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IL FIGLIO E LA NOIA (PRIMO)

PRIMO DI QUATTRO ARTICOLI

In questi articoli si mettono a confronto il “pensiero” di Figlio e la Noia. Se il Figlio è colui che inizia…. (tutto il bene possibile, anche l’errore), la Noia è il vizio dell’anima che tutto spegne.

IL FIGLIO E LA NOIA

Il concetto di figlio è giusto il contrario della noia.

Il concetto di figlio, il pensiero di figlio è il prodotto di quel soggetto che si dà da fare, che accetta il proprio ruolo, la propria finitezza, un portatore di desiderio insomma. Il figlio che ha nella propria testa e nel proprio cuore e nelle proprie gambe la parola scopo. In quanto soggetto dello scopo il figlio è il soggetto della salute, quello che ha un pensiero di meritarsela, come di meritarsi il piacere e la salvezza. Il figlio è il soggetto dell’intraprendenza, quello che si muove per primo e non aspetta che sia l’altro ad aprire la bocca o a prendere in meno la cornetta del telefono. E’ colui che non ci pensa tanto ma fa perché ha un fine. E vedremo più avanti che il figlio è il soggetto della produzione di un fine ma anche della accettazione della fine.

La noia è il contrario. E’ il contrario di tutto quello che s’è detto finora del figlio. Mi riprometto di parlare estesamente della noia e porterò l’esempio di due soggetti (tratti fuori dal mondo della letteratura) annoiati. Due che da annoiati poi diventeranno noiosi, almeno nelle cose che prenderemo in considerazione, non certo nella loro produzione tout court ed entrambi rispondono al nome di Francesco: il primo è Francesco Petrarca dal Secretum e il secondo è Francesco Kafka, per gli amici Franz, dalla Lettera al Padre. Vedremo nelle pagine di Kafka che leggerò come egli non “faccia” assolutamente il figlio proprio nel momento in cui sputa addosso al padre tutte le sue accuse e lo pone come causa prima dei suoi mali. Kafka non sa che vedersi vittima passiva del padre e non riesce in quell’atto si emancipazione e di liberazione che poi è quello che mette in moto ogni processo di guarigione, il perdono. Il figlio non dirà mai al padre, anche se ha avuto un padre disgraziato e debosciato: “Sei stato tu a rovinarmi”. Anche se questa potesse essere una parte della verità, il figlio, fissandosi su questo pensiero… non troverà mai se stesso, non troverà mai la propria imputazione, ovvero la propria parte attiva. In questo senso il perdono è l’uscire dalla fissazione che mi blocca a pensare che il padre (ma potrebbe anche essere la madre, lo zio, l’allenatore di calcio, il prete in chiesa, lo Stato, l’altro, il mondo, la diversità… e chi più ne ha più ne metta) ha determinato il mio destino senza che io fossi presente, e forse anche consenziente.

Ricordo qui che Nietzsche in Umano, troppo umano afferma: “Chi non ha un padre degno di esserlo ha il diritto di cercarsene un altro”.

Il figlio è il soggetto che si assume la responsabilità dopo essere passato attraverso il perdono del padre, che per noi significa dopo avere vinto la fissazione del pensiero che lo inchiodava a vedere l’altro causa prima delle proprie disgrazie. Si vede benissimo nella clinica. Quando uno o una la smette di dire male dei propri genitori e li perdona, comincia a guarire nel senso che comincia a perdonare anche se stesso/a.

Noi siamo dunque, e dobbiamo pensarci, tutti figli, proprio in quanto c’è un unico Padre. Uomini vuol dire pensarci figli. Anche noi padri naturali, nel momento in cui ci pensiamo padri e non figli verso i nostri figli stessi, andiamo a complicare la faccenda. Pensarci in questo modo significa pensarci capaci dell’errore (e anche abilitati ad essere perdonati in questo errore). Se io mi presento a mio figlio come uno che può sbagliare… anche mio figlio avrà meno paura dell’errore e sarà più libero nel suo fare e pensare. Nel momento in cui io mi presento come padre infallibile (o almeno una che ci tenta, cercando in tutti i modi di non farsi prendere in castagna) inoculerò a mio figlio la paura di sbagliare. Lo inibirò. Lo renderò meno libero.

Pensarci figli significa pensarci anche naturalmente (non volontaristicamente) destinati all’errore, ma è proprio in questo modo che noi possiamo avere quel giusto amore per se stessi che è dato dalla accettazione dell’errore e del limite. Ma in più noi, nella relazione con l’altra persona noi ci poniamo alla pari (siamo tutti figli), nel senso che se l’altro vede che io non faccio drammi davanti al mio errore ma cerco di correggerlo, anche lui si regolerà con me secondo questa modalità, che altro non è che la modalità dell’amore.

Se all’altro che viene verso di me io mi (op)pongo come l’uomo della giustizia, l’uomo del bene, l’uomo della morale, l’uomo fatto di ferro, senza macchia e senza paura… oltre che a farlo allontanare da me lo metto nella condizione di temere di sbagliare. La paura dell’errore è sempre un confronto che noi facciamo con l’altro.

Guido Savio

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