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PADRE FIGLIO E SAMURAI
Il Codice del samurai
Daidoji Yuzan lo ha scritto nel XVI secolo in favore dei giovani samurai. Si trattava di un vero e proprio manuale per avviare igiovani verso quelli che erano i valori, soprattutto morali, della cavalleria giapponese, ovvero il Bushido.
E per codice morale si intendeva prima di tutto (valore morale che verrà ripreso ad ogni più sospinto nel libro).
“Il samurai deve innanzitutto ricordare costantemente, giorno e notte, dal mattino quando prende i bastoncini per consumare la sua colazione di Capodanno fino alla sera dell’ultimo anno, quando paga i suoi conti annuali, il fatto che deve morire”.
Fin da principio si può capire il tono e la profondità del Codice: la accettazione del limite, il coraggio nell’affrontare la vita, il pensiero di finitezza, il pensiero che la vita va consumata e non risparmiata.
E solo seguendo questa bussola in giovane samurai saprà seguire i sentieri della Lealtà e della Pietà Filiale che, vedremo oltre, costituiscono i pilastri del suo essere su questo mondo e portare avanti il suo “senso di vita”.
“Poiché la vita è transitoria come la rugiada della sera e la brina mattutina, e particolarmente fuggevole è la vita del guerriero” vicino al suo signore (Padre) al quale si sente chiamato a una infinita “Devozione”.
Vorrei fermarmi un attimo sulla parola “Devozione”.
La devozione (in latino: deuotio, da deuouere, fare un voto) nell’antica religione romana era l’atto con cui un comandante militare si sacrificava votando la propria vita alla divinità (principalmente agli dèi degli inferi, o Mani), insieme all’esercito nemico allo scopo di ottenere la sua distruzione, come fecero i vari Publio Decio Mure.
Il comandante romano, in situazioni di estrema gravità, poteva durante la battaglia decidere di votare (nel senso di consegnare) sé stesso e l’esercito nemico agli Dèi Mani e alla Terra.
Indossata la togapraetexta, di cui un lembo doveva coprire il capo (capite uelato), saliva su una cavalcatura impugnando un’arma da lancio (telum, probabilmente un giavellotto) e, tenendosi il mento con una mano, pronunciava la formula rituale della deuotio. Dopo averla pronunciata, indossata la toga col cinctus Gabinus (cioè annodata in vita), si gettava tra le file nemiche trovando la morte.
Il comandante poteva anche scegliere al posto suo un milite tra i cittadini arruolati nella legione. Se l’uomo moriva, la scelta era considerata ben fatta; se non moriva, si sotterrava una statua alta sette piedi (circa due metri) e si faceva un sacrificio espiatorio. Era vietato ai magistrati romani passare sopra il luogo di sepoltura di questa statua. Se è il comandante a votarsi e a non morire, non potrà più compiere alcuna cerimonia religiosa privata o pubblica senza contaminazione, sia col sacrificio di una vittima, sia in altro modo. Potrà però votare le sue armi a Vulcano o qualunque altra divinità vorrà. Non è lecito che il nemico si impadronisca dell’arma sulla quale il comandante ha pronunciato la formula della deuotio, se questo succede bisogna compiere un suovetaurilia (sacrificio di un maiale, un montone e un toro) espiatorio a Marte.
Da quello che scrive Livio, comunque, la devotio non era più praticata già ai suoi tempi, così come non lo è nella Via romana agli Dèi, la forma moderna della religione romana
Come Wikipedia indica.
Per i giovani samurai l’insegnamento era molto diverso, per non dire quasi l’opposto. La devozione non era da quello che sta sopra a quello che sta sotto, ma da quello che sta sotto a quello che sta sopra. Leggasi non da Padre a figlio ma da figlio a Padre.
Anche se un verso del Salmo 90 dice, parlando di Dio verso il fedele: “La sua fedeltà sarà per te corazza e scudo”.
Io penso che ci sia una profonda e coltivabile sempre reciprocità tra figlio e padre. Ma anche che la devozione sia prima di tutto dal Figlio al Padre, dal giovane samurai al suo signore.
Forse per noi occidentali forme e contenuti incomprensibili: “…così che quando (il giovane samurai) si trova di fronte al proprio signore per ricevere i suoi ordini, pensi che è la sua ultima apparizione”.
Sono sicuro che noi occidentali non capiremo mai questo. Come pensare a Cristo che è venuto a trovare, che ne so, le sorelle Maria e Marta, queste due donne avessero potuto pensare che quella poteva essere l’ultima volta che lo vedevano, e dunque avrebbero dovuto comportarsi di conseguenza. Non so. Una cosa certa e più plausibile potrebbe essere quella dell’Orto degli Ulivi, in cui Gesù dice qi discepoli sonnacchiosi: “ancora un po’ mi vedrete e poi non mi vedrete più”.
Messaggio chiaro e inequivocabile, anche se diretto a orecchie piene di cerume.
Continua il Codice: “Il samurai dovrebbe basare tutta la sua condotta su un profondo senso di Pietà Filiale”.
Lo hanno fatto forse i discepoli che pure lo chiamavano Maestro?
La Pietas sappiamo tutti che cosa è. E’ il sentimento dell’attaccamento e della riconoscenza (di cui parlerò più avanti).
Poi le “regole” dettate dal Codice le riposto qui come vengono fuori dal Codice stesso.
Tuttavia una “indicazione” mi ha colpito all’inizio di questi Dieci Comandamenti.
“Un samurai deve pettinarsi ogni mattina e radersi accuratamente la fronte”.
Noi occidentali sappiamo benissimo che cosa sia la “tonsione” dei capelli: vedi i giovani seminaristi della Chiesa Cattolica (non i samurai) che erano costretti a farsi quella che in dialetto veneto si chiamava “la cerega”). Si trattava di una rasatura in mezzo alla testa. Poteva anche essere che Lo Spirito Santo fosse facilitato nel passaggio? Non saprei.
Nel Bushido il giusto e lo sbagliato non sono altro che il bene e il male.
Può allora il Padre insegnare al Figlio in che cosa consista il giusto e lo sbagliato? Ma soprattutto può il Padre, guardando il figlio crescere imparare a sua volta, in che cosa consiste il giusto e lo sbagliato?
Poi le regole del Bushido diventano igienico sanitario ( e questa è la parte che del libro a me meno interessa) : ”Modera i desideri nel bere e nel mangiare, evita di indulgere eccessivamente nei piaceri del sesso, che è la più grande illusione dell’essere umano”.
Mi pare chiaro che tutte le religioni di questo mondo, siano infilate per lo stesso spago che recita: “Evita, non fare, etc.”. Come se il fedele di tutte queste religioni fosse un minus habens, su cui il Padre deve imporre una regola.
Ma la regola non può non essere che la dialettica (Padre-figlio/ Dio- fedele/ Maestro- alunno/ Uomo- donna, etc..
Poi il Codice tratta questioni pratiche tipo la moglie del Signore, la casa, le armi (che pure sono cose importantissime da sapere in un giovane del XVI secolo che si va a situare all’interno di una famiglia, nuova, in cui gli equilibri non sono quelli della sua famiglia di origine).
Fino ad arrivare ad un Capitolo del codice che, a mio modo di vedere (anche perché la questione l’ ho trattata in varie occasioni) è fondamentale per la strutturazione etica del giovane samurai (e dei giovani di tutto il mondo).
Il titolo del capitolo è “Il senso del pudore”.
Mi spiego.
“Il samurai può non avere mangiato nulla, ma usa il suo stuzzicadenti”
A riguardo del pudore più o meno tutti gli studi filosofici e psicologici affermano che si tratta di un comportamento, o di una tendenza, come dice Galimberti nella sua “Enciclopedia della Psicologia” : “A conservare il possesso della propria intimità difendendola dalla possibile intrusione dell’altro”. Si tratta dunque di un, possiamo anche chiamarlo così, sentimento “relazionale”. Ovvero, non esiste in noi il pudore se non è concomitante alla nostra la presenza dell’altro. Il terzo polo, che in questo caso funziona da strumento ma anche da trait d’union è lo “sguardo” che può essere un dato reale, offerto dall’altro della relazione, oppure può essere una presenza interiorizzata.
Queste condizioni erano già state colte da Hegel per il quale “il pudore è l’inizio dell’ira contro qualche cosa che non deve essere. L’uomo che diventa cosciente della sua destinazione superiore, della sua essenza spirituale, non può non considerare inadeguato quel che è solo animalesco, e non può non sforzarsi di nascondere quelle parti del proprio corpo che servono solo a funzioni animali, e non hanno né una diretta determinazione spirituale, né una espressione spirituale” (1836-1838, p. 981). Hegel sta parlando proprio di pudenda.
Sartre collega molto il pudore alla vergogna, vedendone nello sguardo lo strumento di comunicazione. Comunicazione che il soggetto guardato vorrebbe interrompere in quanto la avverte come minaccia in riferimento alla propria soggettività. In altre parole la “soggettività” del soggetto guardato scadrebbe, proprio sotto l’effetto dello sguardo dell’altro, ad una mera oggettività: egli diventerebbe un oggetto in mano (nello sguardo) dell’altro e dunque si verrebbe a trovare in una posizione di difesa. Difesa della propria individualità.
E’ questa la tesi che Monique Selz, psicoanalista e psichiatra francese, sostiene nel suo bello e intenso libro che si intitola per l’appunto Il pudore. Un luogo di libertà.
In una società come la nostra, in cui l’occhio dell’altro, nelle infinite e multiformi accezioni, è portato ad intrufolarsi ovunque, trovando dall’altra parte altrettanta disponibilità alla esibizione. In una società come la nostra in cui il bisogno di possesso di beni materiali non trova quasi confine con la “fame” di possedere l’altro come oggetto.
In una società come la nostra dove tutto viene messo in movimento per stimolare il desiderio tanto di possesso quanto di consumo, e la parte intima del singolo non è neppure presa in considerazione come eventuale agenzia di libertà. Ed è proprio sulla libertà che la Selz insiste, in quanto il pudore sarebbe proprio una delle garanzie che noi abbiamo di libertà bei confronti dell’”altro” che con il suo “sguardo” ci forza in continuazione, ci forza ad una difesa.
Il pudore allora si dimostra una difesa indispensabile (affatto patologica) della nostra intimità, individualità e sovranità. Il pudore come sentimento contro la trasparenza voluta a tutti i costi, contro il “pubblico” imposto a suon di medialità; il pudore quasi baluardo contro l’illusione della logica imperante del “tutto è possibile”, il pudore come salute offerta dalla temperanza della sua pratica.
Temperanza proprio come la intendevano i Greci, ovvero “padronanza di sé”, capacità di contenere, di contenere per l’appunto soprattutto nel tempo, il proprio desiderio che, giocoforza, ha obiettivi limitati. Il pudore come limite dentro al quale noi abitiamo e diventiamo unici e irripetibili per l’altro che con noi ha relazione.
La Selz nel suo libro è molto attenta alle questioni del corpo, vedendo, anche nel excursus storico che compie, come la violenza, alla fin fine, vada proprio a ferire il pudore dell’altro, la umanità unica e irripetibile dell’altro. Ferire il corpo è ferire assieme il pudore e la diversità dell’altro. La aggressività si infiltra tra corpo e alterità: per questo fa tanto male. Chi subisce violenza è in ogni caso ridotto ad oggetto nelle mani dell’altro, ed il suo pudore viene calpestato assieme alla sua stessa identità, per non parlare della libertà. Sembra che “tutto sia lecito” sul corpo dell’altro, e questa logica, afferma la Selz, ha portato all’imperativo del piacere ad ogni costo e della esibizione dei corpi.
E scrive qualche riga più avanti: “Dire che non c’è niente da nascondere, significa immediatamente affermare che qualcosa è nascosto, e tale rimane. Ed è l’inaccessibilità di questo qualcosa a motivare il bisogno di spingere sempre più oltre i limiti del vedere e del mostrare”. I limiti del “fare” sul corpo dell’altro, oltrepassando la soglia del pudore che l’altro immancabilmente e umanamente erige.
Ognuno di noi ha molto da nascondere ed è anche bene che diventi esperto nel nasconderlo: ne va della sua identità. Non tanto per reticenza o per “gelosia delle proprie cose”, quanto per saper essere solo con se stesso nel momento in cui c’è pensiero sulla propria identità. Un “non detto” che struttura il soggetto proprio perché taciuto a tal fine.
D’altra parte sappiamo benissimo, parlando d’amore, che il “dirsi tutto” all’interno della relazione è un postulato ideologico che può portare dolore e crisi. Mentre la permanenza del pudore “reciproco” è garanzia che l’altro occupi proprio il posto di altro, sia una vera alterità, abbia in sé qualcosa che io non conosco e che dunque lui (o lei) può tirare fuori nel momento in cui io ho bisogno o vivo angoscia.
E’ un punto importante questo: il pudore garantisce la posizione di alterità dell’altro, ovvero consente che io acceda a lui (o lei) e trovi una risposta, la sua, non già la mia che si è dimostrata fallimentare.
Il pudore finisce allora per identificarsi nella intimità, nella irripetibilità, nella originalità del soggetto, proprio quando lui in esso si ritira: E non sempre si tratta di un ritiro pacifico. E scrive in merito la Selz: “Dal cogito cartesiano, e poi attraverso differenti tradizioni filosofiche (Kant, Husserl, Scheler, Heidegger, Sartre…) fino alla recente attualità (con Levinas e Ricoeur tra gli altri), abbiamo assistito all’emergere di ciò che può essere definito un luogo proprio a se stessi, quello della intimità, mentre si andava scavando uno spazio di discontinuità tra se stessi e l’altro, che è appunto quello dove noi possiamo pensare che abbia sede il pudore”.
Il pudore come “medietas”, come mezzo tra l’Io e il Tu. Il pudore è tanto la nostra intimità quanto il modo di dire la nostra intimità all’altro. E’ tanto stato quanto mezzo. Ma soprattutto la distanza, lo spazio che intercorre tra due che si amano, l’aria vitale; in altre parole, la separazione. L’amore per l’altro chiede un distacco dalla propria identità, un abbandono del proprio Io per potersi aprire alla diversità, alla alterità dell’altro. Finchè rimaniamo “possessori” di noi stessi non potremmo mai avvicinare l’altro. Non tanto perché non possiamo muoversi, ma in quanto abbiamo come limite invalicabile il pensiero di “possesso”.
In uno dei passi più importanti del suo libro la Melz scrive: “L’amore è possibile solo se chi ama e chi è amato sono distinti l’uno dall’altro e dunque separati”. Separati significa non seguire le proiezioni che noi attuiamo nei confronti dell’altro. Separati significa lasciare l’altro “libero da noi” nel senso di non voler sovrapporre il nostro desiderio al suo. Il pudore, sotto questo profilo, trova la sua natura nel determinare uno spazio proprio per ciascuno, nel fatto di garantire i limiti di ciascuno.
La Selz fa riferimento al libro di Shmuel Trigano dal titolo “La séparation d’amour” che sostiene la stessa tesi. Trigano sostiene l’importanza di definire i propri limiti perechè è a partire da lì che esiste la possibilità di movimento verso l’altro, e il pudore è lo strumento attraverso il quale noi tracciamo i nostri limiti.
E il tradizionale adagio che sostiene che la libertà comincia dove “finisce” la libertà dell’altro merita una riformulazione: “La libertà di ognuno ‘comincia’ là dove comincia la libertà dell’altro”, proprio nel rispetto della reciprocità che contraddistingue la relazione che funziona. L’abbandono del contatto fisico dopo l’amore, oltre a segnalare la distanza tra i corpi sancisce la rinascita del desiderio reciproco.
“La funzione del pudore è di circoscrivere uno spazio proprio, e quindi di mantenere una distanza rispetto all’altro”, scrive la Selz. Ed è proprio la parola rispetto la parola della reciprocità, non tanto il “rispetto” come norma esterna, come norma morale, quanto norma giuridica che due che si amano tracciano da soli, nella loro intimità, appunto nella conservazione del proprio pudore. L’amore è una legge che “si pone” come componente morale, non una legge che la come “oggetto” la applicazione della morale. Questa è stata la grande scoperta freudiana.
Saper prendere su se stessi l’altro è il grado della legge in amore, fare del piacere dell’altro il proprio piacere, fare della soddisfazione dell’altro la propria soddisfazione, senza tuttavia fare della intimità dell’altro la propria “intimità”. “Di conseguenza – scrive la Selz – il pudore ha il compito di nascondere l’immagine per proteggere l’essere”. E l’essere è il nostro “essere soli”.
Il pudore interviene quindi a definire il confine di un luogo che è prerogativa di se stessi, il “proprio” luogo, che è poi il luogo della libertà dal quale parte lo scambio con l’altro nel rapporto d’amore, ma anche il luogo della sana a giusta protezione nei confronti dell’altro: bisogna saper proteggere se stessi per saper e poter proteggere l’altro sostiene la Selz.
Il pudore è dunque il linguaggio del corpo, ma anche il linguaggio che preserva i corpi che si associano e si dividono tra di loro in un moto di continuità; il linguaggio è dire ma anche nascondere (non fare mistero) del proprio essere, e il pudore rappresenta la libertà del linguaggio di muoversi nel mondo delle relazioni.
Conclude la Selz intendendo il pudore come garanzia, non solo garanzia per il singolo per potersi rifugiare nei momenti di difficoltà, ma anche una garanzia collettiva, una garanzia del genere umano che invece è tanto provata e tentata dalla esteriorità, dalla apparenza e dall’eccesso di trasparenza.

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Ecco, a mio modo di vedere il giovane samurai era istruito per
“il pudore come garanzia, non solo garanzia per il singolo per potersi rifugiare nei momenti di difficoltà, ma anche una garanzia collettiva, una garanzia”. Il giovane samurai, oltre che devozione doveva essere anche garanzia per il proprio Padre, cioè che il Padre Signore del Giappone del XVI secolo.
Ovviamente noi moderni e occidentali possiamo chiederci il senso di questo tipo di educazione. Tempo al tempo.
I temi dell’Onore e della Reputazione fanno parte costante del Codice.
Il samurai tuttavia è istruito a non manifestare mai il proprio sentimento di insoddisfazione, specie davanti al suo Signore che proprio a causa di ciò potrebbe provare dolore. Se vogliamo trasporre questa norma nel tempo che viviamo e nel rapporto Figlio/Padre mi pare che la divaricazione storica e soprattutto dei valori morali sia immensa.
Lealtà, Fede ed Onore sono i tre pilastri che sostengono la vita del samurai, assieme ad un quarto, il sapere che può morire in ogni momento, che, a mio modo di vedere è il più costruttivo.
Infatti Daidoji Yuzan parla di due momenti ben distinti della vita del samurai: quello della guerra e quello della pace, nel quale il giovane guerriero è costantemente chiamato a “costruire” internamente su se stesso ed esternamente per il suo Signore.
Il breve ragionamento sulla Autorità (quindi questa realtà nel rapporto Figlio/Padre) mi ha molto colpito.
“Si può dire che un samurai in servizio prenda a prestito l’autorità del suo Signore, o anche che gliela rubi. Allo stesso modo il suo Signore può prestargliela o permettergli di rubargliela”.
In ogni caso è “regola vitale” per il giovane samurai la Riconoscenza nei confronti del suo Signore.
Noi potremmo dire del Figlio nei confronti del Padre.
La “pretesa” di riconoscenza, penso sia uno dei sentimenti che noi, nella nostra vita, maggiormente frequentiamo e che altrettanto con maggiore frequenza, rispetto ad altri sentimenti, ci possa portare a difficoltà nella relazione con l’altro.
Noi tutti, ovvio, “facciamo qualcosa” per l’altro (realmente). Poi, di questo nostro reale fare, ce ne facciamo un pensiero: ne rileviamo il peso, il valore, il costo che ci è costato per l’appunto, e si mette in moto il “secondo atto” del pensiero stesso che sfocia in una presunzione che l’altro ci debba restituire (pari pari) quello che noi abbiamo dato. Può essere il semplice favore, l’interessamento ad un evento felice, il partecipare ad un evento doloroso, il sacrificarsi anche per l’altro, il dargli parte del nostro tempo e delle nostre energie, e via dicendo.
Questo darci da fare per l’altro dunque è una vera e propria realtà. Ma non è di questo di cui vorrei parlare. Vorrei fare alcune riflessioni su quello che è il “secondo atto”, forse meglio dire la partita di ritorno, che io vedrei in questo: all’osso: “Io ho fatto qualcosa per te, e tu che cosa hai fatto per me (tanto da pareggiare o almeno da arrivarci vicino?)”.
Credo che il pensiero che noi facciamo “di più” per l’altro ma riceviamo “di meno” sia antico quanto l’esistenza dell’uomo su questa terra.
La prima conseguenza di questo pensiero (quello che ci deve essere “pari patta” tra quello che io ti do e quello che tu mi restituisci) è il pensiero di perdita. Ovvero io mi penso sempre in perdita e dunque in credito, in attesa di compensazione. Quasi una costante fame e diritto allo stesso tempo, di essere risarcito per un esposto.
Ma sappiamo noi tutti che questo che io vado esponendo è il pensiero patologico. La stragrande maggioranza delle persone sane infatti fa favori, offre aiuto, concede tempo e ascolto all’altro senza chiedere niente in cambio. Senza, appunto, nulla pretendere. Anche se qualche dubbio in proposito a me rimane.
E dunque qui vorrei occuparmi esclusivamente della patologia che si esprime nella “pretesa” di riconoscenza.
Se io resto nel pensiero di avere perso qualcosa (nel fare del bene all’altro e non riceverne il corrispettivo) mi infilo dritto dritto nell’angoscia che recita: “ho perso”. Non credo esista formulazione che descriva l’angoscia.
Se l’altro, a cui ho fatto un piacere,gli ho concesso tempo, ho dato un aiuto, etc. non mi offre riconoscenza, significa, alla lettera, che non mi “ri-conosce” per quello che sono, non ri-conosce la mia storia con lui o il mio amore con lei.
Riconoscenza è davvero “segno” alla lettera, nel rapporto tra persone: l’altro sa chi sono io e in quanto tale mi tratta, se mi tratta diversamente vuol dire che non mi riconosce, che non sa bene chi sono. Proprio, alla lettera, questione di “identità”.
Come a dire: “Ma non mi riconosci più?”. “Sai chi sono io, eppure te lo sei dimenticato?”.
Ognuno di noi ha un giudizio su se stesso (e non stiamo qui a discorrere sui dolori a cui, chi non ha un buon giudizio su se stesso, va inevitabilmente incontro).
E’ proprio questo giudizio che noi abbiamo su noi stessi che muove la domanda di riconoscenza. Ovvero io pretendo: “che tu mi conosca per quello che è il mio giudizio su me stesso”. Non sempre avviene così. Spesso l’altro confuta, contraddice, disdice il giudizio che noi abbiamo su noi stessi. Ma questo fa parte della vita, anche se di una parte dolorosa si tratta. A nessuno piace essere “contraddetto” come a nessuno piace essere “irriconosciuto”.
Se il giudizio che io ho su me stesso è sano, non è un giudizio animato dall’amor proprio o dalla vanagloria. E allora, io, in buona fede e in onestà “chiedo” che l’altro me lo “riconosca”. Non che sia d’accordo con me fino al millesimo, ma almeno che prenda atto delle mie buone intenzioni.
Poi sappiamo quanto fondamentale sia la parola dell’altro su di noi per fondare il nostro stesso giudizio su di noi. Ma anche questo discorso ci porterebbe fuori tema.
Fondamentalmente io desidero (sempre) che l’altro mi sia “grato” perché io ho un giudizio su me stesso che io conosco benissimo, e il mio giudizio su di me è il mio peso che metto sulla bilancia delle relazioni.
La pretesa di “riconoscenza” (o anche di gratitudine, non credo che tra le due cose ci sia grande differenza) potrebbe seguire questo schema logico: “Io ti conoscevo prima/ tu mi conoscevi prima…e allora perché questa differenza nel pesare me stesso, nel lasciarmi senza quella parte di restituzione che di diritto mi apparterrebbe? Tu me la dovresti ri-conoscere?”.
Possiamo capire benissimo come la patologia di questo schema posso sfiorare, se non interpretare pienamente una posizione paranoica. Il paranoico pretende eterna e millimetrica giustizia. Ed essendo il paranoico un militante, è lui il primo che con se stesso (e anche nella relazione) applica questa rigidità, questo integralismo.
Per cui è facile che (sempre nel pensiero patologico) l’altro che non mi è riconoscente, l’altro che non mi è grato per quello che io ho fatto per lui, mi diventi prima un soggetto inaffidabile e poi un vero e proprio nemico.
Molti pensieri ossessivi poi filano dietro al rimuginare sul comportamento degli altro nei nostri confronti proprio nel tema della riconoscenza.
La pretesa di restituzione, di riconoscimento, di gratitudine, alla fin fine, diventa un pensiero e una modalità di comportamento “seduttiva”: “Io desidero essere desiderato” dall’altro che, con la non parificazione del dato/avuto, non soddisfa questo mio pensiero tanto infantile quanto irrealizzabile. Dunque l’altro inadempiente diventerà per forza mio nemico. Credo che il sentimento dell’odio trovi in questi discorsi una robusta applicazione.
E mi viene in mente quel passo de Il Paradiso perduto di Milton in cui Satana dice che si è ribellato a Dio per il peso insopportabile della riconoscenza. Cos’è il peso della riconoscenza? Come può la gratitudine diventare insopportabile? Il caso più semplice è quello dell’invidia. Satana voleva di più, non accettava la sua condizione di secondo.
Trilussa, in una sua celebre poesia, descriveva la lungimiranza della gratitudine, alla base di relazioni solide e soddisfacenti, con una ironia disincantata che mai come ora si adatta al nostro vivere convulso. Pretenderla, nella nostra società liquida e materialista, purtroppo diventa…satanico.
Ma nel Codiuce non si parla mai di pretesa. I valori sono prima scontati e dopo acquisiti.
“Chi agisce in questo modo è un samurai modello che ha compiuto un gesto cento volte migliore del junshi (il suicidio per fedeltà), poiché racchiude in sé le tre qualità di Lealtà, Fede e Valore, e il suo nome glorioso verrà tramandato ai posteri.
GUIDO SAVIO