egli è sempre in pericolo e, vivendo su di sé un costante pericolo, non sarà libero di amministrare il proprio futuro. Da qui il discorso precedente sulla semina del futuro “terrorismo”. Dato che va ben oltre l’umano sentimento della vendetta . Sarà l’adolescenza a poter dire qualcosa di più preciso sui confini del desiderio di vendetta.

 

La rabbia. La rabbia è un sentimento abbastanza frequente nel bambino normale, ma in un bambino che ha vissuto o sta vivendo esperienze di guerra (?) la rabbia assume caratteristiche ovviamente assai più marcate, più rilevanti e anche pericolose. Nel senso che la rabbia è (se non elaborata) sempre distruttiva o autodistruttiva. E qui il pericolo per i preadolescenti e adolescenti.

 

Gli psicologi di Medici senza Frontiere e di Save the Children che hanno avuto modo di entrare in contatto con bambini di Gaza particolarmente “arrabbiati”, appunto, cercano di fare elaborare ai loro piccoli pazienti la rabbia. Ma gli psicologi stessi ammettono una chiara difficoltà terapeutica proprio perchè la rabbia dei bambini di Gaza “è pienamente giustificata”. Ovvero non è frutto di motivazioni inconsce o altro, ma è frutto di quello che casca dal cielo. Gli psicologi allora parlano di “indirizzare la rabbia verso un obiettivo il meno pericoloso possibile per il bambino stesso”, visto che la elaborazione è una cosa lunga e difficile come vedremo alla fine.

La rabbia, in psicologia, è vista come una forma di reazione e/o risposta (emozione secondaria) da parte di una persona a situazioni sfavorevoli. Sempre in psicologia, sono riconosciuti tre tipi di ira: la prima forma, denominata “rabbia frettolosa ed improvvisa” : condivisa da essere umano e animale, si verifica quando il soggetto (in questo caso il nostro bambino di Gaza) si vede tormentato o intrappolato. Che Gaza sia una prigione a cielo aperto non ci sono dubbi da gran tempo. Quello che ho sempre pensato sulla questione è che il nostro bambino non ha assolutamente conoscenza e, ovviamente, nemmeno coscienza di un altro mondo, di altre terre, di altre strade, di altri edifici se non quelli che vede ridotti in polvere della sua città o del suo paese. Non ha altre cognizioni di queste soprattutto quando, assieme alla sua famiglia, viene spostato come un birillo da una parte all’altra senza che egli possa capire la ragione, il nesso, il senso per l’appunto. Lui vede sempre il “tutto uguale”.

In riferimento alla rabbia questo è molto importante perché il bambino ha sempre più chiara la percezione della “trappola” sia spaziale che temporale. Il suo pensiero è che fuori da lì non ci andrà mai e semmai un giorno ci potesse andare il suo primo sentimento non sarà liberazione ma vendetta. E questo i signori della guerra israeliani lo sanno benissimo.

La seconda forma, chiamata “rabbia costante e deliberata”, è una reazione alla percezione deliberata di subire un trattamento ingiusto oppure un danno da altri soggetti. A Gaza il “danno” può essere una mano, un piede, una gamba o anche il corpo intero. E il bambino questi corpi in pezzi li vede e il suo pensiero precoce di “ingiustizia subita” comincerà ben presto a elaborarsi (questa volta sì che c’è la elaborazione) in un progetto, vago al momento, ma pur sempre un progetto, proprio perché c’è elaborazione. Il bambino di Gaza ha un corpo che immagazzina e tiene là, e dentro si vede tutto (diversamente, al momento, non potrebbe fare).

I pochi medici rimasti presenti nel territorio, e che in qualche modo possono parlare con l’esterno della prigione, parlano in questo senso di un gravissimo e sintomatico senso di frustrazione e di impotenza anche in bambini giovanissimi (due o tre anni) che a volte rivolgono contro di sé tale frustrazione con graffi al viso principalmente. Come se un bambino di due anni potesse dire:” Se potessi fare qualcosa, ed invece sono qui impotente”. Ovviamente non lo dice ma lo sperimenta nel suo corpo. Giorno e notte. Insisto sulla questione del sonno e del sogno dei bambini a Gaza: non possono essere né ristoratori né liberatori.

Di seguito la testimonianza di una madre di Gaza, di nome Heba, fuggita in Egitto con la sua famiglia:

Heba, 28 anni, vive in un appartamento al Cairo con il marito e i tre figli Rami di 7, Sana di 10 e Samira di 12. Tutti sono stati gravemente feriti da un attacco aereo a Gaza. Heba racconta che suo figlio Rami, ha riportato ferite alla testa e alla gamba e che adesso ha paura di tutto:

“Rami era in realtà noto per essere molto coraggioso e consolava sempre la famiglia. Ma da quando si è ferito è diventato un bambino che teme qualsiasi rumore o che ha paura del buio e non può stare da solo o andare in bagno da solo. Da dopo la guerra, le ragazzine hanno un battito cardiaco più elevato, hanno paura e pensano che la morte sia dietro l’angolo. Anche quando stavamo guidando dal confine al Cairo… Samira aveva gli incubi e si svegliava pensando che fossimo morti e che tutto fosse stato distrutto.”

E’ il panorama finora descritto in psicologia che ora prende forma viva nella viva testimonianza di Heba.

Dunque incubi, rabbia, enuresi notturna.

 

Enuresi notturna. Certo non voglio qui parlare della enuresi notturna come sintomo in sé, né come sintomo che può essere considerato normale in bambini fino al quinto anno d’età circa. Parlo della enuresi notturna in bambini che vivono in condizioni di estrema ansia, condizioni di estrema precarietà, condizioni di rabbia contro tutto e contro tutti. Voglio prendere in considerazione di una particolare conseguenza nel bambino, in questo caso il piccolo gazawo. La perdita involontaria di urina durante il sonno (ma esiste uno studio di Save the Children che parla del verificarsi di questo sintomo anche nello stato di veglia) è la perdita dell’ autostima. Non avere il controllo del proprio corpo ovviamente comporta vergogna ed imbarazzo. Il non avere il controllo significa sperimentare l’impotenza, ma soprattutto nella enuresi notturna questa perdita di controllo si verifica proprio in quella parte del corpo stesso che sta sessualmente “nascendo”.

Voglio dire che la perdita di controllo proprio in quella parte del corpo (maschio o femmina non fa differenza) fa sì che nel bambino si determinino domande, incertezze, perdite di fiducia in se stesso che in questo specifico luogo del suo corpo e periodo della crescita lo interessa particolarmente: “traumi ed eventi stressanti” sono visti dalla Psicologia come cause primarie della enuresi notturna.

Oltre a queste sofferenze che ho cercato brevemente di focalizzare, per i bambini di Gaza sta apparendo all’orizzonte una ulteriore e insopportabile (nel senso che ne va della vita senza bombe e senza proiettili) realtà. Quella della fame e della morte per fame.

La fame ormai diviene causa di morte a Gaza. A Gaza migliaia di bambini sono morti e continuano a morire sotto le bombe. A Gaza centinaia di bambini stanno morendo e un numero ancora maggiore è destinato a perire per mancanza di cibo. Circa 71000 bambini di età inferiore ai 5 anni potrebbero essere gravemente malnutriti nei prossimi 11 mesi, e uno su cinque di questi potrebbe andare incontro a una grave malnutrizione acuta. Un rapporto di STC conclude che l’intera popolazione è a rischio di carestia, soprattutto dopo il blocco degli aiuti che è durato dal 2 marzo al 19 maggio 2025.

Di Jenan, un bambino di 4 mesi, e di Aya, la loro mamma parla. Una équipe di Emergency ha parlato con Aya in una clinica di Gaza, dove la donna stava cercando di curare la diarrea e la malnutrizione acuta che Jenan sta affrontando da tre mesi. Più tardi, quel giorno, Aya si è svegliata e ha scoperto che il suo bambino era morto al suo fianco. Gli integratori alimentari a base di lattosio di cui aveva bisogno non erano disponibili. Alla fine, la combinazione di malnutrizione e diarrea è stata letale.

Come si chiama la morte per fame? La morte procurata attraverso la fame e la sete? Che cosa può succedere in un bambino in agonia per mancanza di cibo? Cosa può provare un genitore nell’assistere alla morte di un figlio per fame? Certamente l’impotenza ma soprattutto la rabbia. E poi ci sono ulteriori “distinguo”. Un conto è avere un figlio che viene dilaniato da una bomba, o ucciso da un proiettile, ma ben altra cosa è il “tempo” in cui padre e madre (se tutti e due sono ancora vivi) cercano di assistere la loro creatura affamata. Io credo che il senso di questo “tipo” di tempo sia assai presente in questo momento a Gaza. Il “tipo” di tempo che scorre velocissimamente e che qualcuno impotentemente vorrebbe trattenere. Il genitore che assiste al proprio figlio che sta per morire di fame sente la frustrazione e l’impotenza su di sé come sentisse l’esplodere delle bombe dentro le proprie ossa. E per i bambini (le cui immagini in questi giorni cominciano a comparire nei media europei) che muoiono e/o andranno a morire nei prossimi tempi, il “tempo” ha già assunto una connotazione irreale, nemmeno immaginabile da ciascuno di noi.

Credo che i bambini che muoiono di fame a Gaza si possano vedere in televisione, ma la realtà percettiva e identitaria del bambino sfugge a qualsiasi cinepresa. Il nulla assoluto e dunque la solitudine assoluta.

 

Secondo la FAO circa 30/35000 persone muoiono ogni giorno di fame al mondo (la percentuale dei bambini è approssimativamente del 30%) e vivono la straziante esperienza dell’inedia o la altrettanto dolorosa sindrome di kwasshiorkor (insufficiente apporto di vitamine), quella che comunemente è stata fatta vedere in TV ai tempi della carestia nel Biafra, cioè la “pancia a pentola” con tutte le sofferenze epatiche relative.

Situazioni di questo tipo sono presenti in questi ultimi mesi a Gaza. La fonte di queste testimoniante e videoregistrazioni è un gruppo di giornalisti indipendenti che ancora oggi riescono a lavorare in quel territorio:

“Come dimostrano questa e altre innumerevoli storie tragiche, quando il cibo scarseggia, i bambini sono esposti a un rischio maggiore di morire di fame rispetto agli adulti. Per far crescere i loro giovani corpi, hanno bisogno di più nutrienti, ma hanno meno riserve a cui attingere. Senza cibo nutriente, diventano più vulnerabili alle malattie che li circondano, come il morbillo, la polmonite e la diarrea. Quando sono già deboli a causa della malnutrizione, la loro capacità di assorbire i nutrienti è ridotta. I loro sistemi si bloccano, non sono in grado di utilizzare le energie limitate per rispondere alle infezioni, creando un circolo vizioso. L’impatto si fa sentire anche prima che compaiano i segni visibili, come gli occhi bruciacchiati e la pelle scarnificata, segni che sono ben noti grazie alle immagini di precedenti carestie, anche nel mio Paese, l’Etiopia”.

 

“I sistemi si bloccano”. Per l’appunto. Si blocca l’intero sistema di crescita Per questo motivo da parte di alcuni psicologi di Save the Children cominciano ad essere fatti studi (oltre che interventi sul campo) per mettere in relazione il cosiddetto e generico “ritardo mentale” al tempo della mancanza di cibo sufficiente.

Per questo motivo il “tempo” di cui parlavo sopra è importante. In questo caso il tempo, ovvio, che i bambini restino per il minor tempo possibile nella situazione di carenza alimentare.

Ritengo che il generico “ritardo mentale” sarà la conseguenza nei prossimi decenni più evidente sui bambini della distruzione in atto a Gaza. Le conseguenza psicologiche, comportamentali, sistemiche, ambientali, emotive, sessuali, etc, sono certo importanti. Ma il “ritardo mentale” è l’apice che molti psicologi delle Organizzazione in azione a Gaza cominciano a paventare.

E ancora si legge in Saluteinternazionale.info che esiste un rapporto di IPC (Integrated Food Security Phase Classification IPC) che è un partner della Organizzazione Mondiale della Sanità il quale conclude che l’intera popolazione è a rischio di carestia, soprattutto dopo il blocco degli aiuti che è durato dal 2 marzo al 19 maggio 2025. Il rapporto dell’IPC ha suscitato l’interesse dell’opinione pubblica.

La fame dunque. In inglese si dice starvation questo tipo di fame nella accezione di “affamare, fare morire di fame”.

 

E ancora. Che cosa entra e che cosa resta nella testa del bambino magari non ancora ospedalizzato ma sofferente in casa a causa della fame mentre assiste al dramma della ricerca disperata del cibo? Che cosa succede nel suo “pensiero” di fame che sta vivendo? Che senso darà a quello che vede fuori dalla tenda? Che senso hanno le persone che muoiono alla ricerca di cibo? Che senso darà lui a tutte quelle persone che gridano e si accalcano attorno ai camion fumosi o ai pentoloni bollenti della distribuzione alla ricerca di semolino della cui mancanza lui sta già sentendo i sintomi? Ma qui possiamo senza tema di smentita parlare di “morsi”?

Il bambino, almeno quello senziente vede e pensa che le persone, i loro genitori per primi, non dovrebbero rischiare la vita per procurarsi il cibo. Ma è questo che i bambini vedono. Vedono l’assurdo che diviene quotidiano attorno ai quattro centri di distribuzione di cibo dispersi in tutta Gaza dalla GHF, sulla cui funzionalità e intenzionalità (almeno in queste righe) è meglio stendere un pietoso (?) velo.

Il sistema di distribuzione del cibo, gestito da questa nuova entità non è equo e non è efficace. Le Nazioni Unite e i partners hanno dimostrato più volte che le strutture esistenti funzionano. Durante il breve cessate il fuoco, l’ONU ha consegnato 600-700 camion al giorno di rifornimenti. C’è bisogno di molteplici attraversamenti aperti per sostenere il lavoro di salvataggio. C’è bisogno che coloro che i trasportatori siano protetti, non feriti.

Ma a questo punto vorrei tornare ancora sulla questione di partenza, ovvero la salute mentale dei bambini a Gaza.

«Con il proseguire della guerra si prevede che ogni bambino a Gaza avrà bisogno di assistenza psicologica»: lo si legge in un rapporto del Gaza Community Mental Health Program, non profit nata nel 1990.  Sottoposti a continui bombardamenti, estrema insicurezza alimentare e a continui spostamenti forzati, la salute mentale degli abitanti della Striscia sta subendo un deterioramento mai visto prima. I bambini, in particolare, sono fra le categorie che più ne risentono. Lo studio spiega che «i bambini vivono in uno stato di tragedia infinita viste le loro vulnerabilità e incapacità di proteggersi dagli attacchi israeliani da un lato e da quelli sociali dall’altro».

Amal, madre di quattro bambini fra i 7 e i 14 anni, riferisce a Save The Children che la salute mentale dei figli «non è deteriorata, ma è stata completamente annientata». «Con la guerra sono iniziati anche il loro terrore, le loro urla e pianti – prosegue Amal – Ora alcuni dei miei figli non riescono a concentrarsi su compiti basilari. Si dimenticano cose che gli ho appena detto o che sono appena successe. Mia figlia amava disegnare, disegnava momenti conviviali, famiglia, vita. Adesso disegna soldati, sangue e guerra».

Intervistata da il manifesto, la psicologa Valeria Colasanti, che fa parte di Sanitari per Gaza, movimento spontaneo di sanitari italiani nato a dicembre 2023 in risposta al massacro della popolazione palestinese, riporta la definizione di salute mentale dell’Oms come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o infermità». «Fondamentale – continua – è quindi la possibilità di partecipare a pieno alla vita di comunità e di esprimere le proprie potenzialità – ci spiega la psicologa – Ciò non è possibile a Gaza: scuole, università, quartieri sono distrutti, la famiglia e gli amici muoiono sotto le bombe. Si tratta di un attacco alla salute mentale collettiva che porta alla distruzione psicologica completa».

Parlavo prima di “tempo”. E il tempo è un tempo contro anche nella previsione degli effetti futuri che bombe, fughe, sangue, impotenza e rabbia, fatica, mancanza di sonno, incubi, etc. avranno sui bambini. In molti casi si è già registrata la irreversibilità dei disturbi mentali.

 

Questa è una questione su cui vorrei fermarmi.

La domanda è semplice ma purtroppo, sin dall’inizio, senza risposta. Per quanto tempo i bambini di Gaza porteranno dentro la loro mente, il loro cuore, il loro pensiero (non voglio toccare qui la questione del corpo) le immagini, gli odori, i sapori, i rumori, gli incubi, la rabbia, la paura reale, etc. di quello che hanno sperimentato nella loro pelle?

I traumi psicologici reali (come li chiama la Psicologia) sono di difficile gestione da parte della stessa Psicologia. In Europa noi Psicologi abbiamo a che fare con bambini disturbati e sofferenti. Bene, spesso la causa della sofferenza è “sistemica”, ovvero dipende da quelli che sono i comportamenti della famiglia e da quelli che sono i vissuti del bambino in merito a questo, oppure sociale o di gruppo, ovvero quando il bambino vive profondo disagio in situazioni, luoghi, contesti della sua crescita come la scuola, le amicizie, etc.

Può accadere anche che, meno frequentemente, il bambino europeo viva una sofferenza direttamente dipendente da situazioni traumatiche (violenze domestiche, sia psichiche che fisiche, violenze sessuali, bullismo a scuola o tra gli amici, traumi relativi a perdita di persone amate o separazione dei genitori: tutte situazioni per cui, con maggiore o minore fatica, il bambino può “elaborare”, attraverso l’aiuto dello psicologo, il proprio dolore) .

 

Ma lo spartiacque tra la recuperabilità e la non recuperabilità delle conseguenze del dolore o del trauma, si pone nella capacità del bambino di “elaborare”. Ovvero di capire e di farsi una ragione (per quanto possibile) quello che gli sta accadendo o è accaduto.

 

Io mi sono più volte chiesto se i bambini di Gaza, la sofferenza dei bambini di Gaza possa essere mai elaborata, oppure se la stessa abbia inevitabilmente segnato il loro destino. Ovvero che non essendoci possibilità di elaborazione dunque non ci sia possibilità di ritorno. Tutto il loro tempo di vita sarà davvero andato perduto? Sarà andato perduto anche il senso delle esperienze che fino a qui hanno maturato?

 

Le conseguenze di violenza, fame, incubi, spostamenti continui, stato di “prigionia” come realtà di tutti i giorni, corse a prendere l’acqua e non trovarla, attese per aspettare il sacco di farina invano, il vedere le persone che vengono ammazzate per lo stesso motivo per cui il bambino si trova in quel posto, la disperazione e la impotenza pensando che domani sarà la stessa cosa, vedere i violenti negli occhi, magari conoscerli anche per nome, queste sofferenze saranno mai “messe in ordine” dal piccolo o dalla piccola gazawi?

 

Nel rapporto Intrappolati e Feriti: l’aggravarsi del danno mentale inflitto ai bambini palestinesi di Gaza pubblicato a gennaio, Save The Children (Stc) sottolinea che queste condizioni rappresentano «rischi da manuale di un danno mentale duraturo per i bambini di Gaza».

Medici del Mondo stima che, già prima della crisi umanitaria odierna, 543mila bambini a Gaza avevano bisogno di supporto psicologico. Secondo uno studio del 2011 di Abdel Aziz Thabet e Panos Vostanis, professori di psichiatria infantile rispettivamente all’università palestinese Al-Quds e a quella inglese di Leicester, il 40,6% dei bambini gazawi tra i 7 e i 12 anni accusava “sindrome post traumatica da stress” (Ptsd) da moderato a severo in seguito alla prima Intifada (1987-1993), in cui i soldati e i coloni israeliani uccisero almeno mille palestinesi.

Ancora Valeria Colasanti spiega che la Ptsd è la patologia più comune rilevata nei bambini in seguito alle varie offensive contro Gaza. «Uno degli effetti principali della Ptsd nei bambini palestinesi della Striscia, che vengono sottoposti a traumi continui, è la riduzione della capacità di superare trauma. Il sistema che risponde allo stress e agli stimoli paurosi (l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, anche detto asse della paura) è costantemente iperattivo, non più funzionale ma patologico. La Ptsd incide inoltre anche sul sonno e sulla memoria».

Il ritardo mentale dovuto alla starvation messa in atto da Netanyahu e dai suoi falchi.

Un ulteriore aspetto della Ptsd è la sua possibile trasmissione intergenerazionale. Colasanti riporta che uno studio condotto dal Mount Sinai Hospital di New York sui sopravvissuti all’Olocausto «ha rilevato delle alterazioni genetiche collegabili all’ansia e allo stress. L’ipotesi, che poi andrà verificata, è che le generazioni future gazawi potrebbero avere disturbi dell’umore e dell’ansia ereditati dai traumi a cui i loro genitori sono sottoposti ora».

«I continui conflitti e bombardamenti – continua Colasanti – hanno ulteriori conseguenze psicologiche nella popolazione infantile di Gaza, ad esempio l’arresto evolutivo nei più piccoli e problemi dell’attaccamento che derivano in parte dall’impossibilità dei genitori di sostenere i figli a causa del loro stesso trauma».

Oggi sono tanti i bambini privati del supporto familiare: ci sono più di 17mila orfani, stimava l’Unicef a febbraio 2024.

La traumatizzazione dei bambini palestinesi non è quindi confinata fra il 7 ottobre 2023 e oggi: «Dal 1948 la popolazione palestinese è incessantemente esposta a immagini di morte, alla perdita di amici e famigliari – prosegue Colasanti – Gli abitanti non hanno quindi la possibilità di elaborare il trauma e cadono nello stato mentale di ‘impotenza appresa’, che consiste nella realizzazione di non avere alcun controllo sulla propria vita».

Il massacro odierno a cui è sottoposta la popolazione di Gaza è, però, diverso. Stc sottolinea che «tutti i genitori, i tutori e i partner riportano che questa escalation differisce da tutte quelle che la precedono. I partecipanti [allo studio di Stc] hanno attribuito questo all’intensità, la durata e la condotta delle ostilità; al diffuso e sistematico sfollamento forzato, all’impossibilità di accedere ai beni primari necessari per la sopravvivenza e alla decimazione dei servizi pubblici».

Nonostante non esistano studi scientifici condotti sugli effetti piscologici del genocidio sui bambini – perché, come spiega la psicologa, le strutture universitarie della Striscia sono state sistematicamente distrutte nei primi 100 giorni di offensiva – l’indagine di Stc rivela che, rispetto ai conflitti precedenti, «ogni fattore di stress per il benessere psicosociale dei bambini è aumentato esponenzialmente, mentre, in contemporanea, ogni fattore protettivo è stato decimato».

E ritorno ai genitori, al “tempo” della loro vicinanza al figlio o alla figlia che patisce la fame. Intervistato da Stc, Maher, un padre, afferma che «la violenza di questa guerra è diversa. Prima non dovevamo lasciare le nostre case, ma ora non abbiamo nessun posto dove andare. Siamo stati sfollati sei volte. Siamo andati in un posto sicuro e poi lo hanno bombardato».

L’infermiera di Medici Senza Frontiere (Msf) Martina Marchiò, che fra aprile e maggio 2024 ha lavorato in diverse strutture sanitarie a Rafah, Deir al Balah e Khan Yunis, descrive le circostanze in cui i bambini sono costretti a vivere a Gaza: «Tutti i bambini hanno perso almeno un membro della famiglia e sono continuamente sottoposti a immagini di cadaveri; sono in continuo movimento, alcuni sono stati sfollati 11 o 12 volte. A Gaza al momento non c’è un posto sicuro per nessuno».

A partire da ottobre 2023, in media 10 bambini al giorno stanno perdendo una o entrambe le gambe secondo una stima di Stc. «Un’alta percentuale di feriti negli ospedali di Msf sono bambini – riferisce Marchiò – molti di loro sono ora disabili e hanno subito amputazioni a uno o più arti. Essere disabili a Gaza è di una difficoltà inimmaginabile». In un rapporto di febbraio, Acaps – un’organizzazione non governativa che fornisce analisi umanitarie – riferisce che le incessanti offensive aeree e terrestri sottopongono le persone disabili a rischi potenzialmente letali che includono l’impossibilità di scappare, di accedere alle cosiddette ‘zone sicure’ e la separazione dai loro caregivers.

Marchiò parla di «un’infanzia negata»: «I bambini che arrivano in ospedale sono in stato di shock, fanno incubi e non dormono. Una bambina di 9 anni era appena stata medicata per una ferita, quando si è sentita una forte esplosione vicino all’ospedale. Lei è rimasta immobile e non ha reagito per qualche minuto. Ho scoperto poi da una psicologa che i suoi famigliari erano morti in un’altra esplosione».

«Un’altra bambina era seduta a terra con dei pattini a rotelle – continua – suo padre le dice che non si può pattinare, le strade non esistono più. Lei rimane seduta là, da sola, a fissare il vuoto». Ali, un membro dello staff di Stc a Gaza, ha riferito a gennaio che i bambini «trascorrono le loro giornate come gli adulti, cercando di sopravvivere. Si svegliano e cercano l’acqua, cercano cibo. È a questo che pensano ora, la loro vita è cambiata. I bambini non sono più bambini. Non giocano più in un parco giochi o fanno sport. Fanno la fila per l’acqua o vendono piccole cose agli angoli delle strade per guadagnare qualche soldo».

Appunto la “deumanizzazione” fatta progetto, affamare e assetare per rendere il tempo degli abitanti di Gaza il tempo degli animali che altro non hanno da fare nella giornata che procurarsi di che mangiare e di che bere, oltre il pensiero costante di come sopravvivere.

«Ho sentito una bambina di 9 anni dire che non le importava più di morire, voleva solo che tutto finisse e raggiungere la sua mamma – testimonia l’infermiera di Msf – A Gaza nessuno parla più di futuro». Uno dei rari momenti di speranza collettivi risale al 5 maggio, il giorno in cui i capi di Hamas hanno firmato il patto di cessate il fuoco permanente supportato dall’Egitto e dal Qatar. «Quel giorno tutti erano per le strade a festeggiare, ma, durante la notte, ci sono stati bombardamenti molto pesanti e il giorno dopo è stata annunciata l’evacuazione. Tutti hanno capito cosa sarebbe successo».

Noi in Europa, almeno noi europei che seguiamo attraverso i media questa tragedia, penso avremo tutti fatto una domanda: “Ma i Palestinesi, i bambini palestinesi, vengono trattati da esseri umani oppure no?”. In quanto anche il nemico della guerra viene colpito, violentato, abusato; tuttavia l’elemento che nella Storia (a mio modo di vedere) ha tracciato la accettabilità o meno di un conflitto sia stata la “umanizzazione”. E qui penso a tutti i conflitti in cui il cosiddetto nemico è stato “deumanizzato”. Tutte le conquiste dell’occidente verso l’Africa o l’America latina, La conquista dell’America del Nord a danno dei nativi, la conquista dei galeotti in Australia contro i Boscimani, per arrivare allo stesso “olocausto” e la distruzione dei passaporti durante la guerra nella ex Jugoslavia. Ma l’elenco potrebbe essere infinito. Tuttavia si tratta di fenomeni avvenuti nel passato più o meno remoto. Si pensava che l’Uomo Moderno non avrebbe mai più considerato il proprio nemico come un animale o peggio. Su RADIO Tre stamattina ho sentito una domanda tanto allucinante quanto potenzialmente illuminante. Chiedeva il radioascoltatore se da parte dei bambini israeliani sarebbe stata presa diversamente la notizia della uccisione di cento cani o di cento bambini palestinesi. Ma mi fermo qui.

Eppure a Gaza ci risiamo.

E concludo sui bambini di Gaza. Un’ulteriore componente che influisce sulla salute psicologica dei bambini è la narrazione deumanizzante attorno ai palestinesi. Stc ha chiesto a 32 bambini della Cisgiordania – ritenendo non etico intervistare bambini a Gaza – di commentare le affermazioni fatte da esponenti del governo israeliano, fra cui quelle del ministro della difesa Yoav Gallant che ha parlato di «animali umani». I bambini si sono dimostrati disillusi nei confronti del diritto internazionale, esprimendo la sensazione che «nessuno vuole che esistiamo su questo pianeta».

La psicologa di sanitari per Gaza ci riporta le testimonianze di medici e psicologi sul campo: «I bambini dicono di sentirsi presi di mira anche dal linguaggio dei media, che a volte si riferiscono ai palestinesi con termini denigratori. Questa sensazione di avere tutto il mondo contro va oltre ogni comprensibilità umana».

Colasanti infine spiega che il trauma provocato dagli oltre 9 mesi di genocidio, impilati sopra a decenni di oppressione e conflitti, è «continuo e collettivo. Il concetto di trauma che utilizziamo comunemente in Europa non è applicabile alla popolazione di Gaza, è troppo limitato; questo è un trauma che dura nel tempo, che riguarda un’intera popolazione e che si trasmette intergenerazionalmente».

Secondo Save The Children è possibile fornire ai bambini supporto psicosociale adeguato solo attraverso un “cessate il fuoco” permanente e immediato; altrimenti cresce la probabilità che il danno inflitto alla salute mentale dei bambini sia irreparabile e permanente.

 

Amaramente concludo che sulla irreparabilità e permanenza di incubi, ansia, rabbia non ho la certezza assoluta. Ma sono sicuro sul lascito di queste sofferenze sui bambini: il loro pensiero su se stessi sarà di “esseri senza diritto ad essere un essere umano”.

 

Guido Savio

 

 

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