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Responsabilità
Responsabilità: dal latino responsum , risposta. Capacità di ri- spondere (spondeo) dei propri comportamenti rendendone ragione e accettandone le conseguenze (Dizionario di Filosofia Treccani).
In questi ultimi tempi, per non dire giorni, ciò che si sente maggiormente dibattere nei media è il cosiddetto “disagio giovanile”. Ricordo che la parola disagio, usata nel suo Saggio “Il disagio della (nella) civiltà” significa Un (cioè no) behagen (conforto, piacere, garbare, gusto). Freud parla della Civiltà. Io vorrei dire alcune cose sul disagio dei nostri ragazzi, quelli che scorrazzano nelle scuole e nella stanze della nostra casa. Col telefonino in mano per andare si FB, con l’ardire di fare del male a una ragazza, con l’uccidere per “vedere l’effetto che fa”, etc.
Ma i giovani che si comportano bene, che vanno a scuola, che fanno voltariato (e quanti!), che vincono gare internazionali di matematica, del clinamen, e anche quelli che vannno fuori dal nostro Bel Paese, non solo perchè gli stipendi sono più alti, ma perchè hanno il pensiero di Euiropa, di Mondo .
Prima proposizione: la capacità di rispondere.
I giovani, anche se con qualche renitenza, incertezza, rossore sul volto, “rispondono”, tutto sommato, di quello che fanno. Nel bene e nel male. Poi ci sono le meteori impazzite, o i gruppi di meteori impazziti. Rispondono del comportamento, della scelta, del giudizio, dell’esclusione o della comprensione, dello schierarsi o dell’evitare di scendere in campo (forse il mio è solo un invito a vederli così). Non fermiamoci alle urgenze e agli allarmi, alle ferite o anche alla morte.
A volte rispondono anche gettandosi dietro alle spalle (rimozione, negazione, bugia, diniego, etc.) il “fatto” o il “malfatto”. Ma rispondono.
Rispondono, in un certo qual senso, del modo o del motivo per cui approcciano la vita così o diversamente da così. Cercano magari di “adattarsi” alle domande dei genitori o degli insegnanti, si adeguano, cercano uno spazio (a volte angusto) per tracciare la originalità del loro percorso. Fanno in sostanza quello che possono per dare conto del loro agire e del loro pensare, agli altri e a se stessi. Anche se il mutismo, in certi ambiti e in certi contesti, può risuonare fortissimo. D’altra parte non è possibile “generalizzare” perché non esiste una “categoria-giovani”, e nemmeno un mondo giovanile ben de- terminato e inequivoco nella sostanza e nelle forme.
I giovani possono dare spallate per farsi presenti, per farsi sentire. Oppure possono chiudere forte la porta per non farsi trovare. Ma è anche questo un modo di rispondere. La vita che stanno vivendo si articola, lo sappiamo, sul “principio di contraddizione”.
D’altra parte mi pare di notare, in questi ultimi anni, come le principali agenzie che dovrebbero occuparsi della crescita e della cura dei giovani (famiglia, scuola, mass-media) si siano alleate nel presentare loro il mondo come una montagna inscalabile (“Ci arriviamo al prossimo decennio?”) e nel “dipingere” i giovani, anche a loro stessi, come soggetti sempre più fragili e disorientati. Cioè in difficoltà nel momento di “fare in proprio”, ovvero di assumersi responsabilità nella scuola, nell’amore, nel lavoro. I nostri genitori (non certo tutti laureati) vedevano in noi figli un valore superiore a loro. Mentre ora noi, figli divenuti genitori, non vediamo la stessa cosa nei nostri ragazzi.
Mi pare che queste agenzie giochino al ribasso, giochino a sfi- duciare i giovani (forse per salvare il proprio marketing, il proprio look, la propria autoreferenzialità). Tutto sommato per trattarli peggio di quello che loro, in realtà, meritano.
In questo senso ritengo che ci debba essere maggiore “cura” da parte del mondo cosiddetto adulto nel giudicare i propri figli. Si sa che la moneta cattiva scaccia quella buona. A giudicare “male” gli altri poi si fa sì che gli altri male si comportino.
Questo gioco al ribasso può corrispondere al “generalizzare” a cui accennavo sopra. Appunto generalizzare sulla pelle dei giovani, come se fossero fatti tutti della stessa pasta. Mentre (spero che in parte emerga in questo libro) la questione della responsabilità nel giovane è un avvenire personale, originale, unico nel suo genere.
Ma la definizione di responsabilità che ho riportato all’inizio prevede un secondo tempo, una seconda fase, un secondo contenuto: quello che chiama l’essere umano, e dunque anche il giovane a “accettare le conseguenze” del proprio agire.
Seconda proposizione: accettare le conseguenze.
Penso che sia di fronte alla seconda parte della definizione di responsabilità offerta dal Treccani, ovvero “accettare le conseguenze”, che i giovani si trovino più indecisi, più incerti, più impreparati rispetto al “rispondere”, rispetto alla prima parte della definizione di responsabilità.
Di fronte a domande del tipo: “Sai calcolare le conseguenze di quello che fai?”, “Quale sarà la ricaduta delle tue scelte nella tua vita, e in quella degli altri?”, “Agire in questo modo sai dove ti porterà?” essi spesso balbettano (naturalmente balbettano), non han- no la riposta pronta, non la ritrovano. Non si ritrovano, spesso. Ma potrebbero realmente trovarla alla loro età? Se facciamo così tanta fatica a trovarla noi che li abbiamo messi al mondo.
Eppure l’insegnamento da parte di genitori e scuola del concetto della “accettazione delle conseguenze”, è fondativo della autonomia e della regola interna del giovane. Non si tratta qui di “fare i conti” o di “fare le previsioni” oggettive su che cosa succederà se io bevo, fumo, frequento rave party, oppure mi comporto sempre bene con i miei amici e accudisco il sabato pomeriggio la nonna.
Non è questo il punto, non è quello della previsione. La questione basilare è quella del pensiero. Il pensiero che genitori e scuola dovrebbero trasmettere: “Cerca di guardare bene davanti”. Nulla di più. Non si tratta di trasmettere ai giovani concetti del tipo: “Dopo te ne pentirai”, “Meglio pensarci prima”, “Meglio conoscerlo che curarlo”.
Accettare le conseguenze delle proprie azioni significa accet- tare che “qualcuno ti dica qualcosa”, che qualcuno anche “ti corregga”, a volte che qualcuno “ti metta in riga”. Significa accettare che l’altro entri dentro con il suo pensiero e con il suo giudizio. E questo non è facile da accettare, da parte di nessuno.
Penso che per i giovani quindi accedere al pensiero di accetta- re le conseguenze delle proprie azioni, apra il capitolo della loro formazione, della loro crescita, della loro maturazione. Il saper guardare bene davanti, magari solo vicino, davanti al proprio naso.
Si cresce nella vita perché si accetta che qualcuno dica qualcosa su di noi, che qualcuno entri in noi. Se il giovane si blinda dentro una propria costruzione mentale, resta infantile perché non riesce a ipotizzare il proprio futuro.
Il pensiero del bambino è, sostanzialmente, quello che “gli altri pensano (si occupano) di me”, e quindi per lui la questione della responsabilità è una questione limitata (tuttavia non assente: il bambino non è un incapace di intendere e di volere).
Ma questo non può essere il pensiero del giovane in quanto “lui/lei” è chiamato a occuparsi di se stesso, proprio attraverso il processo di responsabilizzazione che lo chiama a accettare le conseguenze delle proprie azioni, anche se, rispetto all’adulto, le cose si dimostrano parecchio più difficili.
Questo sostanzialmente per una questione di tempo di vita vissuta. Perché sapere le conseguenze dei propri comportamenti di- pende dal tempo e dall’esperienza, di cui il giovane non dispone, come accade (dovrebbe accadere) invece per l’adulto.
E allora rispondere delle conseguenze potrebbe rivelarsi un compito improbo, un lavoro di Sisifo per certi nostri giovani (ma lo è anche per molti di noi adulti).
Come si possono “vedere le conseguenze”? Quale giovane può vedere tanto avanti e spingersi fino alla conclusione dell’evento e quindi proiettare il relativo panorama conclusivo?
è questa una delle questioni che vorrei trattare in questo libro: la forza e il coraggio da una parte, ma anche la debolezza e la paura del giovane d’oggi nell’affrontare le due questioni fin qui introdotte: sapere quello che fa e assumersene le conseguenze, come assi portanti della sua formazione.
Scrive Vittorino Andreoli: “Insomma non sono affatto convinto che la generazione attuale di giovani debba essere considerata straordinariamente fortunata per tutto quanto ha a disposizione. Sono sicuro che molti loro desideri rimangono insoddisfatti e che talora sono talmente poveri da non sapere più esprimere un desiderio. Il gioco dei desideri è fondamentale. Occorre educare
al desiderio, e, dunque, sperimentare la mancanza. Imparare a desiderare. Si è sommersi dai bisogni degli spot e dalla logica dei consumi. Invece di fare riferimento ad un generico ‘hanno tutto’, bisognerebbe valutare il loro grado di felicità. Scopriremo che domina nel mondo dei giovani d’oggi l’insoddisfazione e la frustrazione”1.
Riporto questa osservazione di Andreoli all’inizio di questo scritto per due motivi . Il primo è l’importanza della educazione al desiderio (e per la distinzione che sempre deve essere fatta tra bisogno e desiderio). Il secondo per mettere subito in evidenza la importanza del giudizio che il sociologo, lo psicologo, lo psichiatra, etc, rovesciano, in parole, sulla questione della responsabilità dei giovani. Perché ne va del rapporto tra generazioni, tra adulti e giovani. Ne va della possibilità di dialogare, in privato e in pubblico.
Prima scuola di pensiero: “Sono più sfortunati di noi e dunque bisogna capire tutte le loro difficoltà”.
Seconda scuola di pensiero, quella dello schieramento di quegli intellettuali che recitano la contraria e stentorea frase: “Ai nostri tempi…” Per calcare la mano sulla sostanziale incapacità dei giovani di risolvere i problemi che noi, alla loro età, risolvevamo ad occhi chiusi.
Ovviamente non sono solo gli intellettuali che si dividono queste scuole di pensiero, anche padri, madri, insegnanti, educatori, preti, allenatori di calcio pallavolo pallacanestro, etc. Chiunque incroci la propria vita con quella di un giovane.
Questa questione, quella del giudizio sulla responsabilità dei gio- vani, sulla loro volontà e possibilità di appartenere in modo responsabile a “questo mondo”, sarà uno dei temi portanti di questo lavoro.
Allora mi addentro brevemente nella letteratura psicologica e filosofica sulla questione della responsabilità.
Entrato nell’uso politico e giuridico sul finire del Settecento, il concetto di responsabilità è stato usato, in ambito filosofico, soprattutto nelle dispute intorno al problema della libertà. L’origine del termine si ritrova nell’opera The Federalist, una raccolta di articoli scritti da Alexander Hamilton, John Jay e James Madison pubblicata nel 1788 dove viene usata per la prima volta la parola “responsability” per stabilire che il governo americano è responsabile del proprio operato nei confronti del popolo che gli ha delegato i suoi poteri.
Il concetto è chiaro: a qualcuno a cui ho dato fiducia posso chiedere che mi risponda del mio investimento.
Dunque la responsabilità è nata come una risposta “dovuta” a chi aveva il diritto di essere riconosciuto come destinatario di tale risposta e indicato a rispondere. A domanda risposta dunque, logica primaria della responsabilità.
Sembra strano ma la parola responsabilità nasce linguistica- mente e storicamente relativamente tardi per esprimere compiuta- mente un concetto così importante.
Dopo la crisi della razionalità etica provocata dalle elaborazioni di Friedrich Nietzsche, si registra ancor più nel pensiero del XX secolo l’esigenza di restituire l’etica alla concretezza: la responsabilità comincia ad essere vista nella accezione di scelta e comportamento. Fare e praticare.
Tale esigenza, che porta ad una ripresa della responsabilità come un “evento” che deve calarsi nell’idea di “dovere” quale fondamento della morale, si rinviene nel pensiero e negli scritti di Hans Jonas, teorico dell’“etica della responsabilità”, che elabora, così come Weber, un concetto di etica orientata al futuro.
Hans Jonas (che sarà la nostra guida nei momenti di maggiore avvicinamento allo spessore filosofico della questione della responsabilità) inserisce subito la propria proposta: l’imperativo dell’etica della responsabilità viene così kantianamente formulato: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana».
è abbastanza semplice capire come la questione della responsabilità (in filosofia e non solo) sia legata allo stato di libertà: chi è responsabile è libero, e chi è libero è capace di produrre responsabilità, ovvero di compiere pensieri e atti che abbiano come sfondo (fine, scopo, ma anche causa) il bene degli altri. Toccherò più diffusamente questo aspetto nell’ultimo capitolo, quello dedicato all’amore tra i giovani.
In questo libro propongo sostanzialmente un percorso di ricerca, meglio, un invito ai giovani e a chi di essi si occupa, ad indagare su queste tematiche, che sostanzialmente si concentrano nell’imparare a pensare (verbi che sono il padre e la madre della responsabilità). Imparare a pensare con la propria testa.
I tempi e i luoghi
Questo percorso di ricerca ha i propri tempi e i propri luoghi. Tempi e luoghi (proprio nel senso di “luoghi importanti” in cui mi sono impegnato ad andare a ricercare la risposta alla domanda sulla consistenza della responsabilità) sono quelli che i giovani frequentano (o dovrebbero frequentare) nel loro crescere con maggiore frequenza:
– la soddisfazione come luogo principe della salute, proprio nel senso che chi non vive una certa soddisfazione nella vita si ammala. Ma soprattutto nel senso che alla soddisfazione il giovane ci arriva con l’esercizio del pensiero, con la pratica del mettersi in discussione, e del non avere più di tanta paura nel mettersi francamente in relazione con l’altro. Di sapere spartire, di fare comunione, di rinunciare soprattutto al proprio narcisismo.
– l’individualità come luogo stabile in cui il giovane riconosce se stesso e la propria originalità. I giovani hanno bisogno di avere di se stessi un pensiero unitario e non frammentario (come vedremo più ampiamente in seguito). Hanno bisogno di toccare con mano il proprio corpo, tutto intero, sentirne i confini. Il concetto di responsabilità è inscindibile da quello di individualità: sappiamo bene che il soggetto responsabile è solo il soggetto libero e dunque “individuo”, non ulteriormente divisibile. Ovvero unico e irripetibile nel sapere di se stesso e nell’offrire all’altro tale sapere. Il sapere è sempre frutto dell’esercizio del proprio pensiero. Libero esercizio. Ma soprattutto sappiamo che “soggetto” deriva da subiectus, colui che “sa stare sotto”, colui che sa del proprio limite oltre che del proprio valore. Vedremo in seguito l’importanza del riconoscimento e dell’accettazione del limite come accettazione della propria soggettività.
– l’immaturità (caratteristica ricorrente in tanti giovani) è uno dei principali “capi di imputazione” che l’adulto (genitori, insegnanti, mass-media, etc.) muovono al giovane. In sostanza noi adulti diamo dell’immaturo al ragazzo che non sa assumersi le proprie responsabilità o che non sa stare dentro alla regola. Mentre noi magari siamo in difficoltà per le medesime questioni, ovvero non sappiamo come regolarci noi e dunque “sconclusioniamo” anche la domanda di regola che i nostri ragazzi rivolgono nei nostri confronti.
– la “cura di sé” come strumento indispensabile e imprescindibile per il giovane nel suo percorso di “individuazione”. Chi non ha cura di sé non può essere responsabile né per se stesso né per gli altri che lo amano e che egli ama. La cura di sé non è espressa- mente la “prevenzione” ma una forma evolutiva di amore per i propri valori e per le proprie attitudini. Se il genitore dice al figlio che è un “inetto”, certo non favorisce lo sviluppo della cura di sé e lo invita a identificarsi (e professare anche) nell’inettitudine. La moneta cattiva che scaccia quella buona.
– la tentazione come articolo di un “parco dei divertimenti” da cui i giovani sono costantemente attratti (e a cui, purtroppo, spesso hanno piacere di sottomettersi). Il giovane che si fa tentare si fa sempre tentare nel suo pensiero, che si rammollisce di fronte ai richiami e alle sirene che, quasi in tono monocorde, recitano l’invito al “tutto e subito”. I nostri giovani non sempre sono di- sponibili al lavoro e al sacrificio (ne vedremo le motivazioni) e dunque il loro pensiero è frequentemente… indotto in tentazione. L’ozio (del pensiero) è il padre dei vizi.
– l’elaborazione della sofferenza. è il passo successivo, il passo “cura- tivo” contro la possibile e futura tentazione. Il giovane che sa soppor- tare sofferenza e frustrazione è uno che sa, appunto, elaborare, cioè “sa fare funzionare” il pensiero verso il proprio bene (soddisfazione, individualità, autonomia, coscienza della regola e della legge, etc.)
– essere e apparire, che sono i luoghi di indirizzo, anche se anti- tetici, più “profondi” per i nostri giovani. Dove l’apparire è il risparmio di fatica, l’omologazione, il non lavorare, l’adeguarsi alla massa, il delegare, il rifiuto di assumersi impegni propri, il diniego del valore della relazione reale, etc. Mentre l’essere è giusto il contrario di tutto ciò.
– il merito come stimolo che i giovani dovrebbero sentire all’inter- no del “loro” richiamo morale, ma che a volte disattendono nella pratica. La scorciatoia verso la soddisfazione è assai frequentata (con le relative conseguenze). Il merito è l’avere un buon pensiero di se stessi come figli che stanno alla mensa del padre. Il merito non è quello di sedere per diritto di sangue a quella men- sa, ma servircisi perché si hanno compiuto pensieri e azioni che il “padrone di casa” (Padre) ha ritenuto meritevoli.
Lo sfondo su cui vorrei stendere le riflessioni di questo libro è quello della humanitas , ovvero la “comprensione” (e anche la “compassione”), di cercare di capire come il giovane del nostro tempo sia sottoposto a dubbi, tensioni, richiami e quant’altro che noi genitori, insegnanti, psicologi, adulti, etc. non conoscevamo affatto, e dei quali nemmeno presagivamo la comparsa. La nostra vita non ce li aveva presentati nel conto.
Questo sfondo sarà anche la mia chiave di lettura, ma non una scusante garantita per attenuare o attutire la chiamata alla responsabilità per il giovane d’oggi. Se ai giovani si perdona tutto, li si tratta da incapaci. E questo loro lo capiscono perfettamente.
Se perdoniamo tutto tratteremo i nostri giovani come incapaci di pensare con la propria testa, che è giusto il contrario delle inten- zioni di questo lavoro.
Per essere soggetti bisogna sapere, per l’appunto, “stare sotto” (sub-jectus). La responsabilità del giovane non può che passare attraverso questo restringimento di carreggiata. Se il giovane un domani sarà capace di avere un proprio posto nella vita, “se potrà, un giorno, raggiungere uno stato di sufficiente emancipazione o di relativa dipendenza, risolvendo in ciò la sua dipendenza assoluta dai propri partner, questo lo dovrà a come – in un’epoca insospettabile – avrà saputo essere responsabile delle sue realtà di impotenza, e del suo bisogno materiale ed affettivo di dipendenza. Se avrà scelto di fidarsi dell’altro, di dire di sì alla sua offerta”2.
Per l’appunto, per essere indipendenti (liberi) bisogna saper stare dipendenti.
L’assoluto impossibile
Ricordando ancora che responsabilità vuol dire “rispondere” delle proprie azioni e “accettare conseguenze”, questa risposta e conseguente presa in carico delle conseguenze non potrà attuar- si (umanamente) in senso assoluto. La responsabilità sarà sempre relativa e limitata. Non esiste un soggetto responsabile in tutto e per tutto. Molti giovani sono completamente irresponsabili, mentre altri lo vorrebbero essere “troppo”.
Dico questo perché sulla questione dell’assoluto, (la pratica perfetta della funzione di responsabilità) nel fornire la risposta si sono sparse lacrime di inchiostro, umane lacrime di vero pianto, e anche gocce di sangue. Da giovani e da adulti.
Ciascuno di noi non può rispondere a tutte le “chiamate assolute” come Abramo avrebbe dovuto rispondere a Dio che lo chiama- va al sacrificio del figlio Isacco senza saper rispondere alla voce simultanea che lo chiamava a salvargli la vita. Era ed è sempre una questione di valori: primo, secondo, terzo, etc.
Quale era per Abramo la “chiamata assoluta”? Quale era il bene da salvare e quello da fare perire?
Nessun giovane uomo potrà “rispondere” alla sua giovane donna nel senso dell’assoluto. Del bene sommo. Esistono solo beni relativi, cioè beni che assumono valore solo dentro alla relazione.
Eppure i giovani sono “divoratori”, “allucinati voluttuosi” di assoluto, lo cercano ovunque. Assoluto per loro significa “senza dubbio”, il “tutto giusto”, spessissimo “la perfezione”.
I giovani hanno bisogno di assoluto per sentirsi maggiormente garantiti, per sentirsi meno in ansia o angoscia, che invece la precarietà di questo mondo richiede e impone. L’assoluto però, si sa, è un’ illusione, è sempre un non-essere. Si incontrano giovani che rincorrono spesso in maniera forsennata questa illusione piuttosto che lavorare con il proprio pensiero e accettare la propria e altrui limitatezza.
Non tutti si accorgono che semplicemente l’assoluto non esiste (almeno in questo mondo). Eppure spessissimo lo pretendono.
Quand’è che l’uomo sarà allora imputabile per aver risposto, responsabilmente alle domande importanti? Lasciando quali altre inascoltate?
In Il principio responsabilità Hans Jonas si sofferma su quella che secondo lui è la accezione più profonda e più moderna della responsabilità, ovvero la responsabilità verso le generazioni future.
Non è casuale infatti che una delle domande più brucianti che i nostri giovani pongono agli adulti sia: “Ma voi, con le vostre scelte e con il vostro comportamento, quale responsabilità vi siete assunti su di noi?”, “Che mondo ci avete lasciato?”.
La questione della ricaduta, è fondamentale in ogni discussione sulla responsabilità.
Come si possono porre allora i nostri giovani nella prospettiva di considerare il loro primo dovere e diritto quello del chiedersi dove andranno a finire le loro parole, che effetto avranno nel tempo le loro scelte, che segni lasceranno negli altri certi loro comportamenti, quale dolore e quale gioia (di se stessi e degli altri) “dipenderanno” allora da quello che si sta pensando e facendo ora?
Come possono i nostri giovani proiettarsi nel loro futuro?
Tutti noi, giovani e adulti, abbiamo in tasca una mappa, sep- pure incerta o sgualcita, del nostro futuro. Eppure alcuni punti “fermi” ci sono.
Jonas a proposito scrive: «In effetti, ciò che è sufficiente per la previsione a breve scadenza (…) non può in linea di principio es- sere sufficiente per la previsione a lungo termine che si persegua con l’inferenza rivendicata sul piano etico»3.
Il giovane, ovviamente, si trova maggiormente a proprio agio nell’ imbastire una programmazione a breve termine. Anche per- ché la previsione sulla propria “responsabilità” gli è più agevole, e soprattutto perché l’esperienza di vita maturata non gli consente lunghe gittate. E come non dargli ragione?
Un giovane mi parlava, anche con un certo piglio provocatorio e di “adulto vissuto”, di come egli volesse progettare l’interezza della sua vita fino alla fine, il proprio intero futuro sull’anno, poi sul mese, poi sul giorno, poi (se glielo avessi chiesto) anche sul minuto. A riprova che in questo giovane la lunga gittata era rappre- sentata dalla sua “patologia della previsione”, dalla rincorsa verso la “assoluta certezza”. La certezza di possedere una bussola che lo conducesse, senza trucco e senza inganno, fino alla fine dei suoi giorni. Ma questa è patologia.
GUIDO SAVIO