BELLEZZA E PITTURA
Vorrei dire che i pensieri che riporterò in questo scritto che riguarda il Bello, la Bellezza, possono essere contenuti, come da una grande cornice, dentro tra la Prima delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke e la Decima e ultima delle stesse. Parlo di bello, di bellezza.
Più esattamente stanno dentro tra questi versi della Prima:
Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere
ancora,
lo ammiriamo anche tanto, perch’esso, calmo, sdegna
distruggerci.
E questi versi conclusivi della Decima:
E noi che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice, cade.
Il bello è calmo (se non è appunto ancora diventato tremendo) e non si interessa della distruzione dell’uomo, che potrebbe effettuare in ogni momento, se solo volesse.
E l’uomo invece, dalla sua parte, è agitato alla ricerca (la sua pulsione, il suo Trieb) della felicità. Ma l’ascesa corrisponde alla caducità stessa. Quasi la realizzazione di un paradosso (impossibile dunque) : il paradosso dell’esistere.
Se allora il linguaggio della metafisica è inadeguato a rappresentare il pensiero dell’uomo, il linguaggio della pittura, che non è oggettivante nè necessariamente comunicante, può essere inteso come luogo dello stesso “essere-nel-mondo” per ogni singolo individuo.
Ma di più. Non è affatto l’uomo nella sua singolarità che dispone del linguaggio, ma il linguaggio stesso che dispone dell’uomo, proprio nello stesso senso per cui non è l’uomo che sceglie se esistere o meno, viene scelto, viene deciso su di lui. La realtà dell’uomo è quella di “essere gettato” (Geworfeneit) nel mondo.
Il nostro organismo è guidato dalla pulsione verso una meta, forse la meta di estinguere la tensione o il dolore, per ricercare appunto la felicità. Tanto quanto fanno gli Angeli delle Elegie Duinesi di Rilke, che funzionano da segnali, da punti di riferimento per l’uomo nel suo viaggio.
Il bello, proprio perché bello, può essere portatore di felicità, ma appunto, in quanto tale è anche facile a cadere.
Ma con Heidegger possiamo ricordare che “il canto è l’esserci”, ovvero quello condizione di “essere-nel-mondo” per cui ogni uomo trova luogo e motivazione al vivere. Anche in una città apparentemente deserta. In una tela apparentemente bianca. Il canto ci prende, indipendentemente dal fatto che noi sappiamo cantare.
“Non c’è realizzazione artistica – scrive Arnold Hauser – senza il sentimento di una perdita o di una ingiustizia subita, senza la sensazione di essere stato derubato dei beni della vita. L’idea dell’arte come ricompensa di possibilità lasciate sfuggire, di tempo perduto e di felicità perduta può essere così forte che ogni successo può apparire come una frustrazione di una realizzazione artistica”.
E dunque l’artista può sentirsi chiamato come mediatore tra il mondo e il cielo. Ma un mediatore non sempre di voce chiara, come scrive E.H. Gombrich : “Il contenuto resta inesprimibile malgrado la più favorevole disposizione artistica da parte del pittore”.
“L’arte – scrive ancora Arnold Hauser – è un mezzo per prendere possesso delle cose, sia con la violenza che con l’amore”.
Quello che Freud ha pensato e argomentato davanti al Mosè di S. Pietro in Vincoli a Roma lo possiamo leggere nel suo saggio Il Mosè di Michelangelo. Il suo è stato un artificio, un banco per sperimentare e appunto argomentare le sue teorie sulla Legge. Solo più tardi Freud ammetterà che si era avvicinato a quella statua con motivazioni diverse: voleva stare “in comunione” con una grande opera d’arte.
Potrebbe essere l’atteggiamento dell’artista di fronte alla “sua” realtà. E’ lo stesso desiderio (o pulsione?). E’ una ricerca del tempo fuori dal tempo e dalla prospettiva? Ma è ancora una ricerca del senso (“che senso ha?”), anzi, di più, una pulsione di appropriazione, quasi di fusione. L’uomo che si fonde con il mondo perché il mondo non lo schiacci.
“ L’idea della fusione – scrive Ernst Kris – dell’energia libidica e aggressiva svolge una parte di rilievo nella formulazione freudiana della teoria psicoanalitica”.
E più oltre: “Le immagini non trasmettono solo un pensiero o un significato: esse colgono la realtà, per l’uomo che le guarda. Il guardare include entrambi gli elementi: quello intellettuale, per cui si riconosce ciò che è conosciuto e quello del possedere effettivamente la realtà”.
L’Aperto (e questi sono tutti quadri “aperti”) determina l’essere arrischiato di tutti gli uomini che in quanto tali sono accerchiati. Così “accerchiare” e Cerchio diventano categorie imprescindibili. C’è un grande senso di comunità nelle parole di questi quadri: gli enti vivono nel comune delle condizioni e dei rischi. Le parole di Heidegger quasi spingono l’uomo vicino al proprio simile. Concetto che d’altra parte emerge in una lettera che Rilke scrive il 13 novembre 1925 ad un destinatario rimasto ignoto
… il nostro compito è quello di compenetrarci così profondamente, dolorosamente e appassionatamente con questa Terra provvisoria e precaria, che la sua essenza rinasca invisibilmente in noi. Noi siamo le api dell’invisibile. Nous butinons éperdument le miel du visible, pour l’accumuler dans la grande ruche d’or de l’Invisible.
Così Rilke afferma che i mortali sono in quanto hanno parola e la parola del cantore conserva la traccia del sacro. Un canto dei Sonetti ad Orfeo ( I, 19):
Anche se il mondo si muta,
rapido, come forma di nuvola,
ogni cosa compiuta ricade
in grembo all’antica.
Ma sovra al mutare e ai cammini,
più dispiegato e più libero,
rimane il tuo canto,
o Dio sacro alla cetra.
Ignoti ci sono i dolori,
e oscuro rimane l’amore;
che sia che ci sospinge alla morte
è nelle tenebre avvolto.
Solo il canto, qui sulla terra,
consacra ed onora.
E opere , specie pittoriche, “si vedono, non si leggono”. Cantano. Se uno vuole, ci si può anche tuffare dentro, perché no, alla ricerca di quello che ancora (di sé) non conosce, forse alla ricerca di un lampo. Perché il bello non è ancora diventato tremendo.
Guido Savio