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GUIDO SAVIO: GIOVANI E RESPONSABILITA’ (2) – LA REGOLA

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Regola

Della regola, sappiamo che il primo dato fondamentale è la sua portata simbolica: non c’è regola che conti o abbia valore in sé e per sé ma solo se si dipana in un contesto universale. La regola o è valida per tutti o non è valida per nessuno.

Quando la regola non funziona è perché non ha spessore uni- versale in quanto trasgredita (e tradita) da singoli soggetti. I nostri figli sono regolati o meno in base a come noi genitori sappiamo porre la questione su di un piano universale e sottostare noi alla medesima regola.

Il secondo dato fondamentale della regola è che essa si tras- mette solo con l’esempio.

La domanda dei figli, rivolta ai genitori (in riferimento al com- portamento morale) è sempre la stessa: “Fatemi vedere come si sta al mondo. Fatemi vedere come posso Io nel mondo avere soddis- fazione, avendo visto Voi.”. Rispondere a questa domanda è la re- sponsabilità massima dei genitori. E anche un’ottima soddisfazione.

“Fatemi vedere” significa “fatemi toccare con mano,” quale possa essere il mio percorso per strutturarmi una regola (Legge) che mi porti alla soddisfazione nella vita. E dunque alla salute. Il lavoro di strutturazione sarà poi un lavoro che riguarderà la capa- cità di autonomia del giovane e non più di tanto l’apporto attivo dei genitori.

Inizialmente la regola pone la questione del “no”.

Inizialmente significa “fin da bambino”. E il bambino, specie a livello inconscio, è alla costante ricerca di un contenimento dei movimenti e della forza del proprio Io (ricerca che poi porterà alla

 

formazione del “suo” Io), ricerca di un freno, di qualcuno che lo limiti. Il bambino sostanzialmente ha bisogno di sentirsi dire “no”, “questo o quello non lo devi fare”.

Molti genitori invece fanno del male ai propri figli proprio per- ché non sanno reggere le conseguenze del “no”, ovvero il naturale conflitto.

Senza una regola, per il bambino, tutto sarebbe impossibile, perfino giocare: si stancherebbe, andrebbe incontro all’angoscia giocando un gioco senza regole, o completamente permissivo. Sa- rebbe compromessa anche la sua capacità di arrivare alla fine del gioco, sarebbe impossibile arrivare a “chi vince” e a “chi perde”, in quanto “tutto è permesso”. E quando tutto è permesso significa che nulla è vivibile.

Prima il bambino incontra la regola che sostanzialmente dice: “Non puoi avere tutto” e meglio è. Più forte crescerà e meglio saprà adattarsi al mondo che lo aspetta.

Fuori dalla regola, dunque, c’è l’angoscia garantita. L’antidoto è il lavoro, il lavoro del proprio pensiero a cui ogni genitore dov- rebbe allenare il proprio figlio. E a cui ogni figlio (giovane) dov- rebbe darsi da fare per accedere. Il pensiero di lavoro (e dunque di sforzo, di impegno, di merito, etc.) è vitale.

Per inciso, il bambino soffre e si indebolisce, quando la regola espressa dai genitori è una regola ballerina, quando non esiste una buona regola tra padre e madre (tra uomo e donna). Cioè viene im- pedito al bambino il lavoro di pensare a come può raggiungere per conto proprio la soddisfazione. Se madre dice in un modo e padre dice in un altro, lui non capisce più niente (alla lettera). Questa è la cancellazione della regola e la consegna alla confusione.

Il “fuori norma, fuori legge” è sempre l’eccesso di desiderio (o onnipotenza che dir si voglia): ovvero quando al bambino nessuno mette uno stop al suo desiderio naturalmente onnipotente (ma che, se lasciato tale, diventerebbe impotente). Il bambino vuole risposte le più precise possibile. Poi sulla capacità dei genitori di ottempe- rare al compito, sarà la storia a parlare. La storia che porta il bambino a diventare un giovane. Il possibile funzionamento della regola nel giovane è legato alla sua esperienza “fin da bambino” in merito. I cosiddetti “figli disadattati” altro non sono che il prodotto del fallimento della regola. Sono disadattati alla lettera, in quanto non si sanno o vogliono adattare al lavoro, allo sforzo e non riconoscono il merito; la loro capacità di sopportare il dolore è assai ridotta, come quella di reggere il desiderio a lungo tempo nell’espletare un progetto.
In un video che riproduce parte di una conferenza al Salone del libro di Torino 2015, Massimo Recalcati risponde ad una domanda antica quanto il mondo: “Chi può essere considerato un bravo genitore?”.

“Può essere il genitore sempre presente che però può rendere in questo modo difficile il lavoro di autonomia del figlio, o è il geni- tore assente, che, proprio per la sua assenza, pone il proprio figlio di fronte al lavoro autonomo (a volte solitario) della assunzione di responsabilità? è ovvio che il buon genitore sia quello che sa oscillare tra la presenza e la assenza”.

Infatti il genitore troppo presente è colui che può usare la mano forte nel dirigere le scelte (che dovrebbero essere relativamente autonome) dei propri figli e interpreta la regola come un ordine prestabilito.

Tuttavia un genitore troppo spesso assente è quello che rischia di esporre la vita dei figli sostanzialmente al vuoto troppo pre- cocemente e in modo traumatico. Rischia di consentire al figlio di instaurare in se stesso una specie di anarchia giuridica.

Un buon genitore è colui che sa tuttavia anche retrocedere, an- dare sullo sfondo, sapere anche chiudere gli occhi. Il genitore che sta sullo sfondo garantisce la sua presenza alla domanda dei figli (ed è dunque responsabile in quanto risponde anche con la sua sola stessa presenza). Il genitore ascolta la domanda ma deve anche lasciare andare i figli a fare le loro domande in giro per il mondo (che è sempre il luogo della salute). Il buon genitore è colui che sa “lasciare” il proprio figlio: responsabilità non è proprietà.

 

 

Sappiamo anche che i genitori si trovano di fronte svariate tipologie di figli fuori regola.

Il figlio annoiato: è colui che non sa gestire il proprio desiderio, vorrebbe “tutto e subito” e dunque ingolfa la propria energia verso l’oggetto del desiderio, mette troppa carne al fuoco, non sa reggere la continuità dello sforzo e del lavoro per il raggiungimento dello stesso. La predisposizione del figlio alla noia lo si vede anche nei bambini, soprattutto gli ipercinetici, i distratti, quelli che passano velocemente da un giocattolo all’altro.

Il figlio viziato: è colui che sostanzialmente trae vantaggio (immaturo) dalla immaturità relazionale dei propri genitori e dun- que ancora una volta… ha poca voglia di lavorare per distinguersi, per darsi delle mete, essendo il suo vizio un vizio di volontà. Ha poca volontà (riprenderò il tema nel capitolo sulla scuola) perché la volontà lo chiamerebbe alla responsabilità di pensare con la propria testa e fare in proprio la proprie scelte. I genitori dei figli viziati sono sempre essi stessi degli immaturi patentati.

Lui vorrebbe tutto facile e tutto alla portata di mano, magari rimanendo seduto. Vorrebbe che fosse sempre l’altro che si muo- vesse verso di lui, senza essere capace di muovere il sedere per andare lui per primo verso qualcun altro.

Il figlio che vuole apparire: è il figlio del presenzialismo sempre e ovunque, magari quasi sempre nel posto sbagliato e con le persone sbagliate. Come scrive Francesco Stoppa: «è la generazione a cui è stato offerto l’eterno presente, il life is now, (come recita una pubblicità di cellulari), ammaliata e ossessionata dal mito del progressivo miglioramento delle proprie condizioni di sopravvivenza, ma indif- ferente riguardo al destino delle generazioni successive e del mondo a venire». L’apparente è la sua meta. Ma ciò è giusto il contrario di quell’atto di assunzione di responsabilità che è tutt’altro che appa- renza, anzi, è sempre un atto concreto.

 

«Per esserci bisogna dunque apparire – scrive Galimberti -. E chi non ha nulla de mettere in mostra, non una merce, non un corpo, non una abilità, non un messaggio, pur di apparire e uscire dall’anonimato, mette in mostra la propria interiorità, dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati ‘propri’ che resistono alla omo- logazione, che, nella storia della società di massa, è ciò a cui il potere tende per la comoda gestione degli individui».

Di fronte a questa attrazione/tentazione, certi giovani mettono da parte anche la giusta vergogna. Vergogna, linguisticamente da ve- reor gognam, “temo la gogna” ovvero la mia esposizione pubblica.

Quando sentiamo i nostri giovani dire che ”Non ho nulla di cui vergognarmi” possiamo stare ben sicuri che hanno oltrepassato il limite della decenza e del pudore. Perché noi tutti dovremmo av- ere paura di essere esposti, nel corpo, nelle parole, nel pensiero al crudo ludibrio (che sempre un giudizio è) dell’altro.

Difatti chi sanamente non si vergogna è uno spudorato.

Il figlio, il cui vizio è di pensare sempre e solo a se stesso e non a chi lo seguirà, è oltre che un figlio svergognato anche un figlio irresponsabile, fuori regola appunto. Si tratta del figlio che vuole il presente tutto per sè e che il presente guardi solo lui. è il figlio della immagine, della vista, dello sguardo… non certo del pensiero. è soprattutto il figlio che in questo modo si rifiuta categoricamente di accettare se stesso nel proprio limite, nella propria mancanza, rinunciando così anche a quel valore che si chiama spontaneità che magari un pochino più simpatico lo renderebbe ai suoi amici, amiche, coetanei in genere.

Ho già detto ma ribadisco che, una volta seminata, nei figli, la regola poi cresce da sola. Tale bambino “diventa” tale giovane: sulla questione della regola… la regola è ferrea.

Io non ho mai visto genitori che hanno avuto successo come pa- dre e madre inculcando la regola, pretendendola, esigendola come prova di un loro buon lavoro genitoriale.

 

Anzi. Ho visto che tanti giovani, in cui la regola era stata seminata con costanza e con “umanità”, se ne sono appropriati in fretta, si sono giustamente adattati, trasformando una normativa esterna in un principio regolatore interno. Sempre pronto per l’uso.

La assunzione da parte del giovane della propria “responsabi- lità” non ha altri confronti e anche conforti che il proprio pen- siero. Per cui l’adattamento (regola) risulta una montagna, a volte impervia da scalare perché, si sa, che ogni forma di adattamento implica una rinuncia. è nella definizione di regola la quota parte della rinuncia.

 

Adattamento

L’asse portante per la strutturazione della regola è dunque la capacità di adattamento.

L’adattamento per il giovane (questione quasi sempre ostica) è la accettazione che possa esserci uno stile di vita, un modo di ved- ere le cose, un pensare, un agire, una morale diversa dalla propria, e ancora di più una pratica che non collima esattamente con il suo procedere “morale” (i giovani di questa parola fanno grande uso e grande pretesa).

Scrive Hans Jonas: «Esiste però ancora un concetto completa- mente diverso di responsabilità che non riguarda la resa dei conti ex-post-facto per quanto è stato compiuto ma la determinazione del da-farsi, rispetto al quale io mi sento responsabile in primo luogo per il mio comportamento e le sue conseguenze, bensì per la causa che mi impone di agire».

In altre parole Jonas afferma che la motivazione, lo scopo, la “causa” per cui agire, sta “fuori di me”.

Il giovane si farà una causa, costruirà la propria causa, difenderà la propria causa giocandola sulla responsabilità (che lui pensa di avere) valorizzando se stesso come soggetto che sa avere cura di se stesso e degli altri, nel presente ma soprattutto nel pensiero di futuro. Anche se ovviamente può lavorare solo sul suo presente, il “da-farsi” di cui parla Jonas. “Bonum est faciendum” non è sol- tanto uno slogan di Tommaso d’Aquino.

Quando Freud distingue i vari tipi di pensiero e predilige quello “operativo”, ecco, è quello di cui sto parlando: la volontà sogget- tiva viene a legarsi con il senso di responsabilità per la alterità a cui si “appartiene”.

C’è da chiedersi quanto i nostri giovani siano educati (ma mi ver- rebbe da dire “allenati”) al pensiero che “se io faccio il bene dell’altro faccio il mio bene, e viceversa”, al pensiero della “indispensabilità della alterità”. Su questo tema molti dei nostri giovani sono davvero dei mal-educati. E purtroppo così noi li abbiamo cresciuti.

Il “da-farsi” di cui si parlava sopra è proprio questo: il bene comune che è sempre reciproco.

Un giovane operaio mi parlava della sua difficoltà a “inserirsi” nel suo ambiente lavorativo, in fabbrica. Ci vedeva un eccesso di concorrenza, di individualismo, di “squalismo” (come lo chiamava lui). Faceva fatica ad “adattarsi” alla logica del “bene comune” che prevede, per raggiungerlo, anche confronto, impegno, “sana aggressività”. Lui aspirava ad un ambiente soft e “bambagiato”, dove tutti gli attriti fossero tenuti a minimo regime. Non gli interessava nessuna causa da difendere. Era un “mite” che covava dentro però una rabbia esplosiva.

Intendeva la responsabilità come un rapporto “scontatamente reciproco”: ovvero, “quello che io do mi deve per forza venire ri- dato”, come se tutto fosse già scritto in una regola prestabilita e lui non ci dovesse mettere mano, o sporcarsi le mani.

La responsabilità indubbiamente è un valore relazionale, ma lo diventa tale nel momento in cui, poi, non c’è pretesa di ritorno, di compensazione. Il pretendere il ritorno da parte dell’altro non fa funzionare la regola. Chiederlo sì.

Ovvero chi compie atto di responsabilità, non può chiedere all’altro di “comportarsi altrettanto”, altrimenti anche il suo atto viene impoverito, reso vile, reso egoistico proprio perché impos- tato sulla domanda di “rifusione”, di “restituzione automatica”. Questo vale nel lavoro ma, come si vedrà, vale ancora di più nel rapporto d’amore.

Il giovane di cui sopra in fin dei conti pretendeva la garanzia della restituzione: se io non rompo, non mi devi rompere nemmeno tu, giusto il contrario del lavoro di responsabilizzazione che comporta lavoro, esposizione (metterci la faccia), accettazione della aggressività, del conflitto e anche di una relativa disuguagli- anza tra le parti in causa.

L’equilibrio sta ancora una volta nell’accettazione di un rela- tivo disequilibrio, nell’adattamento al fatto che le cose stanno in un certo modo e non diversamente: il principio di realtà.

“Non è del tutto chiaro se ci possa essere responsabilità in senso stretto tra persone integralmente alla pari”.

Ritengo che la questione della pretesa di responsabilità all’interno della relazione, qualunque essa sia, possa costituire premessa-introduzione-alibi, etc. per molte forme di attrito, a volte anche irrisolvibili all’interno del rapporto. Anche quando si pretende la pace, come faceva il giovane operaio.

La pretesa di responsabilità da parte dell’altro si articola sulla aspettativa di una sua sedicente “maturità”. Io sono portato ad aspettarmi che l’altro sia “maturo”, magari senza farmi tante doman- de sulla consistenza della mia maturità.

E’questo forse uno dei maggiori drammi del nostro tempo: chiedere all’altro quello che noi non siamo in grado di dare (maturità o responsabilità che essa si chiami).

 

 

GUIDO SAVIO

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