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GUIDO SAVIO: LO SPECCHIO

 

 

LO SPECCHIO

 

Punto primo. Lo specchio è il luogo della perdita di tempo. Inutile qui ricordare come uno dei bonari richiami dei nostri genitori quando nelle case esisteva un solo bagno, se esisteva, era “Non perdere tanto tempo davanti allo specchio”, esistendo anche il meno bonario monito: “Lo specchio è del diavolo”3.

Lo specchio è testimone di una terra di frontiera, di un luogo di confine in cui la pelle svolge la sua funzione più profonda e importante, quella di sancire la divisione tra dentro e fuori, tra interno ed esterno. La pelle la si vede allo specchio. Il bambino che si guarda allo specchio, posando la sua attenzione sulla pelle, capisce, conosce, individua Io e alterità. Il bambino coglie i suoi confini, senza scomodare Lacan. Guardandosi allo specchio capisce la differenza tra sé e gli altri (anche se lo fa anche in altri modi).

Ma se quel bambino, capito questo, si fissa al gioco e si fissa a quella immagine, non segue certo la strada della conoscenza, bensì quella della patologia perché perde di vista ciò che sta fuori dalla sua pelle, tutto il resto che lo specchio riflette oltre alla sua figura.

Punto secondo. Fondamentale è che il bambino colga la totalità del proprio Corpo, la totalità del proprio Io, non si veda parcellizzato, non si veda composto da singole parti, non pensi ai suoi organi slegati uno dall’altro (occhi, naso, bocca, mani, etc. come parti divide di un tutto) ma è fondamentale che compia un pensiero di globalità (“Quello là sono Io, tutto insieme”) e di continuità della propria Natura. A portare alla patologia (quella psicotica) è il pensare alle componenti del proprio corpo come entità singole, al di fuori di un Principio di Natura che le ingloba, le armonizza, le fa funzionare.

Punto terzo. La fissazione allo specchio può diventare patologica in quanto fissazione all’apparire, al quale, in un certo qual modo, lo specchio rimanda. L’apparire come sembrare, come sembiante, come esternità, come eccessiva cura della apparenza e dunque eccessiva cura del pensiero di come gli altri ci vedono.

L’apparire porta inevitabilmente ad un sostituirci all’altro nel suo sguardo e pensiero verso di noi. Diventa a sua volta un pregiudizio. In sostanza ci chiediamo troppo insistentemente come mai dovremmo essere, o apparire, per essere amati dall’altro. Ini- zia qui la strada del dover essere, della dipendenza dal giudizio esterno, della dipendenza da una Legge che non abbiamo redatto noi ma che depositiamo nelle mani degli altri (risparmiando il lavoro di costituirci noi una legge e saper dire: “Io mi vado così, punto e basta”).

«Felice è chi è contento della sua parte» recita il Talmud. La nostra parte è il Corpo unitario che noi conosciamo (anche se non vediamo) sotto la nostra pelle, quella parte che noi intendiamo come ricchezza, viviamo come ricchezza prima del rammarico di rendercene conto nel momento in cui la (ahimè) perderemo. La pelle è un limite perché non consente di vedere quello che ci sta dentro. Ma proprio per questo è anche avvio del Pensiero per capire quello che dentro di noi realmente c’è.

 

Il pensiero di amore (non il porre se stessi come oggetto del proprio amore) per se stessi è sempre un pensiero di ricchezza (se appunto limitato), di Eredità da parte di qualcuno (il Padre) che ci ha, a sua volta, amati proprio perchè noi ci diamo da fare per raggiungere la soddisfazione. Il Pensiero di Padre è che… qualcuno è contento (contentus, contenuto) che io sia contento. Il padre reale può anche non c’entrare in questa questione: quello che

conta è che io abbia il pensiero di apertura e di futuribilità di me stesso verso il mondo e la vita verso “quello che accadrà di me”.

Davanti allo specchio invece quando c’è fissazione, esiste solo il numero “due”, il rapporto è duale tra soggetto e immagine (dunque un non-rapporto), manca il numero tre, manca il Padre, manca il garante della Legge. Manca chi (al fine della salute) spezza il rapporto del dualismo, manca chi compie il lavoro di castrazione, manca chi stacca il bambino dalla madre.

Sappiamo che la assenza della castrazione offre indubbia- mente certe forme di garanzia e vantaggio, prima fra tutte la protezione, vantaggio di una falsa regola esterna che agisce per noi, il vivere nella aspettativa, nella logica ma, ahimè, illusione) che la responsabilità decisionale è nelle mani di altri. Lo stato, in altre parole, che il bambino vive nei confronti della madre, quando non vuole staccarsi da lei, quando il padre non intervie- ne come attore della castrazione. Chi rifiuta la castrazione rifiuta la salutarietà della sofferenza (quella buona e sana), si fissa alla “sofferenza” per non incontrarne un’altra che egli paventa maggiormente perchè (quella della castrazione) non ne conosce le virtù benefiche.

Molti vivono all’insegna della sofferenza (quella cattiva, ma- lata, quella che fa davvero male), e ne fanno una condizione im- prescindibile della propria esistenza.

Come scrive Natoli: «Il melanconico indugia sulla sua tristezza e trae dal suo malessere un’estenuata dolcezza. La melanconia, essendo poi del tutto interiore, è perfino un lusso dell’intelligenza, un’acrobazia dello spirito sul suo fondo di miseria»5.

Oppure come annota Roland Barthes: «Il “soggetto” è per noi (dal Cristianesimo in poi) colui che soffre: laddove c’è dolore c’è soggetto: «Die Wunde, die Wunde! (la ferita!) dice Parsifal, di- ventando in tal modo “lui stesso”; e più la ferita è aperta, al centro del corpo (nel “cuore”) più il soggetto diventa soggetto: poichè il soggetto è l’intimità”.

 

GUIDO SAVIO

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