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Del dolore (e della sua nobiltà quando è vero) quarto

Quarta parte e conclusiva. Il dolore può diventare, per l’uomo che lo sta patendo o attraversando, una occasione per cogliere se stesso. Imputazione significa che l’uomo non può vedersi vittima del dolore stesso (che in sè e per sè è impersonale) ma attore. Solo allora, se così sta scritto, si salva.

Dolore e imputazione

La condizione che fa di un uomo un soggetto che possa essere amato, è che sia imputabile, ovvero che sappia (voce del verbo sapere) rispondere delle proprie azioni; l’amore non può essere scisso dalla responsabilità come abilità di rispondere per proprio conto alle domande che l’amante rivolge all’amato. Imputazione significa la categoria dell’esserci nel momento in cui viene rivolta una domanda, e sappiamo che la domanda d’amore è una delle più difficile a cui rispondere. Dunque la vitalità del soggetto sta nel suo saper rispondere in merito all’amore. Ci si chiede ora se la imputabilità così intesa possa valere non già per l’umano che ama, bensì per l’umano che soffre. La domanda potrebbe essere posta in modo più colloquiale, gergale ma certo più incisivo: “il fatto che io soffra può farmi avere lo sconto?” Per “sconto” qui si intende “sconto” nella relazione, ovvero che l’altro abbia per me che soffro un occhio di riguardo o usi i guanti bianchi in vista del fatto che io sono in una condizione deficitaria.

La risposta non è semplice. La relazione tra soggetto e altro funziona nel momento in cui tutti i canoni egualitari sono funzionanti, nel momento in cui non c’è preponderanza degli interessi dell’uno nei confronti dell’altro ma soprattutto quando al mio altro io posso rivolgermi con la fiducia che egli sappia portare sulle proprie spalle la mia presenza e a me stesso non chiedo riduzioni nell’affidare il mio peso nella mani dell’altro che per l’appunto io ritengo per questo affidabile.

Si capisce bene a questo punto che nella relazione qualsiasi tipo di sconto acuirebbe la sofferenza già presente in quanto la limitazione inficerebbe la legalità della relazione stessa che basa sulla fiducia reciproca che l’altro abbia sufficienti risorse personali da supportarmi. La presenza del dolore in tutto ciò potrebbe costituire, se la relazione viene male impostata, un muro anzichè motivo di avvicinamento. Un muro nel momento in cui è il dolore stesso, e non l’altro che soffre l’entità con cui io mi metto in relazione. La relazione non funzionerebbe se io esautorassi l’altro come polo della relazione e lo sostituissi con il suo stesso dolore. Allora il dolore prenderebbe il sopravvento ed io correrei il rischio di perdere la prospettiva esatta dell’altro che sta con me, prospettiva che dice che si tratta sempre di un altro, mai del suo dolore. Accadrebbe come in quelle relazioni che si basano sul “rispetto”. A ben vedere non si tratta affatto di relazioni legali. Se io sto con uno per rispetto, se amo per rispetto, se parlo per rispetto, se tratto per rispetto significa che se non ci fosse di mezzo la terza polarità costituita per l’appunto dal rispetto, la mia relazione con costui sarebbe completamente diversa. “Lo faccio per rispetto” non significa altro che io faccio una certa cosa in tuo favore, ma la molla che mi spinge non è tanto l’amore per te, ma il rispetto che in ogni caso è una forma di legalità esterna alla quale io mi uniformo e alla quale obbedisco nel mio interesse, il quale non è detto che collimi con il tuo.

In sostanza non si può rispettare il dolore ma si rispetta quella caratteristica dell’altro distinguibile nella sofferenza, la quale caratteristica, nella relazione, non può costituire motivo di esautorazione della unitarietà e della dignità dell’altro con cui mi metto in relazione. Invece molte forme di relazione, apparentemente improntate all’aiuto dell’altro sofferente, costituiscono in realtà un approvvigionamento illecito del cosiddetto soggetto sano di risorse che servono a lui ( dovere, altruismo, fare del bene, etc. ) ma che in realtà depauperano l’altro che sta male. Ciò avviene quando una legge esterna, per esempio nel discorso che stiamo facendo, il rispetto, prende il posto di una legge interna che manca, che fa fatica ad instaurarsi nella coppia in relazione. Ci si accorge immediatamente quando due individui si frequentano non per un interesse e per un bene comune (legge interna del reciproco beneficio) ma per una falsazione del bisogno dell’uno nei confronti dell’altro. Qui il riferimento a forme distorte di missionarismo e proselitismo è fin troppo semplice da fare.

Meno semplice il riferimento al Salmo che recita che il giusto fa del bene anche ai propri nemici, avendo così la possibilità di mettere i carboni accesi sopra alla loro testa (chiaro il riferimento alla vendetta particolare del giusto che usa non l’odio ma l’amore per praticarla e per porsi non nello stato di perdono ma nello stato di superiorità del suo stesso nemico: c’è chiara perversione nei versetti del Salmo).

Allora il dolore non può essere inteso come un evento a se stante esterno all’individuo che lo sta sopportando. Nel mio pensiero e nel mio modo di relazione l’altro che sta soffrendo non ha perso nulla di sè, non è meno di prima per il suo mutato stato, non è indigente perchè ha apparentemente perso la propria integrità (della quale questione diremo più avanti). Non è un assurdo affermare che nel momento in cui sto con uno che soffre non devo nemmeno guardare in faccia il suo dolore, pena il pericolo di fare saltare la veridicità e la legalità della relazione. Tuttavia non si può nemmeno misconoscere una condizione in atto, non si può fare finta che un dato fenomenico in atto nell’altro che soffre venga tenuto un non detto pericoloso che altrettanto potrebbe fare saltare la relazione. Qui il presupposto deve essere tassativo: il dolore non impoverisce ma cambia solamente, chi soffre non ha meno ma è solo diverso, e la diversità sarà tanto maggiormente foriera di buoni frutti nella misura in cui io, da sano saprò farla coincidere con un interesse comune, con un bene reciproco, con un vero e proprio principio economico di reciproco vantaggio.

Il bene dell’altro è il bene che il soggetto trae nella relazione con l’altro in cui lo scambio è totale: totale non nel senso illusorio che “ci si dà tutti, ci si dona completamente per il bene altrui” ma nel senso più realistico del pensiero che fare del bene all’altro coincide con il fare del bene a se stessi. Fare i propri interessi significa fare automaticamente gli interessi dell’altro, soprattutto dell’altro che soffre e con il quale io entro in relazione. Questo significa “niente sconti” con l’altro che soffre, per il suo e mio bene. Questo significa che l’altro per essere amato ma anche per soffrire (se possibile) del suo stesso soffrire deve essere un altro imputabile, un altro con tutte le carte in regola per la relazione.

Conclusioni

Da una parte abbiamo visto come la esperienza del dolore sia difficilmente riducibile ad altre forme di esperienza e dunque alla forma della comunicazione diretta e anche del sapere dell’altro sul nostro dolore. D’altra parte l’individuo che soffre nutre contemporaneamente un forte desiderio di immergersi, di immedesimarsi nel proprio dolore, quasi a fare del dolore la sua stessa identità. Per questo si parlava prima della importanza che nella relazione il dolore non prenda il posto del soggetto. Abbiamo visto anche come nel dolore nasca la domanda metafisica in quanto il dolore è pur sempre esperienza di pericolo, di pericolo di perdita di sè. Ha ragione Freud a dire che l’angoscia è sempre angoscia d’attesa: “L’angoscia (Angst) ha una innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza di oggetto” ( S. Freud, Inibizione, Sintomo, Angoscia, in Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino 1978, p. 310). E l’angoscia, proprio come pensiero di imponderabile e di indeterminato, spesso accompagna gli stati dolorosi. La richiesta di aiuto di fronte all’angoscia spesso è una domanda metafisica.

Se da un lato si può verificare nell’uomo che soffre la paralisi dell’angoscia, dall’altro può anche sorgere uno stato di rivalsa e di difesa definibile come fabbrilità . L’uomo che soffre comincia a fare, a darsi da fare, forse a fabbricare la propria esistenza, in modo magari diverso, cosa che in assenza di dolore non si era verificata. Sta qui il mito di Prometeo scolpito nei versi di Eschilo:

Essi (gli uomini) prima, pur vedendo, non vedevano, pur udendo, non udivano: simili a larve di sogni passavano nel tempo una loro esistenza confusa, senza conoscere dimore di mattoni esposte al sole, senza lavorare il legno, ma sotto la terra abitavano, come formiche che il vento disperde via, in antri profondi non rallegrati dal sole.

( Prom., vv. 447-453 )

Come Prometeo l’uomo che soffre usa la sua arte nel tentativo di opporsi alla implicazione più insondabile ma anche più sicura del dolore: la morte. Ma il dolore diventa pena nel momento in cui si instaura il binomio sofferenza/colpevolezza. Sta qui il discorso kierkegaardiano: la pena assume un valore assoluto nel momento in cui l’individuo interiorizza la pena attraverso la colpa. E’ una elaborazione della tradizione ebraico-cristiana lo spingere la sofferenza nell’ordine della sua giustificazione. Allora il dolore diventa tragico nella sua accezione di pena e di colpa. In sostanza la sofferenza ha sempre una giustificazione e la giustificazione ha a che fare con una colpa dell’uomo.

Non è questa la imputazione di cui abbiamo parlato in precedenza. La imputazione non ha nulla a che spartire con la colpa. Imputare se stessi delle proprie risposte offerte all’altro che pone una domanda non ha nulla a che fare con il ritrovarsi colpevoli per forza nel momento in cui le cose non funzionano. La colpa è assolutamente diversa dalla imputazione. Imputazione è atto di risposta e non approvazione del male (solo da qui potrebbe derivare la colpa). L’atto di imputazione per un soggetto non chiama mai in prima istanza in causa il male, nè quello di natura agostiniana come errata posizione dell’uomo come essere creato di fronte al Padre Creatore (dunque errata posizione del soggetto di fronte alla legge), nè quello di natura paolina che avviena a causa della non conoscenza dell’uomo del bene e della attuazione del peccato che dentro di noi malgrado il nostro desiderio di fare il bene. Così l’uomo biblico spesso ha trovato la giustificazione della propria sofferenza in un pensiero di se stesso come essere ingiusto.

Si nasce sani invece, dunque l’uomo è portatore di una salute iniziale e dunque di una predisposizione iniziale al bene: sta qui la sua capacità di imputarsi. Se noi vedessimo dentro noi stessi una natura originariamente maligna, se noi avessimo di noi stessi un pensiero negativo sulla nostra stessa natura, ci sarebbe assai difficile compiere un atto di reale critica verso noi stessi e fare seguire ad esso almeno un serio progetto di correzione. Se l’uomo non sa imputarsi (rispondere del qui e ora della sua stessa risposta) al suo pensiero di constatazione che qualche cosa in lui non funziona non potrà mai seguire un reale progetto correttivo e innovativo: se si vuole non seguirà mai la cura di se stessi. L’uomo che soffre spesso si sente indicizzato e chiamato in causa dagli altri solo come sofferente, quasi che la sua nuova carta di identità dicesse: solo dolore. Costui soffre ancora di più quando le sue altre caratteristiche connotative della personalità, del carattere, del pensiero possono venire fagocitate dalla nuova caratteristica della sofferenza. Chi soffre corre il rischio di essere solo, per gli altri, la propria sofferenza.

Così di fronte al dolore il soggetto non può lottare in quanto il dolore non è un nemico e il dolore non è neppure colpevole. Lottare sarebbe uno sforzo immane e improponibile. Lottare sarebbe mettere in dura crisi il proprio stesso spirito di conservazione. Davanti al dolore l’uomo può solo adattarsi , ovvero conformare alla nuova condizione la propria stessa identità, ma soprattutto rivisitare i parametri della sua relazione con la alterità. L’Altro per il sofferente è un Altro mutato ma, come abbiamo visto in precedenza, affatto impoverito o sbiadito. La reale difficoltà di attuare questo adattamento ha a che fare con il saper lavorare sul “pensiero iniziale di inadeguatezza” che ogni tipo di sofferenza inevitabilmente comporta in sè. La concezione di dolore è sempre legata ad una concezione di svantaggio (handicap). Ma sappiamo anche che lo svantaggio è più un pensiero che una realtà, un pensiero che poggia la propria essenzialità sulle idee di inizialità, di potenzialità e di opportunità. In noi vige una malsana illusione di integrità, assia che nulla vada perduto della condizione iniziale di partenza. In noi esiste un altrattanto insano pensiero, quando perdiamo qualche cosa, che ci sia possibilità di reintegrazione, di restitutio ad integrum , che si possa ririempire il vaso dal quale nel corso dell’esperienza di vita è stata versata qualche goccia. Ma quella goccia, quella parte di noi che è andata perduta non verrà mai più reintegrata come quella goccia. Potranno esserci altre forme di reintegrazione ma mai la restitutio ad integrum proprio perchè la nostra natura e il nostro destino è votato al cambiamento e alla perdita finale.

Ora il dolore è una delle esperienze umane che più chiama il soggetto a richiedere la sostituzione di ciò che gli è stato tolto, in potenzialità, in opportunità, in benessere, in salute, in tempo da vivere. Tuttavia ciò che è perduto è perduto ed è solo l’adattamento alla diversità della condizione che il soffrire comporta che può costituire l’unica soluzione, pena per l’umano l’ammalarsi del suo stesso dolore.

Guido Savio

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