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GUIDO SAVIO: “ABBI TANTA CURA!”

CURA E RECIPROCITA’

 

 

Avere “cura” di qualcun altro significa averlo “caro/a”, cioè un valore. Se io dico alla mia donna “cara” significa che mi è cara come un argento, un oro, o, meglio, un diamante. Dipende dalla sostanza della relazione.

Quindi la reciprocità è un valore che vale perchè entrambi noi ne riconosciamo la “carezza”. Allora ci possiamo anche scambiare…carezze!

E’ chiaro che questa carezza è il luogo dell’incontro e dello scambio. Non può esistere carezza lasciata là alla deriva.

Per fare questo è necessario che due persone abbiano un “pensiero reciproco”. Ovvero: quanto bello è pensare che io sto nel pensiero dell’altra persona, che lei mi ha in mente anche quando io sono lontano o anche quando io non sono proprio in “sintonia” con lei”?

Il bambino riesce a vivere e a crescere solo se sta nel pensiero del papà e della mamma. E qui non c’è altro da dire.

Molto spesso mi è capitato di parlare in seduta, specie con pazienti “dal braccetto corto” che il dare all’altro è in fin dei conti un dare a se stessi. Per dare all’altro bisogna pensarci prima, non dopo. Prometeo e non Epimeteo.

L’amore è sempre giocare di anticipo, avere un pensiero per l’altro prima che l’altro…ci abbia pensato. Un fiore, un bacio, un gelato, una sorpresa, appunto.

Il dare all’altro (e dunque il ricevere) è il senso e lo scopo della vita. Ben oltre il do ut des.

 

Dare all’altro, appunto, non può essere “pari patta”, ovvero “tanto ti do e tanto mi aspetto che tu mi dia”. Questa è la logica malata che fa naufragare tante relazioni.

Sulle “pretese” non ci si può capire e nemmeno amare, e nemmeno avere cura.

La Cura reciproca è allora sorge, interesse, desiderio, avvicinamento anche quando la respinta potrebbe sembrare la “soluzione”.

La cura richiede che anche io che mi prenda cura, mi dichiari “mancante”. In amore nessuno può dispensare la comunione, e l’altro si “comunica”.

Il prendere cura dell’altro e l’essere curato è un lavoro.

Il lavoro che “ha successo” è un pensiero fisico: l’avvenire del tempo nel lavoro è l’avvenire del proprio tempo nella relazione con l’altro. Con il mondo.

Questa, quella di lavorare, è forse la parte di storia che ci spetta e alla quale “siamo chiamati”. Questo è forse il Beruf weberiano: il “pensiero fisico” che il lavoro è “chiamata” di qualcuno e la chiamata di questo qualcuno non è pretesa. E lavorare “non stanca”.

 

 

 

La storiella sarebbe valida per

“Ama il prossimo tuo come te stesso”.

  1. Se ami te stesso ami anche il prossimo tuo; 2. Se ami il prossimo tuo ami anche te stesso.

L’amore è la comunione spaziale e temporale di 1 e 2.

L’altro è la nostra ricchezza come opportunità del “ritorno”. Occasione sempre presente che noi abbiamo per ritornare alla prima esperienza di soddisfazione, che poi altro non è che ritornare al primo “amore”.

Ritorno da un lato e lancio verso un “oltre” da parte di un altro: questi i parametri dell’amore: io mi faccio lasciare e l’altro mi lancia. Oppure io lancio l’altro che desidera farsi lanciare.

Ogni esperienza d’amore è un “oltre” in quanto rimanda sempre ad “altro” già sperimentato nella nostra storia, ma proprio per questo futuro e futuribile. L’altro che mi vedo davanti non è il primo… per fortuna! Nel senso che prima di lui ho avuto esperienza di altri che mi hanno indirizzato nella strada dell’amore.

Che poi esista una specie di “esperienza originaria” è dubitabile. La prima esperienza molto probabilmente altro non è che un fantasma. Laplance e Pontalis nel loro libro “Fantasma originario / Origine del fantasma” è di questo che parlano.

Il valore simbolico del fantasma originario funziona in quanto ogni esperienza (d’amore) va ad incastrarsi dentro questa matrice: l’esperienza passata (il passato) da una parte e l’“oltre” (il futuro) che va oltre l’esperienza contingente dall’altro. Nel mezzo la legge della relazione che dice: reciprocità (che non è “parità”).

Ma io non penso che siamo fatti di fantasmi. Semmai i fantasmi siamo chiamati a regolare.

E Remo Bodei scrive: “L’amore non richiede di sotterrare i propri talenti o di procedere a un puro scambio di equivalenti”. In amore è pura follia pretendere che i conti tornino, tanto dare e tanto avere. In amore c’è chi più dà e chi più riceve. La cosa funziona se ciò avviene nella reciprocità. “L’amore desidera invece che i talenti si moltiplichino, che lo scambio cresca su se stesso producendo possibilmente ricchezza e vantaggio reciproco. Esso è supererogatorio, anche in senso etimologico. Supererogatorio significa infatti pagare qualcosa più del dovuto: è diverso quindi dal semplice ‘redimere’ in quanto ‘ricomprare’ ”.

In un certo senso io “ricompro” la tua storia. Io con te sono disposto a riscattare della mia storia quello che da solo non sono stato capace di riscattare. Potremmo anche introdurre qui la parola “redenzione” come una riconsegna, certo sempre nelle mani dell’altro. Nella redenzione io tiro fuori tanto me quanto l’altro, mentre quando non perdono trascino te nel mio stesso inferno, regno della perseveranza nell’errore. Dunque nella reciprocità non siamo fantasmi, per il semplice fatto che ci chiediamo perdono.

E qui allora la grande domanda sulla correzione dell’errore. Dell’errore reciproco delle proprie storie. La grande domanda ha solo una grande risposta. È il momento del perdono.

Ma purtroppo la nostra storia è ricca di non-perdoni: non abbiamo perdonato l’amico, non abbiamo perdonato l’amata, non abbiamo perdonato le offese e le incomprensioni, nemmeno certe parole le abbiamo perdonate, non abbiamo perdonato il destino stesso. Ma anche questa è la nostra realtà. È la nostra pochezza che non significa tuttavia che noi non saremmo, alla fin fine, capaci di perdonare il Padre (cioè noi stessi in quanto “venuti fuori” da “un” padre reale). I massimi sistemi per fortuna si distinguono dai piccoli sistemi, nella nostra vita, e noi possiamo essere poveri (di volontà), ma nello stesso tempo liberi.

Perdonare il Padre significa alla fin fine accettare la frase: “Sia quel che sia”. E amen.

Quella che Bodei chiama con il termine “supererogatorio” altro non è che una delle virtù più difficili che noi siamo chiamati a praticare nell’amore: quella di “stare a credito”, quella di lasciare passare prima l’altro attraverso la porta semiaperta, quella di favorire la sua ricchezza senza pesare la nostra povertà. Nella pratica: essere felici che l’altro sia felice (questo è il dare e il darsi). Essere felici che l’altro stia sfruttando i propri talenti senza di noi. Che la persona amata vada a trarre la propria soddisfazione in un luogo altro rispetto a noi; e con qualcun altro diverso da noi.

È una virtù difficile perché l’amore è soprattutto libertà. E la passione che io ho per l’altro è la messa in atto della mia stessa libertà. Ma ancora più è libertà del Tu “dall” Io e dell’Io “dal” Tu. Ricchezza e vantaggio reciproco vengono quando Io lascio che l’altro si arricchisca al di fuori di me. Se non permetto questo chiudo in prigione la relazione. La passione diviene la mania della psicopatologia. Diviene l’ossessione per l’oggetto.

Pagare qualcosa più del dovuto è la riflessione di Bodei. Ma questo non può diventare per me un pensiero di obbligo nei tuoi confronti, altrimenti la “soluzione” a cui io corro è l’abbandono. Il pensiero sano deve essere scevro da ogni logica oblativa e costrittiva che non può essere riconosciuta come atto legale interno all’amore. Affinché ci sia amore e sesso è necessario che ci sia un “dare in più” rispetto all’altro. Il quale altro, a sua volta (e qui la reciprocità), attenderà il proprio turno per ricambiare, senza la pretesa di fare pari. Io in amore non ricompro, come afferma Bodei. Non vendo e non ricompro la stessa mercanzia. Il mio dare non mi offre nessuna garanzia in merito al ricevere. Questo è sesso.

Reciprocità come legge. E la legge chiama sempre in causa un terzo. “È impossibile che due cose si compongano bene senza una terza – scrive Platone nel Timeo – perché è necessario che ci sia un legame che le congiunge. Il più bello dei legami è quello che crea la più grande unità tra sé e le cose legate, e l’essenza dell’analogia è di compiere ciò perfettamente bene”.

Far hae I sought ye, near am I brought to ye…..” (Chieco de Melagrana, Core). (“Lontano ti ho cercato, infine sono accanto a te”).

L’analogia è l’“accanto”, che non intende né spazio né tempo, ma semplicemente il cercare l’altro attraverso un segno terzo che me ne dia la possibilità. La terza presenza tra due è la legge, la legge che l’amore può emanare solo in presenza di due che si amano. Meglio: l’amore non porta legge con sé, ma da sé “è” legge.

Quando una relazione funziona significa che prima tra i due è avvenuto un atto, che poi altro non è che una “caduta”, una “rinuncia”: la caduta del pensiero che mi avrebbe potuto opporre al rapporto. La rinuncia alla davvero esistente disposizione a fare naufragare la relazione ancora prima che cominci. Due si amano soltanto dopo che è caduto il pensiero di “opposizione” al fatto di amare o di essere amati. C’è una rinuncia di fronte alla legge del rapporto, la quale legge viene a costituirsi nel momento stesso della “entrata in vigore del rapporto”: in questo senso l’amore “è” legge, ovvero caduta dell’opposizione. Non legge che vieta, ma legge che consente. E in amore non esistono leggi che proibiscono, ma leggi che consentono. In amore è vietato vietare: solo a partire da questo i due si regolano da soli.

Come se noi, quando l’altro appare all’orizzonte del nostro desiderio, prima di consentire il nostro “sì” dovessimo superare un “no” per accedere alla relazione.

GUIDO SAVIO

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