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GUIDO SAVIO: SULLA MELANCONIA

SULLA MELANCONIA


Nimirum insanus praucis videatur; eo quod Maxima pars hominum morbo, Jactatur eodem.

Marco Tullio Cicerone, Pro Roscio Amerino

Si quis est qui dictum in se inclementius Existimavit esse, sic existimet.
 Anatomia della melanconia,

Robert Burton

Non si può parlare di melanconia se non a partire dal narcisismo, del quale la melanconia è conseguenza diretta e immancabile. Come l’ozio è il padre dei vizi potremmo dire che il narcisismo è il padre della malinconia. Anzi no, si tratta qui di dire meglio: la melanconia è figlia di una madre detta… Narciso (in quanto Narciso è la negazione del Padre).

Parto dalla enciclopedica Anatomia della melanconia di Robert Burton, oppure dalla Melanconia erotica di Jacques Ferrand, oppure, meglio ancora in quanto assai più rappresentativa, dall’incisione di Durer.

Per qualsiasi punto di partenza la melanconia è sempre un languore, un decadentismo di sé e del proprio Mondo. Melanconica,è la Fosca di Tarchetti, appunto “scapigliata”. Incapace di rimettere in ordine i propri capelli. Il melanconico “fa sempre il difficile” intendendo qui l’esatto contrario di “fare l’uomo”, ossia avere coraggio. Non a caso Burton pone il fare come l’antidoto alla stessa melanconia.

 

Non c’è causa maggiore della malinconia che l’ozio. ‘Nessun rimedio migliore dell’attività’ come sostiene Rhazes: per quanto “stultus labor est ineptiarum”, sia sciocco impegnarsi in frivolezze, tuttavia ascoltiamo Seneca: è meglio “aliud agere quam nihil”, fare qualsiasi cosa piuttosto che nulla. “otiosaque diligentia ut vita- rem tempore feriandi” (per evitare la noia della neghittosità con una sorta di piacevole impegno), come dice Vezio in Macrobio…

Abbandono Burton alla sua Enciclopedica ricerca sulla melanconia non senza ribadire come il Lavoro, il lavoro del soggetto che regge costantemente la sua domanda sia prevenzione e rimedio della morbilità melanconica.

“Non ho voglia di nulla” è senz’altro questa la frase emblematica della melanconia. Essa è il concentrato della negazione del proprio movimento, è negata la propria volontà, il mondo e l’altro, il pensiero di alterità sono ridotti ai minimi termini, se non completamente negati. “Io non sono dentro al vostro mondo” recita tra sé e sé il melanconico.

Il melanconico si trova allora ad essere quel soggetto che (in virtù del narcisismo di partenza) per il proprio troppo volere si ritrova a non essere più libero di volere. Ovvero non libero affatto.

“Non ho voglia di nulla” è indubbiamente una maniera di fare comprendere agli altri la nostra miseria, di commuoverli o di darli la misura della nostra indegnità».

Widlocher pone immediatamente in evidenza le due componenti apparentemente contraddittorie della melanconia:

un egoismo di fondo che porta alla autoesclusione (la inibizione da ogni forma di scenario) 
  nello stesso tempo un pensiero di indegnità, di incapacità, di 
“non essere all’altezza” che però, alla resa dei conti, tutto è fuorchè ammissione del proprio limite, anzi, quasi sempre è un attacco provocatorio all’altro. 
Nella melanconia la comunicazione “principe” all’altro è quella della propria “indegnità”. Il melanconico si lamenta in continuazione e si ritiene inferiore a tutto e a tutti, salvo poi, in realtà, aggredire in continuazione: il suo è l’attacco più lucido, freddo e calcolato a tutto l’impianto della Alterità, della Legge e del Diritto. Malgrado le parole del melanconico (predico bene e razzolo male), l’altro è il nulla. Mentre il soggetto melanconico si pensa il Tutto (qui il suo narcisismo). La volontà del melanconico è un non volere essere soddisfatto, e soprattutto che l’altro sia soddisfatto, ma soprattutto che l’altro sia impotente a farlo (anche quando all’altro si rivolge).

 

Un giovane nevrotico trentenne fa questo sogno: è ragazzino e sta leggendo le preghiere in chiesa, tutti lo guardano e tutti lo ascoltano.

Ad un certo punto, verso la fine (fuor di preghiera), di sua iniziativa, egli si rivolge liberamente e direttamente ai fedeli e, supplichevole, dice loro: “Pregate per me”. Dai banchi allora si alza il padre (Padre) e gli dice: “Vergognati, sei uno stracciven- dolo” ( di fatti era un figlio lavativo e alquanto indisponente. Il Padre aveva ragione nella realtà delle cose.). Ecco, questo è un esempio di quello che è il senso di indegnità che il melanconico professa, ma è anche l’esempio di come egli vada in cerca della commiserazione e della pietà dell’altro. Nel sogno il Padre cerca una correzione del pensiero malato: e a correggere è sempre il Padre. La Psicologia del Padre. Questo sogno in ogni caso è anche un sogno di apertura alla guarigione, perché il padre redarguisce il figlio malato.

Il melanconico in realtà aspira ad essere un tutt’uno con se stesso nella accezione di costituirne assieme il contenitore e il contenuto. Qui sta la mancanza di Libertà della melanconia, in quanto il malato non traccia la differenza tra l’”interno e l’esterno”, non traccia la differenza tra sè e altro, istanza che costituisce la Libertà (e non la schiavitù) della relazione.

Ancora. L’altro per il melanconico è l’altro “nullo”, ridotto alla impotenza perchè io voglio da lui proprio quello che non mi può dare e proprio perchè so che non me lo può dare, lo voglio così ardente- mente. Il mio gioco è quello di ridurre all’impotenza l’altro, edificando la mia massima aspirazione: l’istituzione della mia autosufficienza (il narcisismo) che è la teoria da cui parto e che per tutta la vita voglio dimostrare come valida. Altra bandiera della melanconia è la frase: “Voi non mi capite”, capire come capienza, voi non sarete mai il mio contenitore come “io” lo voglio.

“(Il depresso)…non rimprovera i suoi genitori di non averlo abbastanza nutrito, vezzeggiato, viziato…ma di non averlo fatto abbastanza forte, abbastanza intelligente”.

Le virtù mancanti e proprio per questo recriminate sono trattate come oggetti di cui il melanconico si sente privato, quasi a partire dal proprio corredo genetico. Egli sparge colpe sugli altri di essere fautori della sua infelicità (vedi Kelsen e il principio di imputazione).

In questo modo il mio interesse primario (parla il melanconico) non è l’ottenere, non è il mio vantaggio, il mio profitto, ma la perdita su cui piangere e recriminare.

“Voglio quello che sono “supersicuro” che l’altro non mi possa dare”.
 (F. Pasche, De la depressione, in A partir de Freud).
 Io ho incontrato tantissime persone che si aspettano tutto dalla Stato, che si pongono nei

riguardi delle Istituzioni come se tutto fosse loro dovuto, posto di lavoro, aiuto, assistenza e quant’altro. Mi sono sempre chiesto se queste persone, in una società “accettabilmente sana”(se esistesse) sarebbero alla fin fine felici. Ma temo di no.

Le modalità economiche del melanconico (cioè quello che lui ci guaadagna, ricordiamo Freud nel tornaconto della malattia) sono del tipo mors tua vita mea. È la morte della tua alterità che può darmi vita, mi può dare soddisfazione (parla il melanconico). Non è difficile capire a questo punto quanta perversione sia insita nella melanconia, essendo perversione tutto ciò che mi porta fuori dal seminato (fuori dalla Legge e dalla Regola).

La relazione malinconica allora si trova ad essere un pensiero pernicioso in cui a farla da padrone è il senso del tolto, del perduto, del trafugato, della ingiustizia patita, dell’offesa narcisistica sempre in agguato.

E noi sappiamo come ciò sia possibile se con la alterità, con gli altri reali, io ho un rapporto come se si trattasse di un “oggetto”.

Il rapporto del melanconico non è con l’altro (la cui legge afferma che l’altro è irriducibile a noi) ma con un, se si potesse dire, altro-oggetto, inteso come una nostra propaggine, una nostra appendice, giurisdizionalmente integrato in noi.

Ed è qui dove il melanconico soffoca di schiavitù l’altro in quanto egli crea una vera e propria relazione di dipendenza. Nella dipendenza perdono la libertà sia il dipendente che…il datore di lavoro! Il legame è sempre sentito come “forzato” mai desiderato. Il melanconico non ha mai il pensiero di avere scelto il meglio, ciò che umanamente va bene, gli funziona, basta così, etc., ma ha sempre il sentore dell’aver perso qualcosa. E in realtà egli ha perso la propria posizione fallica e narcisistica. Se il depresso pensa sempre che gli manchi qualcosa ne ha ben donde in quanto gli è irrealizzabile la attuazione della sua grande illusione: il bastare a se stesso e l’amarsi da se stesso. Il Melanconico non sarà mai libero. Il melanconico non ha pensiero di chiamata, di essere domandato di qualche cosa, non lo vuole. Il melanconico non ha pensiero di Beruf weberiana. Vocazione viene dal latino vocatio, appunto chiamata. Che cosa può significare allora che oggi non ci sono più vocazioni? Significa che la nostra è una società in cui poche sono le persone che chiamano (che danno da lavorare), ovvero ci sono poche persone che ex-citano. Potrei anche dire che la nostra società è una civiltà adolescenziale, e tanto più quanto più professionale, società in cui affetto dominante è la noia per mancanza di eccitamenti. In sostanza nella relazione melanconica Io e Tu sono confusi, mescolati, impoveriti e nessuno si sente individuo, ovvero, alla fin fine, irriducibile all’altro, ma sempre desideroso dell’altro. Come afferma in un bel passaggio Paolo Flores d’Arcais: “L’individuo è l’irripetibile, infatti. Un mondo di individui è per- ciò un mondo plurale. Di pluralità irripetibili, ciascuna eretica all’altra. Decidersi per l’individuo vuol dire, dunque, impegnarsi perchè chiunque possa essere “io”, possa dire “io”, possa essere protagonista di una vita che è irrimediabilmente e inalienabilmente sua. Individuo non vuol dire Uno, perciò, ma ‘ciascuno’. Implica un orizzonte di ostinata cura per un’uguaglianza ossessi- va in dignità e valore tra tutti gli “io””.

Per l’appunto “io” significa “ciascuno”, termine che presuppone la appartenenza, la comunanza, la comunione all’universale, al consorzio umano, ma nello stesso tempo è confine dell’individuo, proprio nel senso di “a ciascuno il suo”, nel senso del diritto alla diversità dall’altro.

Nella relazione melanconica è annullata questa duplice componente comunitaria e individuale del “ciascuno”. Nella relazione melanconica uno vale l’altro, uno vale uno(!), non vado da qualcuno proprio perchè mi interessa lui come individuo, ma vado da qualcuno

per applicare la mia teoria che suona sempre “Io non ho bisogno di nessuno”.

È esperienza diffusa quella di incontrare persone dalle cui parole si capisce che parlare con noi o parlare con qualcun altro non farebbe nessuna differenza. “Questa o quella per me pari son”. Questa è la vera patologia, l’indifferenza dell’altro, l’indifferenza dell’io dell’altro a cui io mi rivolgo. Qui non solo non c’è richiesta di aiuto ma non c’è nemmeno relazione.

Il tempo della melanconia è un tempo vuoto in quanto non si lavora, non si lavora per poi andare in vacanza, non si lavora per avere un realistico guadagno, non si lavora per mettere da parte qualche cosa per qualcuno (magari figli). Si lavora unicamente a rendere vuoto il proprio tempo. E la giornata diventa estremamente lunga.

Il tempo della melanconia è un tempo perduto che sarebbe ritrovato solo se venisse abbracciato il principio della imputazione, che vede ogni soggetto, ogni io, ciascuno, capace di rispondere dei propri atti, ovvero essere “altro” affidabile per colui che a lui si rivolge. Freud affermava che la melanconia, tra le patologie, è una della più difficili da “debellare”, proprio perchè nel melanconico il cosiddetto tornaconto della malattia, il vantaggio a stare in quello stato, è altissimo. Impensabile la rinuncia.

 

GUIDO SAVIO

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