Franz Kafka
Il timore del desiderio
Vladimir Nabokov, in una sua raccolta di saggi intitolata Lezioni di
Letteratura offre questa sintetica e anche cruda esposizione della
vita di Kafka: “Nato nel 1883 a Praga, Franz Kafka proveniva da una
famiglia ebrea di lingua tedesca. E’ il più grande scrittore tedesco
della nostra epoca; in confronto a lui poeti come Rilke o romanzieri
come Thomas Mann sono nani o santini di gesso. Studiò Legge
all’Università tedesca di Praga e, a partire dal 1908, lavorò come
piccolo impiegato nell’ufficio molto gogoliano di una società di
assicurazioni. Quasi nessuna delle sue opere oggi famose – tra le quali
Il Processo (1925) e Il Castello (1926)- fu pubblicata mentre era in
vita. Il suo maggiore racconto, La Metamorfosi, fu scritto
nell’autunno 1912 e pubblicato a Lipsia nell’ottobre 1915.
Nel 1917 cominciò a tossir sangue e il resto della sua vita, sette anni
in tutto, fu punteggiato da soggiorni nei sanatori dell’Europa
centrale.
In questi ultimi anni della sua breve esistenza (morì a quarantun
anni), ebbe una felice relazione amorosa e nel 1923 visse con l’amica
a Berlino, non lontano da dove abitavo io. Nella primavera del 1924
andò in un sanatorio vicino a Vienna, dove morì il 3 giugno, di
tubercolosi alla faringe. Fu sepolto nel cimitero ebraico di Praga.
Chiese al suo amico Max Brod di bruciare tutto ciò che lui aveva
scritto, compreso il materiale già edito. Ma per fortuna Max Brod non
ottemperò al suo desiderio”.
Abbiamo scelto questa biografia di Kafka, così cruda ed essenziale,
per un semplice motivo: la scarnezza di questa biografia riproduce la
scarnezza della vita stessa di Kafka, per il quale l’unico motivo di
vivere non era la vita ma la scrittura.
In un articolo apparso sul Corriere della Sera del 29 febbraio 1976
di Claudio Magris si legge: “La minaccia che incombe sull’individuo
moderno non è più, come per gli antichi, la perdita della morale bensì
quella della calda vita; non l’eclissi della ragione, ma l’esaurimento
della forza istintuale, del desiderio. Per Kafka l’unico modo di vivere
è scrivere; le lettere sono il più grande documento del suo tentativo
di sopravvivere grazie alle distanze e alla barriere che la scrittura
instaura, come una maglia metallica, fra chi scrive e le passioni, i
corpi, la promiscua invadenza della vita”.
Kafka stesso nei suoi diari affermava di essersi sviluppato solamente
nella direzione dello scrivere e di essere dimagrito in tutte le altre,
in quelle del sesso, del mangiare e del bere, della musica e di tutto
il resto. Infatti anche quando ama Kafka ama da lontano.
Ma forte della sua scrittura Kafka affrontò il suo destino che alla fine
si rivelò quello di un uomo che ascolta le sirene, circondandosi di
tutte le precauzioni possibili per non accorgersi che esse non sapevano
neppure cantare, e che il canto del mondo altro non è che un
irrimediabile silenzio. In sostanza Kafka fece di tutto per
allontanare da sè l’illusione, l’illusione che era già insita nel suo
stesso desiderio.
E’ singolare il desiderio in Kafka. Un desiderio che contiene già in
se stesso, quasi nel rispetto di una legge filogenetica, la delusione.
Il suo desiderio è sempre un intermezzo tra la imputazione e la
sentenza, tra la minaccia e l’esecuzione, un ristrettissimo spazio e
tempo in cui egli può organizzare le proprie difese e concedersi la
gioia dell’attesa.
Di Kafka qui vogliamo prendere in considerazione due opere e le
questioni che a queste opere rimandano: Il Processo e la Lettera al
Padre sono le opere; la colpa, la sanzione, la punizione, il giudizio
e il complesso paterno sono le questioni.
Come si sa Il Processo è un romanzo incompiuto e riordinato nei capitoli
dall’amico Max Brod. Il tema è quello del giudizio; tema peraltro che
Kafka aveva già affrontato precedentemente nel racconto La Condanna
del 1912 e nel frammento Davanti alla legge, nonchè nel racconto che
Kafka scrisse concomitantemente all’inizio de Il Processo, cioè Nella
colonia penale.
La tesi interpretativa più ricorrente è stata quella avanzata nel
convegno kafkiano di Praga del 1963 che si basava sulla ipotesi che
tutta la sequela degli eventi dell’opera sia la trasposizione
allegorica, in linguaggio giuridico, delle fasi progressive della
malattia e della morte.
Una tesi interpretativa diversa era quella dello stesso Brod e della
critica spiritualistica che vedeva ne Il Processo il dramma dell’uomo
che si autoesclude dall’ordine divino. Tutto ciò si riferirebbe alla
interpretazione autobiografica che purtuttavia restringerebbe il
campo alla esperienza kafkiana in un dramma razziale in cui la figura
di Josef K. riassumerebbe in sè il senso di colpa e il destini di
persecuzione del popolo ebraico.
Ma sappiamo che per Kafka il dilemma fede o ateismo perde in fondo ogni carattere di assolutezza; Josef K. può credere o non credere in Dio
ma il suo vero dramma, grande nella sua miseria, consiste nella
impossibilità di “capire” le ragioni dell’esistenza anche di fronte
alla ineluttabilità della morte.
La critica ha anche cercato un riferimento storico della vicenda de
Il Processo e la ha trovata nel caso del dottore in giurisprudenza Karel
Sviha, deputato del partito nazionale-sociale che fu accusato dalla
stampa del suo partito di essere un confidente della polizia di Praga,
dunque del governo asburgico e di tradire in questo modo gli interessi
del popolo ceco. Prima del processo ufficiale la colpevolezza di Sviha
era stata decretata da un tribunale segreto, una specie di giurì
d’onore costituito dai capi dello stesso partito.
Non si può dire che quella di Josef K. sia una colpa che sfugge a
qualsiasi determinazione della ragione umana. La colpa è nella stessa
condizione umana. In quel passaggio che ogni soggetto, sostanziandosi,
ha compiuto dall’indistinto originario ad un distinto per l’appunto
soggettivo. Come se ogni nascita, alla fin fine, provocasse un dissesto
negli equilibri preesistenti nel mondo e che l’uomo, autore di questo
atto destabilizzante, dovesse poi alla fin fine pagare con la vita
stessa il fio di un tale tipo di colpa. La sanzione dunque e la
conseguente condanna, funzionerebbero come elementi risolutori della
tensione della questione e della vita stessa.
Un discorso di questo tipo lo fa Freud quando parla di “senso di colpa
inconscio” e quando ancora corregge questa prima dicitura con “bisogno”.
di punizione”. In Lutto e Melanconia del 1917 Freud afferma che nel
soggetto esiste una certa affezione che è caratterizzata in
particolare da autoaccuse, dall’autodenigrazione, da un bisogno di
punizione. Il ciò dovuto a un processo di scissione che si è operato
nell’Io tra accusatore (Super-Io) e accusato, scissione derivante da
una relazione intersoggettiva mediante un processo di
interiorizzazione. In parole più semplici accederebbe che il soggetto
paghi i suoi sforzi di autonomia (nomos vuol dire legge) da figure reali
(il padre in principal modo) e ideali (un non essere prima della vita)
con un costante senso di colpa per questa azione di esautorazione di
una autorità esterna per appropriarsi di un proprio principio
regolatore.
La assunzione di responsabilità, cioè capacità di formulare un
giudizio autonomo, comporterebbe con sè un pagamento ad una istanza
superiore dalla quale il soggetto, rendendosi autonomo, si distacca.
Filogeneticamente e ontogeneticamente si potrebbe intendere la
questione come un distacco progressivo dell’individuo, appunto nel suo
processo di individuazione, da un Tutto originario ed indistinto, in
cui non esisteva responsabilità e neppure distinzione. Il distacco
dunque sarebbe inteso come un atto di forza che il soggetto compie nei
confronti di una istanza superiore e che andrebbe pagato con un senso
di colpa, con un bisogno di punizione.
La punizione allora funzionerebbe come evento risolutore di una
questione che altrimenti non avrebbe modo di essere risolta. Freud
dimostra questa tesi portando l’esempio dei criminali, nei quali il
seno di colpa viene prima del delitto e non be sarebbe una diretta
conseguenza. Il commettere il delitto dunque corrisponderebbe alla
accettazione di una punizione come soluzione di un conflitto
intrapsichico che viene trasposto sul piano della realtà.
Tornando a Kafka possiamo dire che Il Processo rappresenta la messa
in scena di un tentativo di soluzione del dramma di ogni uomo, il quale,
nascendo, determina uno squilibrio e si vota ad un destino di
infelicità inevitabile, inevitabile quanto lo è la sanzione e la
punizione per l’atto (di nascita) commesso. La colpa è connessa con
la stessa esistenza sulla terra e che ripugna tutte le “promesses de
bonheur”, le illusioni di felicità che pure albergano in ogni soggetto
che si affaccia alla vita.
La vita che si svolge appunto come intervallo tra la colpa commessa
e la punizione inevitabile. Vita che Kafka non sfrutta come tentativo
di pervenire alle soddisfazioni offerte dal mondo. Infatti l’uomo
kafkiano è raggirato da tutto ciò che sembra corteggiare la sua persona
privata, la sua intimità, il suo corpo, la breve misura dei suoi
sentimenti. Molto modernamente Kafka comprese subito che il mondo si
perpetua in una offerta continua di “desideri forzati” di richiami ad
una soddisfazione, meglio, a un godimento preformato e non lascia
spazio alla creazione da parte del soggetto di un suo codice di
soddisfazione o di piacere che vada al di fuori delle offerte del
mercato. Di fronte alla ipotetica frase del mondo “Devi godere!”, Kafka
risponde con un guadagnar tempo, con un mettersi da una parte e con
un continuo rimandare, forse per distinguersi senza essere distinto
da altri, forse per perseguire il suo intento di confrontarsi con la
colpa che bandiva dal suo mondo interno ogni capacità di piacere.
E qui la frase kafkiana è emblematica:” Chi cerca non trova; chi non
cerca, viene trovato”. Questa frase è sì il programma di autoesclusione
dal mondo nelle sue offerte di piacere e di soddisfazione, ma comporta
anche un piano di lettura ben più profondo e che costituirà la grande
contraddizione kafkiana. Questa frase significa che il desiderio è il
desiderio dell’altro. Il soggetto, più che desiderare, deve creare un
posto per l’altro che entri nel processo di relazione. Dare all’altro
la possibilità di costituire agente di soddisfazione per il soggetto
stesso: dare all’altro l’occasione di dare al soggetto l’occasione di
essere soddisfatto attraverso la relazione. Ma accennavamo prima come
questa sia stata la grande contraddizione kafkiana, in quanto gli altri
di Kafka non sono mai stati agenti di soddisfazione.
Scrive ancora Claudio Magris in un articolo apparso sul Corriere della
Sera del 2 giugno 1974: “L’universo di Kafka è un universo nel quale
l’uomo rilutta tenacemente al desiderio e cerca di sfuggire alla sua
forza tortuosa e struggente perchè teme, o meglio perchè sa di non
essere all’altezza del grande e trascinante respiro del desiderio e
preferisce bloccarlo, reprimerlo, distanziarlo, eluderlo piuttosto
che venirne travolto”. E noi qui possiamo aggiungere “Piuttosto che
venire trovato dal desiderio dell’altro”.
Il senso di colpa, ricordiamo anche, è sempre legato al Super-Io, che
noi possiamo qui intendere semplicemente come “padre”. L’atto
successivo alla constatazione di colpa è la sanzione. Sanzione che
appartiene sempre ad un ordine giuridico, e dunque ad un ordine
paterno. Sembra che Kafka (ma lo vedremo meglio quando esamineremo la
Lettera al Padre) chieda alla sanzione una restitutio ad integrum, un
ritorno all’indietro, quando ancora la colpa non era stata commessa.
Ma il momento della colpa è stato il momento stesso della nascita,
quindi la sanzione scatta come elemento giuridico, concomitantemente
alla nascita. In altre parole non c’è scampo: la successione logica
degli elementi, degli elementi formativi del soggetto, non consente
scampo: è già tutto scritto. Non resta che l’intervallo tra la sanzione
e la esecuzione della condanna, che, a questo punto, non può che essere
un atto liberatorio. Ma esiste sempre l’intervallo, la sospensione che
sta tra emissione di condanna (che è immediata) e la esecuzione: questo
intervallo è la vita.
La sanzione intesa come restitutio ad integrum non costituisce però,
come funziona nell’ordine giuridico, un rientro del soggetto malato
all’interno di un consorzio umano civile e legale, bensì un giudizio
di “ritorno indietro” indietro all’indistinto da cui si è provenuti,
ad un tutto informe che non comprendeva distinzione di fisionomia, nè
assilli personali, nè desideri reali, nè forme del comunicare, nè tutte
quelle istanze che contraddistinguono un soggetto. La restitutio ad
integrum è un ritornare a quando non esisteva differenza, l’integrità
è quella di un corpo totale non parcellizzato dal quale ci si è
staccati, ma dentro al quale non si rappresentava distinzione:
l’integrità è la regressione al non essere, una “reinfetazione”.
La sanzione segue sempre l’illecito e sembra che Kafka (accuserà di
questo anche il padre) intenda la sua stessa vita come un illecito.
Se il tema de Il Processo è il giudizio, noi possiamo capire
immediatamente che il giudizio in Kafka è sempre un giudizio esterno,
non è mai un giudizio che il soggetto pronuncia sotto la propria
responsabilità, ma è sempre un atto subito. In questo senso Kafka
dimostra di non avere la capacità di entrare tra coloro che giudizi
possono esprimere. E questo è importante in quanto la salute mentale
del soggetto è rappresentata dalla sua capacità di emettere giudizi,
di prendere partito, di creare una distinzione e di assumere la
responsabilità che un tale atto comporta.
La scelta kafkiana è quella del “farsi giudicare”, quella di porsi in
una posizione pregiudizialmente passiva di fronte all’altro, come
emergerà a chiare lettere nella Lettera al Padre. Molte letture
psicoanalitiche de Il Processo hanno visto in Josef K. un elemento
masochistico che nulla compie per sovvertire la logica della passività
e porsi nella condizione matura di esprimere giudizi, cioè di
costituire autorità. In questo senso si potrebbe intravvedere quella
che Freud chiama “tornaconto della malattia”, cioè un innegabile
vantaggio che la posizione passiva comporta, proprio nel senso del non
correre il rischio di responsabilità, di non distinguersi
ulteriormente. Possiamo vedere, meglio, vedremo in seguito nella
Lettera al Padre come che quelli di Kafka non siano giudizi attivi nei
confronti del padre, ma un susseguirsi di imputazioni, a volte un
eccesso di lamentele. Il conflitto di Kafka con l’autorità è netto:
egli preferisce subirla che rappresentarla.
Il giudizio è una facoltà, ovvero una capacità legale (ovvero
rispettevole della legge edipica) da cui prende moto la fondazione
stessa del soggetto come agente egli stesso di legge e rappresentante
di un diritto, un diritto reale di natura personale. Il giudizio è
quindi una facoltà irrinunciabile poichè se il soggetto vi rinuncia
non si distingue in quanto soggetto e preferisce una posizione
patologica di indistinzione.
Quella che a Kafka manca, in riferimento al giudizio, è la
autorizzazione; ma non una autorizzazione che proviene dal di sopra,
bensì una autorizzazione che egli stesso si dà. Ma abbiamo anche capito
che questa autorizzazione incentiverebbe il senso di colpa già
esistente. Autorizzarsi dà sè equivarrebbe a porsi come differenza (a
volte anche come opposizione) verso l’autorità che l’altro
rappresenta. Forse questa aggiunta vitale al senso di colpa intimoriva
Kafka e lo ha inchiodato, obiettivamente, in una posizione di colui
che subisce, anche se con onore. E l’onore qui è rappresentato dalla
sofferenza vissuta.
I fallimenti di Kafka, “…il pianoforte, il violino, le lingue, la
germanistica, l’antisionismo, il ionismo, l’ebraico, il giardinaggio,
la falegnameria, la letteratura, i tentativi di matrimonio,
l’abitazione…” testimoniano, tutto sommato, la sua sfiducia nella
legge degli uomini e il suo desiderio di non entrare in questo consorzio
legale. Non entrare, è chiaro, significa non entrare con il proprio
giudizio di responsabilità e di distinzione. E sulla fondazione dei
suoi giudizi non gli servirono neppure le lezioni di Brentano sui
principi etici e sui giudizi etici.
Se il linguaggio di Kafka non aveva saputo funzionare come ponte (Die
Brucke) che si liberasse sopra l’abisso che separa significante da
significato, neppure la sua capacità di giudizio aveva saputo
costituire ponte tra sè e il mondo: e la conseguenza fu quella di subire
il giudizio del mondo. L’impossibilità a dire di sì implica sempre una
certa vanità (ma noi potremmo anche dire narcisismo) della negazione.
E in effetti Kafka fu uno che si negò. Si negò specie in amore, ma di
questo vedremo più avanti.
Concludendo su Il Processo e sulla questione della colpa e del giudizio.
Riportiamo qui una frase sibillina tratta proprio dall’opera. Quando
Josef K. è di fronte al giudice che tiene in mano il libretto con l’atto
d’accusa, ” K. osò perfino di togliere di mano al giudice il libretto,
prendendolo solo colla punta delle dita quasi ne avesse ribrezzo, e
di sollevarlo tenendolo per uno dei fogli di mezzo, in modo che da una
parte e dall’altra ricadessero i fogli, scritti fitti, pieni di macchie
e con gli orli ingialliti. -Eccoli qua, gli atti del giudice
istruttore- disse lasciando ricadere sul tavolo il libretto. -Continui
pure a leggerli, signor giudice, io non ho davvero paura di un simile
capo d’accusa, sebbene mi sia inaccessibile, perchè posso toccarlo
solo con due dita e non riesco a prenderlo in mano”.
E in effetti il proprio capo di imputazione, la questione del sapere,
della competenza, Kafka non la prese mai in mano. Non prese in mano
la questione del suo giudizio e si sottopose a un giudizio altro. E
qui si potrebbe scrivere questo altro con la “A” maiuscola,
l’universale altro nel quale egli non entra. Fino a dire, nella scena
della predica in duomo al prete: ” Come è possibile del resto che un
uomo sia colpevole? Siamo tutti uomini”: Il sillogismo è perfetto.
Tutti gli uomini sono condannati e ciò rende impossibile che uno solo
lo sia.
Abbiamo scritto prima che Kafka fu uno che si negò, specie in amore.
Come molti nevrotici inceppati sul terreno sessuale ed affettivo,
Kafka destò l’interesse di molte donne: Felice Bauer, Grete Bloch,
Julie Wohrizek, Milena Jesenkà, Dora Dymant. In queste relazioni Kafka
svolse spesso un ruolo da parassita, esercitando una funzione
inibitoria e repressiva come quella degli odiati personaggi paterni
delle sue novelle.
Il suo fu sempre un “amare da lontano”, come testimonia il suo
vastissimo epistolario amoroso. E sembra che su questo pesasse una
inibizione. Proprio una inibizione ad amare e a portare a termine le
sue relazioni, una incapacità a concludere. Proprio di questa
inibizione tratta quel capo di accusa che passa sotto il nome di Lettera
al Padre.
L’accusa direttamente espressa da Kafka contro il padre è quella di
avergli impedito un buon esito finale nelle sue relazioni, in altre
parole di avergli impedito di sposarsi, tuttavia a guardare un po’ più
a fondo ci si accorge che la accusa profonda che Kafka rivolge è quella
della inibizione a cui egli si sente costretto. Inibizione a fare sì
che il proprio desiderio pervenisse a giusta soddisfazione.
Lo sfondo della Lettera al Padre è chiaramente edipico. In essa Kafka
descrive un padre assoluto, un padre che incarna tutte le doti, al
positivo e al negativo, che un padre possiede. Il padre di Kafka non
è un rappresentante della legge, cioè colui che la indica al figlio,
ma il padre che pretende di avere tutte le carte in regola per incarnare
la legge, dunque un padre che inibisce l’accesso al piacere al figlio,
proprio perchè il confronto con lui non è sostenibile. Il padre di Kafka
è un padre veterotestamentario, che impugna costantemente l’arma del
giudizio verso il figlio e verso gli altri. E’ un padre insostenibile,
quasi un padre impossibile.
Il figlio ha le strade chiuse in quanto il padre (almeno stando al testo
della Lettera) non consente che egli si faccia una propria regola e
un proprio principio di relazione con il mondo. Il padre di Kafka è
il padre della castrazione reale, non certo di quella simbolica che
permetterebbe al figlio di staccarsi da un suo originario desiderio
onnipotente per dirigerlo verso il mondo, alla ricerca di relazioni
soddisfacenti. Kafka figlio resta inibito proprio nella sua incapacità
di amare perchè non ha trovato nessuno che desse delle regole all’amare
fuori dal desiderio incestuoso del bambino.
Proprio per questo la Lettera al Padre è la confessione di un complesso
paterno, un complesso che non è stato superato, che non si è tramutato
in una accettazione della legge, e che ha costretto Kafka, nel suo
desiderio di amore, a vedere frustrato ogni tentativo.
E’ il padre l’uomo della legge, colui che facendo simbolicamente
provare al figlio la propria realtà di essere castrato, cioè limitato,
dirige il suo desiderio al di fuori della fissazione alla madre. Tutto
ciò non fu il padre Kafka che invece castrò realmente il figlio, senza
lasciargli l’alternativa di compiere un proprio percorso autonomo alla
ricerca della soddisfazione amorosa e anche della soddisfazione tout
court.
Freud in Totem e Tabù parla di un padre antico che aveva il possesso
su tutte le donne del clan e teneva a bada con la forza le pretese dei
figli. E’ la visione kafkiana, che verso la fine della Lettera scrive:
“Così come siamo, invece, il matrimonio mi è precluso, perchè è Tuo
dominio esclusivo”.
Kafka imputa al padre la sua esclusione dalla possibilità di accedere
all’istituto del matrimonio, “che poi il bisogno di accasarmi non si
sia tradotto in atto, risale ad altre cause: quei rapporti appunto tra
Te e i Tuoi figli sui quali mi sono diffuso in tutta la mia lettera”.
Scrive Giacomo Debenedetti in un saggio su Kafka contenuto in Il
Romanzo del Novecento che “…la Lettera al Padre, è la denuncia, o
meglio, la confessione di un complesso edipico. E’ quasi un paradigma
dei sintomi di questo complesso, articolati nei regolamentari episodi
e situazioni del ‘romanzo di famiglia’”.
Debenedetti usa questa espressione “romanzo di famiglia” ricavandola
direttamente dal lessico freudiano. Infatti il “romanzo familiare” è
inteso da Freud non già come la storia reale, la realtà di come
effettivamente sono andate le cose, bensì come la elaborazione che ne
ha fatto il soggetto con le modificazioni dovute al suo immaginario
e soprattutto sotto la spinta della tensione edipica. Il “romanzo
familiare” dunque non è una storia reale di una infanzia o di una vita,
ma la elaborazione che il soggetto ne fa in base alla sua condizione
fantasmatica.
E’ importante questa precisazione per leggere la Lettera altrimenti
si incorrerebbe nel pericolo di vedere, manicheisticamente, il povero
Kafka vittima del padre da una parte, e un padre cinico ed egoista
dall’altra senza avere la possibilità di intendere effettivamente che
tipo di relazione esistesse realmente tra i due.
Non dimentichiamo infatti che esiste la possibilità che Kafka abbia
giocato la propria inibizione sul senso di colpa provocato dal padre,
glissando ogni sua responsabilità attiva in merito alla inibizione
stessa.
Parlavamo in precedenza di complesso edipico in quanto nella Lettera
Kafka si professa solidale alla madre come vittima, si identifica con
lei e a partire da questa premessa egli costruisce la sua accusa nei
confronti del padre. Un padre che ha tenuto per sè tutta la forza virile
fino al punto di accecare il figlio per non subirne la concorrenza.
Lo schema edipico è reso benissimo ancora da Debenedetti quando nel
saggio già citato viene a scrivere: “… (il padre) soddisfa questa
sua potenza su tutte le donne, indiscriminatamente: è gallo, è
conquistatore fortunato e felice, senza ritegni e senza rimorsi: la
madre, a cui il figlio saprebbe serbare, secondo lo schema freudiana,
l’amore fedele e riconoscente, è dunque tradita dal padre”. Il figlio
Kafka dunque sta dalla parte della madre tradita e a lei si identifica,
si identifica ad una mater dolorosa.
Quello di Kafka, così come Kafka lo vive, è un padre pantagruelico,
un padre che tiene per sè i bocconi migliori, più sostanziosi, più
grassi: non li mangia, li divora. E il figlio Kafka scrive nella Lettera
:” Mentre Tu, grazie al tuo gagliardo appetito, e al Tuo amore per la
rapidità, mangiavi tutto bollente e a grossi bocconi, il bambino doveva
affrettarsi; e intanto incombeva sulla tavola un tetro silenzio…”.
L’eros per il cibo del padre è un eros per l’eros. Il padre di Kafka
è la quintessenza dell’eros vissuto come caratteristica che spetta
alla virilità e solo del padre è caratteristica. Il figlio è
irrimediabilmente escluso proprio perchè è figlio. Il pasto del padre,
del potente, gigantesco, florido padre è uno degli emblemi contenuti
nella Lettera che danno, più di altri, il senso del fantasma che Kafka
si creò: un padre cannibale che non si fa scrupoli nella distruzione
di tutto ciò che si oppone alla soddisfazione di un suo atavico e
bestiale appetito.
Ma qui una osservazione. Quella di Kafka nella sua Lettera è una
denuncia, una querela vera e propria, un atto di imputazione verso il
padre, e la sua è la posizione di una vittima immolata all’altare dello
strapotere paterno. Bene. Ma quello che non appare nello scritto è un
atto di imputazione verso se stesso. Kafka non si vede mai agente
diretto e responsabile del proprio destino, non si vede mai come
soggetto di diritto che, e diversamente non potrebbe essere, ha
contribuito, se non determinato, lo stato delle cose.
Kafka tratta il suo passato come un passato storico causale che
meccanicisticamente e deterministicamente lo ha condotto allo stato
in cui si trova al momento della sua denuncia al padre. Egli professa
un vero e proprio principio di ragion sufficiente: ovvero le cose sono
andate così perchè diversamente non potevano andare, senza indagare
sulla sua effettiva possibilità (il mondo dei possibili) di incidedre
in un eventuale mutamento. Kafka usa il suo passato, il passato della
sua relazione con il padre come una entità immutabile, all’interno
della quale egli non avrebbe mai potuto intervenire. In pratica egli
confessa i peccati del padre e non confessa i propri. Non compie, in
altre parole, un atto di imputazione verso se stesso in quanto soggetto
che non ha saputo compiere un ruolo attivo e diversivo nella relazione
con il padre stesso.
Ogni soggetto è stato determinato dal suo tempo storico, dai suoi altri
storici, i genitori in prim’ordine, ma ricusare continuamente questa
realtà, pure vera, gli distoglie l’attenzione critica di vedere se
stesso fautore, almeno in parte, della propria fortuna. Non è possibile
trascorrere la vita nel pensiero che la propria storia avrebbe potuto
essere diversa se padre e madre fossero stati diversi. Ad un certo punto
della propria vita ogni soggetto deve rivolgere l’atto di imputazione
verso se stesso se non vuole perpetuare una continua e a volte lamentosa
ripetizione di colpe rivolte all’altro.
L’altro non propizio di Kafka (il padre) non può giustificare il suo
non intervento nella relazione, non lo esime dalla assunzione di
responsabilità. Si parla di responsabilità, non di colpevolezza nè di
necessità di punizione. Invece Kafka parla di un padre punitore verso
un figlio sacrificato al desiderio perverso dello stesso padre. Kafka,
in altre parole, si chiama fuori dal gioco e fa saltare l’unica
possibilità che avrebbe di riscatto, cioè quella di imputare se stesso.
Invece Kafka si descrive come soggetto assoggettato, reso sì soggetto
da altro, ma non soggetto autonomo e responsabile della propria storia,
bensì soggetto passibile di continue altre determinazioni.
Quello che non emerge nella Lettera è il soggetto di diritto, il
soggetto che sa fare valere i propri diritti, il proprio diritto
soggettivo che è per l’appunto quello di considerarsi oggetto di
diritto da parte degli altri.
Se Kafka avesse colto la imputazione verso se stesso come motivo e
momento della riabilitazione, avrebbe fondato la presenzialità del
proprio diritto e in quanto tale non più determinabile da altri ma dal
proprio diritto stesso.
Anche la psicoanalisi come dottrina ha compiuto questa svolta: da un
esordio causalistico, per cui ogni nevrosi era addebitata al trauma
infantile (il soggetto era inteso come soggetto sovradeterminato) ad
una maturazione della idea che il soggetto è un soggetto attivo nella
propria storia fin dall’inizio e che gode diritto (e anche dovere) alla
autodeterminazione. Gli elementi del processo causalistico possono
retrocedere all’infinito (da effetto in causa, a ritroso, fino alla
notte dei tempi) senza che ci sia un arresto probatorio. Al contrario
il numero degli elementi della imputazione (verso se stessi) non può
essere infinito in quanto il soggetto troverà prima o poi la strada
per arrestare se stesso su di un punto di responsabilità, un “io
c’entro” che sarà poi l’unica strada che porterà ad una vera soluzione.
Il soggetto in questo modo diviene un soggetto di diritto in quanto
responsabile (abile a dare risposte nel senso della legge). Questo
soggetto, pure determinato, non potrà pensarsi nel futuro
ulteriormente daterminabile da fattori esterni nei quali egli non
svolga una parte attiva. La sua storia e il suo tempo futuri saranno
completamente addebitabili alla sua facoltà di applicare e essere
rappresentante di un diritto reale di natura personale.
Ora l’imputazione verso se stessi altro non è che un giudizio, un
giudizio di riconoscimento della propria parte attiva all’interno
della propria storia. Il giudizio è una facoltà di discriminazione.
La facoltà di giudizio investe la prova di realtà, cioè della
individuazione della esistenza sorgiva di un altro favorevole o
sfavorevole verso il quale il soggetto, come soggetto conoscente,
corrisponde l’atto del proprio conoscere.
Quello che Kafka compie nella sua Lettera è una denuncia della
patogenia dell’altro, una denuncia del peccatum paterno che non lo
porta a risolvere il complesso paterno: il padre divoratore e il figlio
divorato.
Quasi inutile sottolineare che Kafka tralascia i riferimenti al
vantaggio secondario che quella sua posizione di vittima gli deve avere
comportato, non senza prima scrivere: “Tra Te e me non ci fu una vera
battaglia: fui presto sconfitto; non mi rimasero che fuga, amarezza,
angustia, lotta interiore.” Il vantaggio primario: l’evitamento
dell’impegno e della sofferenza nella lotta.
Quello che Kafka non accetta è il principio di discrepanza, di
diversità tra la natura paterna e la natura filiale, discrepanza che
è già insita nella natura delle cose e non già nella specificità degli
avvenimenti.
Kafka si sente condannato nel suo sforzo di compiere un processo
unitivo, quello che dovrebbe portare l’uomo a “vedere”. Ma vedere chi?
Senza dubbio il Padre (e forse Dio), “Un padre che ha infuso nel figlio
il bisogno di quella vista, ma insieme l’ha accecato”. In queste parole
di Kafka è racchiuso il suo dramma edipico.
Il figlio, ogni figlio è il contenuto della volontà di “un” padre, non
del padre anagrafico, ma di “un” padre che rappresenta la legge. Il
figlio pensa alla sua storia come ad una storia da attuarsi nella
soddisfazione della volontà del proprio padre; ma questa è la
fissazione al padre reale, alla incapacità di soddisfare il padre
reale, il fraintendimento che ha inchiodato Kafka.
Kafka non vede il padre simbolico, il padre al quale anche il suo padre
naturale deve inchinarsi, non vede il padre della legge, il padre
universale che costituisce la norma, il patto, l’alleanza tra il
consorzio dei figli. Kafka non vede il padre del linguaggio che lega
la comunità e la mantiene in regola. Egli vede “suo” padre, vede un
indegno rappresentante della legge e non sa abbandonare questo cattivo
modello di legge per andare alla ricerca di altri. La questione che
dalla lettura della Lettera rimane irrisolta è quella della legge. In
Kafka il padre reale non trasmette la legge nè il figlio riesce ad
andare, volgarmente, da qualche altra parte a cercarsela.
Per Kafka il padre non è un ostacolo, che per l’appunto può essere
superato, con il quale ci si confronta, ma è un eterno nemico, un eterno
nemico anche quando fisicamente assente. E’ il padre descritto in
Totem e Tabù da Freud, teso al possesso delle donne e alla castrazione dei
figli che avanzassero pretese, è il padre del giudizio inappellabile,
è il padre che condanna solamente con la presenza, solamente con la
diversità generazionale, è il padre che annulla il linguaggio come
significazione di comunione.
Scrive Kafka nella Lettara :”L’impossibilità di tranquilli scambi di
idee ebbe un’altra conseguenza, in fondo assai naturale: io disimparai
a parlare. In nessun caso sarei diventato un grande oratore, ma avrei
saputo servirmi con facilità del comune linguaggio umano”.
Dunque il padre castra anche la possibilità più naturale di entrare
e intrattenere relazioni nel sonsorzio umano: il linguaggio. Anche il
linguaggio dell’amore.
E ritorniamo, per concludere, al principale capo d’accusa che Kafka
rivolge al padre: quello di avergli impedito delle relazioni affettive
soddisfacenti e che lo potessero al matrimonio. Kafka qui è
lucidissimo. Il passaggio dallo stato di figliolanza alla liberazione
dal padre è costituito dal matrimonio. Kafka ha perfettamente ragione:
per non essere più figli è necessario abbandonare (non certo solo
fisicamente) la casa paterna e dirigere il proprio desiderio altrove,
per l’appunto verso un oggetto altro di desiderio. In due parole è
questa la soluzione del complesso edipico: fare passare il proprio
desiderio, il proprio pensiero, la propria spinta pulsionale, dal
genitore (del sesso opposto) ad altri oggetti di investimento. Kafka
a volte si sente pronto al passo, a volte no e finisce per rinunciare.
Ma la motivazione della sua rinuncia è interessante. Egli scrive: “Se
io voglio liberarmi dal particolare infelice rapporto che mi unisce
a Te, devo fare qualcosa che non abbia con Te la minima relazione; il
matrimonio sarebbe la massima e la più onorevole indipendenza, ma è
nello stesso tempo strettissimamente collegato a Te. Volerne venir
fuori così ha quindi qualcosa di folle e ogni tentativo è quasi punito
con la pazzia”.
Kafka è unito al padre da quello che comunemente viene chiamato “doppio
legame”. Sfuggire al padre sarebbe contrarre matrimonio, creare una
propria famiglia, ma nell’inconscio di Kafka famiglia e matrimonio
sono il padre. Proprio qui sta lo strapotere paterno, quello di
impersonificare addirittura degli istituti, delle istituzioni alle
quali, proprio perchè il padre ne è il rappresentante, il figlio Kafka
si sente interdetto. Appunto “Così come siamo (cioè nello stato in cui
si trova il mio inconscio), invece, il matrimonio mi è precluso, perchè
è Tuo dominio esclusivo”.
E torniamo a quanto si diceva in precedenza. Kafka, è proprio il caso
di dirlo, non ha il coraggio di istituirsi soggetto di diritto, il
diritto al suo stesso desiderio, in questo caso rappresentato dal
matrimonio, gli è negato da se stesso, dalla sua incapacità ad uccidere
il padre, a sostituirlo nella legge, a professarsi egli stesso soggetto
portatore di legge, legge ereditata anche dal padre stesso. Kafka non
riesce a svincolarsi in questo punto, su quello che Freud chiama
“parricidio” che altro non è che la sostituzione del padre con un
proprio diritto, il diritto a portare il proprio desiderio dove deve
essere portato senza il senso di colpa che la attuazione del desiderio
comporta verso il padre. Kafka è inchiodato sul pensiero “Se si
desidera di distrugge qualcuno” e il qualcuno di Kafka è il padre
onnipotente e onnipresente. Il presupposto patologico della teoria
kafkiana è che ciò che si desidera nell’altro è inammissibile. E di
fronte al “no” del padre Kafka non ha armi.
GUIDO VITTORIO SAVIO