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TEMPO E RESTITUZIONE (Tempo illuminato)

 

 

TEMPO ILLUMINATO?

 

 

“ Luce dei miei occhi”

Hegel cerca, in

punto di morte,

la luce che non gli dà più tempo

 

 

 

Bestmit, erleuchtetes su sehen nicht das licht

(“Destinato a vedere ciò che è illuminato, non la luce”).

Dicono lo dicesse Hegel morendo.

 

Da che ora della notte è che la notte è veramente passata? Il tempo della notte non è lo stesso tempo del giorno: è lento e noi dobbiamo (se vogliamo vivere) dare tempo al tempo, che passi. Non esiste altra pratica. Dipende tutto dalla luce? Il tempo non è il nostro contenitore ma il nostro contenuto: noi lo viviamo come viviamo la nostra presenza, il nostro esserci, il battito del cuore, il respiro sereno o irrequieto.

Se io fisso il mio pensiero su di una parte del mio corpo il tempo rallenta ulteriormente la sua corsa. Il pensiero allora si sovrappone al tempo ed io aspetto il suo passare, chiedo che passi, a volte senza nemmeno sapere verso che cosa.

Non si può né scrivere, ne dire, nè pensare tutto il pensato, come non si può mettere argine al tempo: ci si annegherebbe.

In-essere, afferma Heidegger. “In- hah”, abitare. Chissà mai chi abita dentro di noi se manca il tempo per viverlo. Ma quanto è sacro il non detto del tempo che non ci consente di dire. Quelle parole che restano in gola, poi pensieri che restano in testa pallidi e timidi, quelle parole che restano nell’inchiostro dentro alla penna?

Del pensare non è possibile fare a meno. Dell’altro non è possibile fare a meno.

 

Pensare all’altro è uguale a fare vivere l’altro, dentro e fuori di noi, è tenere viva l’ alterità parlando a se stessi.

 

Si pensa il pensiero. Chi sia poi il “se stesso a cui si parla? “. (Gilbert Ryle). E’ impensabile la non relazione.

 

Pensare bene a se stessi è uguale a fare vivere se stessi dentro e fuori di noi, è tenere viva la nostra identità.

Non essendo non pensabile, il non pensiero non può esistere. Non può non farci esistere. Il pensiero ha sempre una sua “prassi”, in qualche modo è pratico perchè porta da una parte all’altra.

Il principio di realtà in Freud: “Esame di realtà: processo postulato da Freud che consente al soggetto di impedire la possibile confusione tra ciò che il soggetto percepisce e ciò che rappresenta soltanto” (Laplanche e Pontalis, Enciclopedia).

Non esiste statica ma solo dinamica. E’ la dinamica tra dentro e fuori e fuori e dentro. Lì dentro dove il tempo passa. La cipolla di Peer Gynt e il lamento di Qoelèt sono pur sempre un tentativo di dare senso al Tempo. Il senso è sempre nello s-coprire. Il tempo ci dà l’abbrivio per s-coprire, e non sappiamo mai cosa.

“Ma il mondo è l’alienazione estrema, è cioè l’infinitamente distante da ciò che in verità è. Il mondo non è . È il contenuto di una volontà destinata a rimanere intenzione (…). La alienazione estrema è diventata non nel senso che la volontà di potenza riesce a-far-sì che l’ente non sia, ma nel senso che ormai tutto ciò che viene pensato e operato nella civiltà occidentale è ciò che si pensa si opera in relazione alla persuasione nascosta ma dominante che l’ente non sia, cioè sia un niente”. (E. Severino, Il Destino della Necessità, Adelphi, Milano 1980).

Dal tempo ci sentiamo fatti vivi, esseri viventi. Ma anche fatti morti (senza che, per noi, ci sia tempo per capire).

Esiste contemporaneità dell’essere e del non essere (se vogliamo bene e male) (noi siamo e anche non siamo nello stesso tempo): fondamento della salutare contraddizione. Siamo la nostra vita e siamo anche la nostra morte. Esiste allora in noi il fondamentale dialogo interno tra il nostro essere e il nostro non essere? L’alterità è il vero passaggio da una condizione all’altra?

La presenza dell’assenza è la condizione che consente il dialogo interiore, ma consente anche la respirazione e la vita, il moto e la penetrazione del Mondo. La casa è una cavità dove si entra senza che lo spazio sia vuoto. La mano è una cavità ma nello stesso tempo è anche una propaggine. Le quattro dita sono la cavità. Il pollice (antagonista) è la propaggine. Il protagonista non può esistere senza l’antagonista: la mano ne è l’insegnamento.

“Io sono questo. Ma se ciò avvenisse più ostentatamente proprio quando ‘non’ è questo ente? E se la costituzione dell’Esserci, che è sempre mio, fosse il fondamento del fatto che l’Esserci innanzitutto, e per lo più, non è se stesso? (M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, p. 151).

Bestmit, erleuchtetes su sehen nicht das licht

 

L’angoscia è il nemico: e più di tutti i nostri sentimenti essa è legata al tempo. Forse tutti gli affetti e le passioni sono legate al tempo. L’angoscia di più, è l’ora che non ha possibilità nel futuro. Ora e non prima e non dopo. Ma ora. L’angoscia è sempre ora. L’angoscia è il futuro che non c’è.

Tempo è la massima categoria perché sposta in continuazione tutte le altre categorie, sposta i sensi e i fini.

Il tempo è la massima categoria perché è sempre una domanda. E Domanda è sempre Futuro. La domanda nasce dalla mancanza e dunque nasce per davvero. Inizia. E’ un ‘chi’ sempre che inizia. E chi inizia, chi domanda, comanda sempre verso la pacificazione.

Esiste tempo solo come tensione a concludere? Concludere significa rispondere alla domanda sul proprio fare. Anche nel senso di “avere fatto abbastanza”.

 

 

 

Tempus fugit” (Il tempo vola!)

 

“Un giorno morirò” mi ha detto in seduta una persona, e in questo “pensiero” egli poneva la conquista del limite, del senso del limite della sua vita, e dunque il senso vero e unico della vita.

Nessuno ovviamente è così stupido da pensare ad una propria immortalità, ma capita tuttavia che con il nostro pensiero ci si lasci andare a nostre fantasie di “potenza” quasi illimitata nel tempo (“posso e dunque aspetto a fare”) che ci può renderci difficile il passaggio all’”atto”, alla scelta.

Mi spiego: ci può accadere che noi siamo tanto presi nella nostra esistenza dal bisogno della “conservazione” (la potenza) che ci teniamo sospesi nel nostro fare, quasi come se il fare dovesse essere una “perdita” del nostro potere vitale. Meglio, come se lo scegliere dovesse essere la rinuncia irreparabile al resto, al tutto. Come se una certa forma di avarizia ci dovese garantire poi nei tempi bui. Cicala e formica.

Ma sappiamo anche che il Tutto non esiste, e se io voglio vivere devo consumare, giorno per giorno, tutto quello che sono e quello che ho. Consumare, proprio consumare: non posso rimandare al futuro la mia soddisfazione, non posso ribadire la ormai trita frase “ci penserò domani”, non posso, per mantenermi “potente” preservarmi dalla consumazione. Consumazione è una delle articolazioni della Restituzione. Se il “consumo” il mio tempo certamente non lo consumo (vivo, pratico, costruisco, penso… etc.) certo solo per me.

Se io ho una candela la posso usare per abbellire la tavola su cui cenerò stasera con le persone che amo, che mi sono vicine. Ma per dare luce la candela brucia, si consuma e muore: è questo il suo limite e anche il suo senso. Il senso del Tempo è, lo vedrei benissimo qui, il senso della Restituzione.

Poi posso anche pensare che può venire la guerra e di candele ce ne sarà bisogno, Ma se ne ho consumata una per allietare una serata conviviale, certo i miei amici mi aiuteranno a trovarne altre. Se guerra mai ci sarà.

 

 

 

La soddisfazione è il consumo dei nostri mezzi e della nostra energia. Consumo vuol dire uso e non risparmio. La vita è un perdere progressivo, per questo la Soddisfazione arricchisce la vita e ci dà l’Umanità dell’umile.

L’oltre verrà come un vessillo. Tutti noi dovremmo pensare all’oltre per vivere con minore angoscia. Vedremo Cervantes più avanti.

Ma l’oltre non è solo Dio o l’Aldilà.

L’oltre è quello che noi lasciamo della nostra vita agli altri, e gli altri ne fruiscono, anche se inconsapevoli. Oltre a volte è l’indefinibile stesso.

Chi si fida di se stesso è uno che accetta di “consumare” la sua vita giorno dopo giorno, ma a un patto. Noi dobbiamo combinare nella nostra esistenza l’accettazione del fatto che non tutto è nelle nostre mani, ma in parte, l’altra parte è già di quelli che verranno, e magari noi non conosciamo.

 

Questa posizione di compromesso ci pacifica con il Destino e con il Caso, e nello stesso tempo non ci inchioda alla croce della colpa.

“Mi basta così” è la visione di questo oltre che non conosciamo bene, ma nello stesso tempo potrà essere una alleanza con il tempo stesso: la sorpresa, il futuro, l’impensato.
Se di questo vivere accetto le regole non mi farò mai la domanda “Cosa potrei fare di più?”. Questa è la domanda, se mal gestita, del capestro e delle malinconia, madre di tutti i capestri che noi annodiamo.

La risposta è semplice: “La giornata che ho trascorso è la giornata che dovevo trascorrere, non posso chiedere di più”. Il tempo è mio amico (se lo voglio) se io non mi faccio troppe domande.

 

La domanda è l’atto dell’andare avanti ma anche l’atto del rischio: devo sapere come, quanto e soprattutto a chi domandare, perché la risposta è un peso o un sollievo che io devo sapere gestire.

Ma non siamo marziani! Chi può tanto? Chi tanto può prevedere? Chi può amministrare il proprio futuro? Il proprio tempo presente?

E allora dobbiamo volare bassi, in cerca della terra e delle risposte della terra, dell’humus, di quello contro cui, per fortuna, ci si sbatte il naso contro.

Da piccoli bipedi che battono il terreno con le loro palme non possiamo non chiederci se la strada che stiamo percorrendo è quella giusta (ma anche sappiamo che il “giusto” non c’è).

Ora la strada che ci sta davanti è dritta ma ha anche dei bivi, a volte molti bivi: l’unica garanzia che io ho è che la strada che mi si staglia davanti agli occhi, possa essere anche la sorpresa che dietro l’angolo tutte le strade riservano.

La Sorpresa, per sua natura, comporta il cambiamento (ma non è detto che sempre sia così). Tempo, tempo e ancora poi tempo da aspettare e che ci spetta. Come palpitiamo noi nel momento il cui il cambiamento ci balena all’orizzonte?

Se la sorpresa è cambiamento (e lo è), se l’altro che io incontro mi porta del nuovo, perché non godere soddisfazione? Soddisfazione e Nuovo si tengono a braccetto nelle ore che noi passiamo o dolenti o gaudiose.

Le ore della soddisfazione sono le ore che noi passiamo con noi stessi aperti all’altro che mi può portare la Novità. Le ore della soddisfazione (a possono essere anche minuti, o pochi secondi) sono quelle che dalla mia stasi (noia) l’altro me le ribalta con la sua stessa presenza (sennò che ci sta a fare l’altro nella mia vita?).

 

E quando l’altro (Altro) mi porta la Novità mi porta le ore nuove, mi sveglia insomma, non mi lascia stare come è giusto che nessuno mi lasci stare.

Se io guardo bene le ore della Novità mi accorgo, che, se le voglio, sono le ore della soddisfazione: non esiste soddisfazione che non venga dall’altro: non esiste soddisfazione che non venga dalla sorpresa che l’altro mi fa (anche se la alterità è data dalla mia creatività, produzione, arte, mettere al mondo, insomma, quello che prima non c’era: non esiste soddisfazione senza la quale io possa vivere, e, senza, ne muoio.

 

Questa sanità la posso produrre nella relazione con l’altro ma anche nell’Altro che io produco. Purchè non sia pensiero che si avvita su di me.

 

La soddisfazione che noi viviamo, e che è la fonte della nostra salute, ha un proprio “ambiente” (non può essere contaminato): l’ambiente è quello che chi è soddisfatto lo è per desiderio, chi non lo è, è perché ha fatto della propria soddisfazione un bisogno (vedi la distinzione che fa Freud). Ma al momento anche su questa questione non vado oltre.

E dunque l’ambiente della soddisfazione nella relazione ha i propri requisiti: soddisfazione (libera dalla dipendenza) è sapere essere soli; soddisfazione (sciolta da questa ambascia) è dare all’altro una possibilità di essere soddisfatto dal nostro essere vicino a lui; soddisfazione è sapere dare all’altro possibilità di offerta di darmi soddisfazione (questo è il connubio tra garanzia e sorpresa di cui la soddisfazione è alba e tempo sereno).

 

Soddisfazione è sapere sopportare il dolore (come vedremo) senza tuttavia andarne in cerca. Soddisfazione è guardare in faccia anche la nostra debolezza.

Io le mie debolezze le intendo soltanto se l’altro me le fa “relativamente” capire, non se me le sbatte in faccia: il coinvolgimento è un bene se esiste un bene comune che io voglio con te, ma che chiede anche che tu non mi dica tutto (fino in fondo) quello che pensi di me: questo mi schiaccerebbe: il coinvolgimento è che tu mi faccia lavorare perché “io” ci arrivi da solo.

 

Viviamo da mancanti, probabilmente da deboli, probabilmente da orfani, ma è solo da questa posizione che possiamo vivere e poter lasciare (Restituire) qualcosa a qualcuno.

 

 

Il figlio si avvicina al genitore quando lo vede mancante e nello stesso tempo una persona che sa riconoscere e vivere la propria mancanza.

 

Solo allora il figlio si identifica a lui e mette insieme la propria mancanza (ciò che ancora deve fare nella vita) con la onestà del padre che non nasconde il proprio limite.

 

 

“Solo chi non ha, può dare”. Cristo: “A chi ha sarà dato, a chi non dà sarà tolto anche quello che ha”.

 

 

La ricchezza (specie economico-monetaria) è giusto il contrario di quello che ho detto in questo libro che vado a concludere.

Corro il rischio di voler sempre sapere quello che fa la mano destra e contemporaneamente quello che fa la mano sinistra. Mentre sappiamo che le due mani non lo devono sapere (è il principio di contraddizione che anima l’uomo).

 

Ma la contraddizione (e dunque la debolezza, anche della nostra conoscenza) è il sale della vita: quello che noi portiamo agli altri (che noi diamo per scontato, non ce ne accorgiamo nemmeno), e quello che gli altri portano a noi (e come ce ne accorgiamo!).

La nostra vita non cambia di ora in ora, ma di mezz’ora in mezz’ora, forse “di cinque minuti in cinque minuti”, come diceva un mio amico che da tanto tempo non c’è più. Come una caviglia che un secondo prima era intatta e un secondo dopo è slogata e si gonfia e fa male.

 

Chi è quel tiranno che ha determinato tutto questo? Quando il nostro corpo duole… bisogna seguirlo, quando il Tempo cambia noi dobbiamo seguire il tempo, non possiamo non adattarci: non saremmo noi stessi.

Giusto il contrario di quello che ci verrebbe spontaneo pensare, ovvero che essere se stessi è ribellarsi alla slogatura della caviglia.

 

 

 

Tempo al tempo

 

E’ sempre “altro” (che viene da fuori) che ci dà il tempo, come il maestro di musica dà il tempo agli scolaretti, o il grande direttore d’orchestra ai professori. Il tempo viene da fuori di noi. Dal suono del vento di Qoelet, alle grida di un disperato, alle lacrime taciute delle streghe.

E l’altro, oltre che il tempo, mi dà anche il vuoto, ovvero mi mette nella condizione della solitudine, mi mette nella condizione di confrontarmi con il mio tempo vuoto e a volte anche con il mio corpo vuoto.

Il pensare al tempo, pensare al Tempo che ci aspetta, a volte fa paura: ce ne può fare un po’ meno se… ci lasciamo pensare dal tempo, ci lasciamo “individuare” dalle ore che passano, e anche dalle mezze ore. Non credo dai “cinque minuti”.

 

E per questo il Tempo della Restituzione è il tempo della costruzione. Magari non di una casa nuova, ma di una casa che abbia tante stanze.
Ma sappiamo anche che non bisogna pensare troppo: scelgo con la mia testa ma, una volta scelto, poi non ci penso più.

A volte, nel nostro pensiero, sembra che tutte le cose ci appartengano, e noi ne siamo “responsabili” o ad esse obbligati (così è nella costruzione della casa). Ma sappiamo anche che tutte le cose non ci appartengono (che orrore sarebbe!) e con esse noi, a volte, non c’entriamo: e questa è una grande liberazione del nostro pensiero che le vorrebbe tutte dentro le nostre mani. Ricordo la mancanza e il limite.

 

Qualcuno la chiama anche “responsabilità limitata” (tanto nel esprimere il nostro giudizio, quanto nella costruzione di una casa). Responsabilità e Limite: due parole sante.

 

E allora vorrei adesso toccare, per concludere queste umili riflessioni, la questione più importante di queste pagine che scrivo: la Restituzione della soddisfazione (avuta).

 

Sarebbe più facile restituire beni materiali, ma varrebbero meno.

 

Se io, nel corso della mia vita, nel corso della mia storia, ho avuto dall’altro delle soddisfazioni, perché non dovrei restituirle non tanto a chi me le ha date ma a un altro che verrà?

 

Se io nel corso della mia vita ho saputo elaborare un mio pensiero di come si perviene alla soddisfazione, perché non dovrei restituire questo “metodo” a qualcuno di futuro che verrà? Come? Semplicemente vivendo la mia vita.

 

Avere esperienza di soddisfazione e costruire un proprio pensiero verso la soddisfazione sono due cose diverse. La seconda molto ma molto più difficile della prima.

 

La Restituzione non è un porto sicuro in cui approdare ma un invito, un’indicazione all’altro su come arrivarci (da solo).

 

La Restituzione è “fare ricominciare altra storia, altra cosa, o la stessa cosa ma da un’altra parte”.

 

Sì, direi proprio che la Restituzione sia un lascito all’altro che indichi, in qualche modo, da dove e come cominciare, o ricominciare dopo l’inevitabile caduta.

 

 

 

Mi piacerebbe in questo libro che emergesse in qualche modo l’importanza e l’economia della Reciprocità.

Il lavoro che “ha successo” è un pensiero fisico: l’avvenire del tempo nel lavoro è l’avvenire del proprio tempo nella relazione con l’altro. Con il mondo.

Questa, quella di lavorare, è forse la parte di storia che ci spetta e alla quale “siamo chiamati”. Questo è forse il Beruf weberiano: il “pensiero fisico” che il lavoro è “chiamata” di qualcuno e la chiamata di questo qualcuno non è pretesa. E lavorare “non stanca”. Specie il “lavoro di amare”.

 

“Ama il prossimo tuo come te stesso”.

  1. Se ami te stesso ami anche il prossimo tuo.
  2. Se ami il prossimo tuo ami anche te stesso.

L’amore è la comunione spaziale e temporale di 1 e 2.

L’altro è la nostra ricchezza come opportunità del “ritorno”. Occasione sempre presente che noi abbiamo per ritornare alla prima esperienza di soddisfazione, che poi altro non è che ritornare al primo “amore”.

 

Ogni esperienza d’amore è un oltre in quanto rimanda sempre ad “altro” già sperimentato nella nostra storia, ma proprio per questo può diventare futuro e/o futuribile. L’altro che mi vedo davanti non è il primo… per fortuna! Nel senso che prima di lui ho avuto esperienza di altri che mi hanno indirizzato nella strada dell’amore. Una Restituzione di qualcuno che possono essere i miei genitori. (Vedremo più avanti quando parlerò del bambino).

Che poi esista una specie di “esperienza originaria” di amore ricevuto (o dato), un segno storico, una tacca indelebile, èio penso sia dubitabile. La prima esperienza molto probabilmente altro non è che un fantasma. Laplance e Pontalis nel loro libro Fantasma originario / Origine del fantasma è di questo che parlano.

Il valore simbolico del fantasma originario funziona in quanto ogni esperienza (d’amore) va ad incastrarsi dentro questa matrice: l’esperienza passata (il passato) da una parte e l’“oltre” (il futuro) che va oltre l’esperienza contingente dall’altro. Nel mezzo la Legge della Relazione che dice: Reciprocità (che non è “parità”). Dunque una questione di Tempo.

Ma io non penso che noi siamo fatti di fantasmi. Semmai i fantasmi siamo chiamati a regolare.

Dico queste cose sull’amore perchè ritengo che questo sentimento, per quanto poco definibile, sia “il portatore” della restitutio di cui qui ho parlato.

 

E Remo Bodei scrive: “L’amore non richiede di sotterrare i propri talenti o di procedere a un puro scambio di equivalenti”.

In amore è pura follia pretendere che i conti tornino, tanto dare e tanto avere. In amore c’è chi più dà e chi più riceve. La cosa funziona se ciò avviene nella reciprocità.

“L’amore desidera invece che i talenti si moltiplichino, che lo scambio cresca su se stesso producendo possibilmente ricchezza e vantaggio reciproco. Esso è supererogatorio, anche in senso etimologico. Supererogatorio significa infatti pagare qualcosa più del dovuto: è diverso quindi dal semplice ‘redimere’ in quanto ‘ricomprare’ ” (Bodei R. Geometria delle Passioni, Feltrinelli 2003).

In un certo senso io “ricompro” la tua Storia (e te la restituisco dopo la mia lettura, se sono intelligente e disposto alla Dialettica). Io con te sono disposto a riscattare della mia storia quello che da solo non sono stato capace di riscattare.

Potrei anche introdurre qui la parola Redenzione come una riconsegna, certo sempre nelle mani dell’altro. Nella redenzione io tiro fuori tanto me quanto l’altro o Altro, mentre quando non perdono trascino te nel mio stesso inferno, regno della perseveranza nell’errore. Dunque nella reciprocità non siamo fantasmi, per il semplice fatto che ci chiediamo perdono.

Ma purtroppo la nostra storia è ricca di non-perdoni: non abbiamo perdonato l’amico, non abbiamo perdonato l’amata, non abbiamo perdonato le offese e le incomprensioni, nemmeno certe parole le abbiamo perdonate, non abbiamo perdonato il destino stesso.

Ma anche questa è la nostra realtà. È la nostra pochezza che non significa tuttavia che noi non saremmo, alla fin fine, capaci di perdonare il Padre (cioè noi stessi in quanto “venuti fuori” da “un” padre reale).

 

Perdonare il Padre (cioè il Mondo) è il massimo sistema per arrivare a una decente salute. Perdonare non vuol dire lasciar perdere, né tanto meno sminuire. Vuol dire esprimere un giudizio realistico sul Mondo stesso e sui suoi abitanti.

Perdonare il Padre significa alla fin fine accettare la frase: “Sia quel che sia, sia stato quello che è stato”. E Amen.

Quella che Bodei chiama con il termine “supererogatorio” altro non è che una delle virtù più difficili che noi siamo chiamati a praticare nell’amore: quella di “stare a credito”, quella di lasciare passare prima l’altro attraverso la porta semiaperta, quella di favorire la sua ricchezza senza pesare la nostra povertà. Nella pratica: essere felici che l’altro sia felice (questo è il dare e il darsi).

Essere felici che l’altro stia sfruttando i propri talenti senza di noi. Che la persona amata vada a trarre la propria soddisfazione in un luogo altro rispetto a noi; e con qualcun altro diverso da noi.

È una virtù difficile perché l’amore è soprattutto libertà. E la passione che io ho per l’altro è la messa in atto della mia stessa libertà. Ma ancora più è libertà del Tu “dall” Io e dell’Io “dal” Tu.

Ricchezza e vantaggio reciproco vengono quando “Io lascio che l’altro si arricchisca al di fuori di me”. Se non permetto questo chiudo in prigione la relazione. La passione diviene la mania della psicopatologia. Diviene l’ossessione per l’oggetto.

Pagare qualcosa più del dovuto è la riflessione di Bodei. Ma questo non può diventare per me un pensiero di obbligo nei tuoi confronti, altrimenti la “soluzione” a cui io corro è l’abbandono. Il pensiero sano deve essere scevro da ogni logica oblativa e costrittiva che non può essere riconosciuta come atto legale interno all’amore.

Affinché ci sia amore e sesso è necessario che ci sia un “dare in più” rispetto all’altro. Il quale altro, a sua volta (e qui la reciprocità), attenderà il proprio turno per ricambiare, senza la pretesa di fare pari. Io in amore non ricompro, come afferma Bodei.

Non vendo e non ricompro la stessa mercanzia. Il mio dare non mi offre nessuna garanzia in merito al ricevere. L’analogia è l’“accanto”, che non intende né spazio né tempo, ma semplicemente il cercare l’altro attraverso un segno terzo che me ne dia la possibilità. La terza presenza tra due è la legge, la legge che l’amore può emanare solo in presenza di due che si amano. Meglio: l’amore non porta legge con sé, ma da sé “è” Legge.

Quando una relazione funziona significa che prima tra i due è avvenuto un atto, che poi altro non è che una “caduta”, una “rinuncia”: la caduta del pensiero che mi avrebbe potuto opporre al rapporto. La rinuncia alla davvero esistente disposizione a fare naufragare la relazione ancora prima che cominci.

Due si amano soltanto dopo che è caduto il pensiero di “opposizione” al fatto di amare o di essere amati. C’è una rinuncia di fronte alla legge del rapporto, la quale legge viene a costituirsi nel momento stesso della “entrata in vigore del rapporto”: in questo senso l’amore “è” Legge, ovvero caduta dell’opposizione (al rapporto con l’altro). Non Legge che vieta, ma Legge che consente. E in amore non esistono leggi che proibiscono, ma leggi che consentono. In amore è vietato vietare: solo a partire da questo i due si regolano da soli.

Come se noi, quando l’altro appare all’orizzonte del nostro desiderio, prima di consentire il nostro “sì” dovessimo superare un “no” per accedere alla relazione. Dovessimo prima spegnere una tenebra per accendere la luce.

Bestmit, erleuchtetes su sehen nicht das licht”.

(“Destinato a vedere ciò che è illuminato, non la luce”).

GUIDO SAVIO