Italo Svevo
Il fallimento del desiderio
Scrive Letizia Svevo Fonda Savio nel suo libro sul padre redatto assieme allo storico e
biografo dell’autore triestino Bruno Maier:
“Mio padre conobbe le opere di Freud in occasione della malattia psichica del cognato
Bruno; il quale, giova ricordarlo, prima di recarsi a Vienna per farsi curare direttamente da Freud, era stato curato a Trieste dal medico psicoanalista triestino Edoardo Weiss, allievo di Freud. Può darsi che papà abbia parlato di psicoanalisi anche con Weiss (da taluno identificato, ma a torto,con il Dottor S. della Coscienza di Zeno); (…) Quando Bruno Veneziani andò a Vienna da Freud,papà non lo accompagnò, sicchè non ebbe mai l’occasione di incontrari e di parlare con il fondatore della psicoanalisi. E’ anche opportuno tenere presente che le cure prestate da Freud a mio zio Bruno fallirono per colpa non tanto del medico, quanto del paziente: infatti Freud, delusoper l’insuccesso, disse chiaramente a Bruno Veneziani: “Dottor Veneziani (Bruno era laureato in Chimica), io posso curare soltanto chi accetta il mio metodo e le mie prescrizioni, non chi vi fa resistenza”. (Letizia Svevo Fonda Savio e Bruno Maier, Italo Svevo).
E ancora più avanti: “Il fallimento della cura prestata da Freud a Bruno Veneziani contribuì all’atteggiamento di sceticismoe di ironia nei confronti della psicoanalisi, proprio di mio padre. Tale atteggiamento, dicevo, è evidente nella Coscienza di Zeno; e risulta evidente anche dalle lettere che mio padre scrisse a Valerio Jahier, un giovane italiano residente a Parigi, che dopo aver vanamente tentato una cura psicanalitica, finì con il suicidarsi”. (idem).
Queste le impressioni della figlia di Svevo sul rapporto del padre con la psicoanalisi.
Riflessioni purtuttavia che non possono spiegare come l’opera più importante dell’autore triestinoruoti attorno a quella che nella realtà è una cura psicoanalitica se della dottrina di Freud Svevo avesse avuto soltanto valutazioni scettiche o al limite di tiepida e quasi inevitabile accettazione.
Accettare una idea e agire una idea, ricordiamolo, fa parte della nevrosi di Zeno. Svevo non poteva contraddire la sua nevrosi, ma anche se stesso, nella sua opera più profonda.
L’apatia di Zeno Cosini, il suo non prendere partito, il suo lasciarsi correre la vita a
fianco ne fanno per l’appunto l'”eroe negativo” di tanta critica letteraria.
D’altra parte anche dalla viva voce di Zeno i giudizi sulla psicoanalisi non sono affatto
lusinghieri, quando nell’ottavo capitolo della Coscienza di Zeno intitolato per l’appunto Psico-analisi Svevo scrive: “L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile.
(…) Ora mi trovo squilibrato a malato più che mai e, scrivendo, credo che mi netterò più facilmente del male che la cura mi ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare Importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso”.
La scelta di Zeno è chiara: la scrittura sostituirà la cura; ma di questo diremo in
seguito.
Oltre che cinico e di rifiuto, il giudizio di Svevo sulla psicoanalisi è acutamente ironico:
“…Però il dottore ammetteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia
rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di
uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c’era da soffrire di rimorsi, perchè avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie”.
Dunque il problema è questo: Zeno vorrebbe negare il valore della psicoanalisi
attraverso un’opera che è strutturata sulla analisi della psiche del suo protagonista.
Ma, come si accennava in precedenza, il problema, almeno a mio modo di vedere, è
presto risolto: La coscienza di Zeno è la storia di una malattia trattata dal soggetto della malattia stessa, dentro i limiti tracciati da un impianto teorico che il protagonista frequenta ma che la sua nevrosi non gli consente di accettare. E per il momento definiamo la nevrosi di Zeno con una sua stessa frase tratta da Confessioni di un vegliardo: “Io non sono colui che vissi ma colui che descrissi”. Cioè la enunciazione della frattura tra la realtà e la finzione, finzione letteraria nel suo caso che per l’appunto non lo avrebbe mai portato ad ammettere che la realtà della cura è una realtà, un principio di realtà che impone anche rinuncia al principio di piacere, e forse il piacere di Zeno era la stessa sua mancanza di essere.
Mancanza splendidamente ripetuta (ripetizione che è patologia) nei suoi “U.S.” o “mai
più” come progettualità simboliche, non tanto legate al fumo, quanto alla incapacità di mantenere la strada e arrivare ad una conclusione, di qualsiasi tipo essa potesse essere stata. Zeno, ovvero il mancante. Mancante prima di tutto in tragicità, in pathos. La logica di Zeno sembra sempre la logica del superstite, dello scampato, che per aver avuta salva la vita quando altri l’hanno perduta, può certo aver goduto della fortuna degli dei ma non certo della stima degli uomini.
Così Ruggero Jacobbi nelle sue pagine su Svevo raccolte sotto il titolo Ironia e realtà
e contenute in L’avventura del Novecento: “L’Amleto che egli (Svevo) interrogava nella sue notti
era quello che, alla fine dell’incontro con il fantasma paterno, si lamentava perchè il mondo è fuori di sesto, e soprattutto perchè tocca a lui, proprio a lui, la responsabilità di rimetterlo in ordine. Una ‘maledetta fatalità’ come dice appunto Shakespeare, o l’incubo o l’ammonimento della storia? Tutti i protagonisti di Svevo saranno amletici, ma non eredi regali, non grandi forme tragiche, bensì ridotti a fare di povere vie e di povere case la loro Danimarca: dimessi e goffi nell’abito, irriconoscibili dalla folla, condannati a sentire il proprio io e la propria responsabilità in un mondo che viceversa si consuma in conformimo, in ripetizioni di consuetudini e di norme”.
Certo che Svevo apriva con la Coscienza di Zeno una strada ad un romanzo italiano
moderno di particolari virtù critiche e dialettiche, ma limitato alla drammaticità proiettata dal singolo personaggio principale, angoscia come incapacità di vivere anche se intesa come elemento universale. A ripetersi, in Zeno “manca qualcosa” che non è semplicemente un indicare la soluzione ma, forse, un accettare lo scacco.
E nel suo inventario delle nevrosi Freud parla di “nevrosi da scacco” con l’eccezione
che Zeno “salva sempre la pelle”, la salva anche dalla psicoanalisi.
In Zeno, come sottolineava Claudio Magris esiste una netta frattura tra azione e
coscienza, tra vita e giudizio sulla vita: la vita è diventata meritevole di essere vissuta in quanto è stata fissata sulla carta. Ma dobbiamo anche ricordare che nessun scrittore come Svevo si è calatonell’enigma della psicopatologia quotidiana per cercare il senso della vita stessa. E’ questo che fa della Coscienza di Zeno un’opera nel registro della psicoanalisi e nel tempo stesso un’opera che va a scandagliare il caos della vita per cercarne un accomodamento. E forse è anche questo il senso
delle nevrosi di Zeno: il compromesso, l’accomodamento della singolarità dell’Io al molteplice del reale. Non una lotta o una tensione per la soluzione, bensì un intelligente insinuarsi nel vantaggio, o, meglio, nel minor svantaggio che la vita può offrire. Freud parlava del “vantaggio secondario della malattia”. Zeno è la ragion pratica di questo vantaggio.
Ancora in tema freudiano (Il Disagio della Civiltà, 1929) Zeno è sì un poeta che forse
più di altri ha sentito la sua esistenza minacciata dal galoppare delle civiltà priva di valori, ma è
anche il soggetto che ha trovato in questa decadenza uno spazio vivibile.
Zeno, in sostanza, è il re della ambiguità in quanto mette in scena il suo mondo con
una maliziosa predisposizione che la sua famosa “coscienza” ha già stimato essere possibili. Non esiste azzardo o devianza, il caso è perfettamente controllato da una corazza che Zeno sembra essersi costruita con infinita arte. Quella corazza che gli permetterà, come già detto in precedenza, di rimanere un sopravvissuto: La sua “coscienza”, la sua conoscienza glielo hanno permesso.
Zeno ha assunto il tema della sincerità, ma questo è il tema della sua confessione,
non certo della sua vita che si è sempre mossa in un ambito di abili mascherature.
Scrive ancora Jacobbi nel saggio già citato: “Zeno è un personaggio clamorosamente
stratificato, raddoppiato momento per momento dalla sua stessa visione riflessa. Più ancora dei
personaggi di Pirandello dedicatisi alla malasorte di ‘vedersi vivere’ (poniamo casi estremi Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda) il personaggio Zeno affida a questa contemplazione un senso di Weltanschauung , risolve completamente in essa la sua capacità di rersistere al mondo.”
Queste parole di Jacobbi ci sonsentono di addentrarci ancora di più nella questione
della nevrosi di Zeno: contemplando il mondo Zeno resiste al mondo.
Tutto sommato questa non è altro che una modalità difensiva, un principio di
autoconservazione che rispecchia una salute, non certo una malattia. Dove le cose si complicano è quando Zeno si presenta trasgressore della legge delle relazioni.
Le relazioni di Zeno non hanno regola, non hanno regola in quanto Zeno le vede tutte
possibili, tutto rientra nel possibile e dunque la questione della differenza, che è la questione della scelta, dello stare da qualche parte, di prendere partito, viene meno. Nella stima dell’altro Zeno non fa differenziazioni, non si mette in discussione nel suo sì o nel suo no (peraltro molto rari).
Sembra
che in alcune occasioni Zeno sia senza desiderio, che la sua malattia sia una netta assenza di
desiderio, è il pathos che gli manca a determinare la sua malattia, una malattia che a molti lettori, e a molti critici, lo ha reso antipatico. Anche il desiderio ha una legge, anzi, il desiderio porta a soddisfazione solamente se è normato: ciò che manca a Zeno che trascina le sue giornate nel pensamento della possibilità del suo desiderio più che a metterlo in regola.
E per desiderio si pensa sempre a desiderio nelle relazioni e La Coscienza di Zeno è
la confessione del fallimento del desiderio legale, intendendo per legale rispettoso dell’altro nella sua diversità, rispettoso del limite del soggetto e della sua propria responsabilità di fronte allo steso desiderio dell’altro.
Se il desiderio è il desiderio dell’altro, come afferma Lacan, Zeno dimostra come il
desiderio dell’altro possa essere un semplice accessorio alla possibilità (non alla attualità) del
proprio.
La coscienza di Zeno è una confessione sulla carta, non è una confessione all’altro,
l’altro come altro polo della relazione è sempre assente in Zeno.
Da qui il fallimento della sua analisi che è relazione con un altro (l’analista).
Si potrebbe dire che Zeno non ha inconscio, ha coscienza ma non ha inconscio. Ha Io
ma non ha inconscio. L’Io di Zeno è ciò che si oppone con maggiore fermezza alla verità del suo stesso essere. L’Io è tensione alla autoconservazione (il riferimento alla prima topica freudiana è evidente). L’Io di Zeno è un Io che in un certo senso incarna degli ideali, è un “voler essere”, ma rappresenta certamente l’altro di un se stesso incorporato, assimilato, fissato in qualche modo su di sè ma con una impronta non adatta.
E’ il rapporto tra Io e inconscio che in Zeno non funziona, e così in Zeno, col passare del tempo, si approfondisce la distanza che separa il soggetto dalla prorpia verità, la verità che sta, per l’appunto, nell’inconscio.
E non si può dire che nella Coscienza di Zeno siano assenti i tentativi per rintracciare
e abilitare l’inconscio, per renderlo legale rappresentante della sua intima verità. Ricordiamo che Zeno “sapeva” di psicoanalisi e in effetti la sua opera trasuda casistica psicoanalitica. Ricordiamo a titolo esemplificativo, oltre tutta la psicopatologia quotidiana, il sogno chiamiamolo così di Basedow, il ricordo di infanzia di sè e del fratello ammalato che può restare a casa a letto mentre lui deve andare a scuola, lo schiaffo in faccia ricevuto dal padre morente, ed infine, classico, il lapsus del funerale dell’amico Guido Speier. Dello schiaffo del padre parleremo in seguito.
Riporto qui alcune osservazioni sul lapus del funerale.
Scrive Letizia Svevo Fonda Savio nel già citato testo: “Mio padre afferma in una
lettera a Valerio Jahier che il lapsus del funerale era stato fatto da lui argomento di una novella
‘intonata solo a un grande buon umore’ e composta molto prima di avere conosciuto Freud, cioè
prima del periodo 1908-12, durante il quale, per sua stessa ammissione, aveva cominciato ad
interessarsi di psicoanalisi”.
E, a dire il vero, il ‘buon umore’ resta nella descrizione che Svevo fa del lapsus del
funerale all’interno della Coscienza.
“Dev’essere un errore!” esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori
posto.
Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di
forze in fondo alla vettura, con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.
“Ci siamo sbagliati!” esclamò. Quando arrivò a frenare lo scoppio della sua ilarità, mi
colmò di improperi. Io avrei dovuto vedere dove si andava perchè io avrei dovuto sapere l’ora e le persone ecc. Era il funerale di un altro!”,
Il lapsus, di per se stesso molto grave, viene trattato da Svevo nel rispetto della sua
logica positivistica agganciata a un freddo principio di ragion sufficiente: se questo è accaduto,
significa che non poteva accedere diversamente. E Svevo ha ragione in quanto era proprio la
relazione con Guido Speier era disturbata. La sua “coscienza” qui non gli viene in aiuto, e anche questo nel rispetto della sua logica: Zeno rimuove il suo stesso lapsus, cioè non lo vuole portare a coscienza, anzi adotta quel meccanismo classico di difesa che è l’ironia (forse quella adatta alla novella ironica di cui il lapsus del funerale doveva essere l’asse portante).
Nella sua Psicopatologia della vita quotidiana del 1901 Freud tratta i lapsus di questo
tipo (le dimenticanze) sotto il capitolo, per l’appunto La dimenticanza di propositi e afferma che la scarsa attenzione non serve certo a spiegare l’atto mancato.
Per spiegare la non esecuzione di azioni o propositi (intendiamo nei propositi un forte
investimento dlla volontà) Freud parla di “Interferenza di motivi ignoti e non conosciuti, oppure,
come si può anche dire, a una controvolontà . E il termine controvolontà si addice perfettamente alla pragmatica di Zeno. Ricordiamo sempre che il suo difetto è un difetto di volontà, un difetto di investimento.
Il lapsus, assieme al sogno, è considerato da Freud “la via regia all’inconscio”. Ciò che
non cade sotto i colpi della censura o della ragione costituisce l’assetto nucleare del soggetto, cioè il suo inconscio. Ora, riconoscere il proprio inconscio è per il nevrotico l’atto di sanzione della guarigione. Non riconoscendo che cè altro dentro di noi che non sottostà alle leggi delle non contraddizione, del pragmatismo e della ragione equivale a negare la propria nuclearità e anche la propria originalità di individuo per l’appunto distinto dagli altri.
La grande scoperta freudiana non si è manifestata nel registro della psicologia, che
tendeva alla descrizione scientifica e positivistica dei fenomeni, ma di avere individuato un altro
settore della psiche umana in cui certe leggi della ragione e del determinimo, non reggono, e
questo ambito, come abbiamo anche già visto, è quello dell’inconscio.
Questo inconscio che, se riconosciuto, funziona da istanza normativa del soggetto che
impara la conoscenza di se stesso a partire dalla conoscenza del proprio inconscio. Per questo
motivo Freud parla di Metapsicologia , cioè di un impianto dottrinale, ermeneutico, teorico, clinico e a suo modo anche scientifico, che vada oltre gli intendimenti della psicologia allora in atto che erano quelli di circostanziare, smontare e spiegare con la ragione i fenomeni che costituivano l’avvenire della psiche.
Non a caso la Scienza, il meccanismo scientifico che Freud usa è la Deutung , cioè
l’interpretazione che si sviluppi sul soggetto come unicità di fenomeno e non lo releghi a casistica comparativa.
Per tornare a Zeno possiamo dire che il lapsus del funerale senza dubbio è stato un
lampo di verità che era stato gettato nell’ingarbugliata sua relazione con Guido Speier. Zeno si
trova tra le mani una occasione unica, quella di capire la verità di questa relazione, ma egli non la sfrutta, non coglie il segno dell’inconscio, pur conoscendo l’esistenza dell’inconscio, non tanto dallo studio delle opere di Freud, quanto dal fatto che egli stesso articolò un’opera, La Coscienza di Zeno infarcita proprio dei segni dell’inconscio.
Se osserviamo bene Zeno ha una caratteristica formidabile, quella di passare sopra
agli eventi, e soprattutto quella di passare sopra alla sostanza (legalità) delle sue stesse relazioni. Il difetto di Zeno è la mancata identificazione. E’ il non identificarsi agli altri, cioè il non avere relazioni soddisfacenti con gli altri che lo porta alla chiusura.
Scrive Lacan nei suoi Scritti : “La verità su di sè, che il linguaggio non riesce a fornirgli
l’uomo la deve cercare nelle immagini degli altri ai quali si identificherà”. E’ questa la storia del
bambino ed è questa la storia dell’essere umano che diventa adulto. Zeno si mantiene sempre da una parte, si potrebbe dire anche che si mantiene al di sopra delle parti e non gioca mai la propria personalità mescolandola con quella degli altri.
Per questo egli non ottiene soddisfazione dalla sue relazioni: semplicemente perchè non le gioca in prima persona, cioè non le gioca nel suo inconscio. Sappiamo anche che la soddisfazione non avviene mai “ad uno” ma “a due” cioè nella relazione, nel riconoscimento della propria mancanza e nel creare per l’altro un luogo per inserirsi attivamente in questa mancanza. Cioè concedere all’altro una occasione di dare al soggetto l’occasione per essere soddisfatto. Questa sembra invece essere la parte che Zeno nega all’altro, cioè di fare parte attiva della sua soddisfazione.
Zeno sembra non volere accettare una prova, cioè quella della sua mancanza, di
mancanza di essere all’interno di se stesso, che egli non vuole reperire in altri. Qui, come si diceva in precedenza, in difetto di investimento e il difetto del desiderio che lo portano ad una non soluzione, nemmeno nel dolore che un certo tipo di soluzione rappresenta. Zeno teme il dolore e vuole tenersi lontano da questo affetto che altrimenti sancirebbe una sua inconcludenza: lo metterebbe, in altre parole, con le spalle al muro, cioè gli imporrebbe la “coscienza del proprio inconscio”.
G. Debenedetti scriveva nella raccolta di saggi dal 1964 al 65 compresi nel libro Il
Romanzo del Novecento che Zeno è sempre in attesa di un tram che deve passare, e noi
potremmo dire che questo tram si chiama desiderio.
Debenedetti ha alcune interessanti riflessioni di confronto tra Zeno e Il Processo di
Kafka. In Svevo “…l’imputato, ignaro dell’accusa, subisce da parte della vita ciò che il protagonista
del romanzo di Kafka subisce da parte degli impenetrabili magistrati: senonchè l’esito a lui è
favorevole: viene assolto e largamente indennizzato. L’aspetto tragico che persiste sotto la
vicenda, apparentemente giocosa, di Zeno è proprio quello di una condanna all’assoluzione; a una assoluzione che nell’intimo di un protagonista stupefatto è altrettanto gratuita e implacabile quanto una condanna per un fatto non commesso, pronunciata per motivi ignoti con un dispositivo che egli non potrà mai leggere e sulla base di un codice imperscrutabile”.
E’ vero che la vicenda di Zeno è la vicenda di un uomo in pericolo, anche se non
sempre il protagonista avverte tale pericolo: quello che a Zeno manca, come abbiamo già avuto
modo di dire, è la sperimentazione del dolore.
Non dimentichiamo neppure che quello di Zeno è un raccontare, un raccontare che
sfugge o per pigrizia o per incapacità, dalla vera portata anche di valori dei fatti. Se il romanzo di Zeno è un romanzo psicologico ciò è dovuto al fatto che tratta il vagabondaggio di un individuo nei labirinti a volte indimostrabili della sua psiche e in questo senso è anche un romanzo analitico.
Tutto ciò con una eccezione non da poco: Zeno, non riconoscendo ciò che sta sotto alla psicologia
(l’inconscio) non incontra il dolore e qualsiasi tipo di drammaticità è irrimediabilmente perduta.
Nella Coscienza non sono gli atti a fare la metapsicologia ma la scrittura tenta di dare un supporto a volte anche ermeneutico al tentativo rivolto verso la analisi: ma si tratta pur sempre di una analisi che traspare della scrittura e non già della sostanza degli eventi.
Svevo compie una svalutazione del tempo e con essa il nulla assurge a categoria del
vivere stesso. Mancando il dolore manca anche la categoria di riferimento al passato.
Un capitolo a parte della Coscienza può essere considerato La morte di mio padre. Una
vera confessione emerge dalle parole scritte di Zeno: Invece la morte di mio padre fu una vera,
grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più e poi io, a trent’anni, ero un uomo finito. (…) Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c’era più una dimane ove collocare il proposito “.
Possiamo dire che la sostanza della confessione non è data tanto dall’amore sincero
di Zeno per il padre (forse l’unica delle relazioni positive e legali descritte nell’opera) quanto dalla
enunciazione di Zeno che il suo desiderio era stato quello di dare soddisfazione al padre, cioè
l’affermare che il desiderio era il desiderio del padre. Non qui da intendersi come padre reale al
quale il figlio nella realtà deve dare soddisfazione, quanto il padre rappresentante della legge, del diritto, al quale il figlio si lega in un patto, in una promessa che è quella di perseguire la
soddisfazione all’interno di quiella legge di cui il padre è rappresentante ma che non incarna.
Il padre è sempre la posizione terza che si frappone al desiderio infantile rivolto al tutto
che può essere rappresentato dalla madre. Il padre è la relazione con il mondo che non consente il desiderio onnipotente. Il padre può essere inteso come l’ordine delle cose, quello che Lacan chiama “la metafora paterna” o “Il Nome del Padre”, cioè quella istanza simbolica a cui il padre rimanda e a cui il padre reale stesso deve sottostare: in altre parole la Legge.
La frase della confessione che il proprio desiderio è il desiderio del padre Zeno la
pronuncia piangendo disteso sul sofà accanto a Maria seduta vicino al letto: “I miei sforzi per
diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo
doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione”.
E’ questa di Zeno una sincera confessione d’amore, proprio perchè la sua
soddisfazione (possibile) egli la lega alla soddisfazione di un altro, il padre. Verrebbe qui da dire di un Altro con la “A” maiuscola, cioè del massimo rappresentante della diversità, essendo per l’appunto il padre a sancire la diversità e il distacco del soggetto dalla relazione duale con la madre.
Un Altro con la “A” maiuscola in quanto rappresentante di tutto ciò che è diverso dal
soggetto, il quale solo in questa diversità puà trovare soddisfazione. Zeno qui riconosce che il suo desiderio è il desiderio dell’altro, altro inteso come diversità. E questa è la condizione
imprescindibile affinchè soddisfazione intervenga: il riconoscimento della alterità dell’altro e che la relazione è possibile in quanto l’altro (e il suo desiderio) sono diversi.
Amore verso il padre anche quando questi compie in punto di morte l’imperscrutabilità
di un gesto al quale Zeno non saprà mai dare risposta: lo schiaffo: “…alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!”
Si sa per certo che questo schiaffo enigmatico può essere riferito ad un racconto che
l’amico pittore Umberto Veruda aveva fatto a Svevo a riguardo della madre che, morente, gli
avrebbe dato uno schiaffo, a quanto pare, pienamente motivato.
Ma non sta qui il punto della questione, nè tanto sta in una possibile ubris paterna
dell’ultimo momento assolutamente non in linea con il comportamento del padre verso Zeno prima di entrare in coma.
Il punto sta che Zeno ha il coraggio di confessare il fatto come atto certo dell’inconscio
paterno verso il quale egli non sa portare assolutamente nessuna spiegazione. Qui Svevo opera
una piena confessione di un enigma e non ne tenta nemmeno la soluzione. A ben guardare Zeno, descrivendo questa scena, pone a peso morto se stesso nelle mani del lettore che sulla
motivazione di questo schiaffo potrebbe fare mille ipotesi, e fra queste mille certo moltissime
plausibili. Forse è questo l’unico momento di tutta la Coscienza che Zeno si consegna indifeso al lettore e disposto ad accettare il suo giudizio. E’ l’unico momento in cui Zeno leva la maschera.
Per concludere.
Svevo non è uomo ma personaggio e in quanto tale usa la scrittura nella possibilità
che essa dà di dire e nascondere nello stesso tempo e la scrittura gli serve per dettagliare meglio la frattura che intercorre tra la vita e il giudizio sulla vita che nella Coscienza è proprio il caso di
definire latitante. La mancanza di Svevo è stata anche quella di usare la scrittura non per dire
l’uomo nel suo desiderio (e le sue conoscenze psicoanalitiche certo lo avrebbero aiutato) ma per negarlo in funzione del personaggio.
Ciò che fa dire a Jacobbi che Zeno fu il re della ambiguità. Ma potremmo dire di una
ambiguità giocata proprio sulla scrittura che gli è servita per osservarsi vivere e non perchè il
lettore lo potesse vedere vivere.
Infatti al contrario di Proust, Joyce, Musil e Kafka, Svevo non seppe staccarsi dal
modello ottocentesco della narrazione. Narrazione che per Svevo è ancora messa in scena di una personalità, ma sempre messa in scena. Narrazione che si arresta in un ragionamento nettamente positivistico ma ancora una volta negativo del desiderio con la frase contenuta nell’ultima pagina della Coscienza: “Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo”.
Per concludere su Svevo concludiamo su di una parola: rimpianto, in quanto Zeno ha
vissuto di rimpianto e nello stesso tempo è stato agente di rimpianto nelle relazioni che egli ha
saputo trattenere in vita.
Il rimpianto è sempre un rimpianto per un oggetto perduto e nel rimpianto esiste
sempre il senso, la sensazione, anche il pensiero del perduto: tutta la Coscienza trasuda di
un’aurea lasciata da una vita legata al rimpianto: Rimpianto sia per il vissuto, sia per il non vissuto, cioè per la categoria dei possibili.
Perduto il tempo, perduto l’amore, perduta la persona, perduta, a tratti in Zeno, anche
la identità, perduta, sommamente la possibilità (di avere portato a termine una soddifazione degna di questo nome).
Il perduto è nel tempo, forse il passare stesso del tempo genera la categoria del
perduto, indipendentemente e indifferentemente dalla qualità degli eventi.
Il rimpianto, in questo senso, è una categoria del passato.
La riflessione della Coscienza è un pensiero del presente che in qualche modo lancia
un ponte verso il passato, ma senza intenzionalità di riponderarlo e mutarlo nel futuro. Zeno è un soggetto che ripete in continuazione, ripete la sua condizione, ripete le sue relazioni, ripete anche i suoi errori.
Sembra che tutto per Zeno costituisca agente che ha compiuto azione di abbandono
nei suoi confronti e che egli abbia giocato al gioco di farsi abbandonare e il suo vissuto, anche se un grande dolore non ne viene professato, abbia il marchio del tradimento.
Si potrebbe quasi dire che Zeno viva una condizione in cui è stata tradita la sua buona
fede, il suo desiderio è stato leso, aspettandosi egli altro comportamento dall’altro in questione, ma la realtà delle cose ci presenta un Zeno che non ha mai compiuto grandi investimenti nell’altro e che proprio a causa di questa ua grande paura si sia sempre tirato indietro dall’investire per primo,
non abbia portato il suo desiderio alla concludenza. E in effetti Zeno, più che uno che si è sentito tradito, è uno che ha tradito.
Zeno ha rimpianto, ma non per il proprio desiderio che è stato disatteso dall’altro,
bensì perchè si è accorto che alla fin fine la sua malattia, che noi possiamo intendere come
inibizione del desiderio, gli rendeva di più che la guarigione.
Egli infatti ha modo di scrivere nella Coscienza : “Io amavo la mia malattia. Ricordai
con simpatia il povero Copler che preferiva la malattia reale all’immaginaria. Ero oramai d’accordo con lui: la malattia reale era abbastanza semplice: bastava lasciarla fare”.
E’ questa una frase che annuncia la vittoria della nevrosi. Il pensiero che la malattia
sia del corpo e non già del corpo pulsionale, cioè del corpo delle emozioni, ha definitivamente
convinto Zeno. La sua malattia rientra nei libri di medicina ma non nei libri di psicologia: ovvero il sintomo non è sine materia come lo sono tutti i sintomi nevrotici. Ha vinto la sua teoria patologica, la teoria patologica che sostiene la sintomatologia: è forse solo una questione di corpo e non di anima e dunque la psicoanalisi fallisce e riesce vincitore il pensiero patologico che ha negato l’inconscio,
unica via accessibile per poter riconoscere il corpo pulsionale, non il corpo medico ma il corpo delle pulsioni.
Malattia che A. Robbe-Grillet descrive in un suo saggio su Svevo contenuto in Le
Nouveau Roman :”Tempo ammalato, linguaggio ammalato, libido ammalata, coscienza
ammalata…, è più che evidente che non bisogna scorgere qui una vaga allegoria del peccato
originale, o una qualche altra lamentazione metafisica”.
I motivi della malattia sono nel corpo, non nell’anima, e in questo senso Zeno si sente
assolto. Ma Svevo non è uno stupido e non può sottrarsi a tutto ciò che la psicoanalisi ha detto.
Allora anche questa sua soluzione rientra nel gioco della fiction , il negare la psicoanalisi, così
negando che la sua malattia è dell’anima, trova una sua chiara esplicitazione che forse noi
possiamo tenere come lascito della Coscienza : “Una confessione scritta è sempre imbottita di
menzogne e noi (triestini) mentiamo ad ogni parola toscana”.
Tornando al tradimento possiamo dire questo: la sua frase è la seguente: “Io manco
apposta là dove tu ti sei sforzato di esserci”. Ad essere colpito e affondato è il desiderio: da qui
l’angoscia, anche nella formulazione freudiana della inesprimibilità libidica.
Per Zeno tutavia questo discorso non vale, egli infatti non ha aspettato l’altro, non ha
aspettato nessuno, e il suo rimpianto, semmai, sta in questo. Il suo rimpianto è allora un piangere ulteriormente (ri) sul tradimento che l’altro ha compiuto verso la sua fede, ma con la gravissima
eccezione qui che Zeno non ha nutrito fede in nessuno. Allora il suo è un accampare un rimpianto, senza motivazioni reali che lo possano giustificare.
Quello che Zeno ha voluto compiere, sacrificando il suo desiderio, è stato un “non
volerne sapere” dell’altro, un professare di essere stato tradito mentre è stato lui a tradire, un
tradire l’altro, ma soprattutto un aver tradito la propria Coscienza.
GUIDO VITTORIO SAVIO