L’ AMMIRAZIONE
( sulla dignità dell’altro )
Ammirazione
La questione che ci pertiene: come la ammirazione possa essere dislocata nella sfera degli affetti non solo in quanto atto primario di conoscenza e di ricerca, ma soprattutto come atto riferibile ad un quadro giuridico della struttura pulsionale, a partire da come la intende Freud, cioè come legge edipica che interdisce il possesso dell’oggetto e rinvia dall’oggetto alla questione dell’altro (non più oggetto). Che vuol dire che la ammirazione è verso il Padre (Altro) che dalla mia azione di averne rispetto (timore per la Bibbia), vicinanza, dia-logo, ascolto, ubbidienza anche… Il Padre può essere chiunque il bambino veda nel suo percorso e elegga “degno” dell’affetto che qui chiamiamo ammirazione. Il bambino non sa quanto da questo affetto gliene venga in tasca, ma il suo futuro glielo dirà.
Dunque elaborazione della prima forma di relazione e come riconoscimento del carattere assoluto della alterità dell’altro (a paretire da padre/madre reali), fino ad andare verso tutte le figure che il bambino vede e intende come uomini e donne che gli possono fare bene nella vita.
Si ammirano sempre qualità dell’altro e, nella ammirazione come affetto, l’unità dell’altro. Davvero, a me è successo sempre, fin da bambino, che le persone che ammiravo (a partire da mio padre) erano, come si dice “tutte d’un pezzo. Ricordo qui a proposito il bellissimo film di Spilberg con Tom Hanks che difendeva da avvocato una spia sovietica, e la spia, ammirata dalla integerrimità dell’avvocato, ad un certo punto gli ha detto: “Tu sei un stoikiy muzhik“. Ovvero “un uomo tutto di un pezzo”.
Se, in sostanza, la ammirazione come affetto possa superare la sua funzione filosofica di conoscenza dell’oggetto (la meraviglia) per porsi sul piano della relazione giuridica con l’altro, l’altro unitario, unito e possibilmente “unito a me”. Su un piano di affetto e di amore e di riconoscenza per l’autorità.
Ricordiamo che per Freud l’affetto è il resto dei pensieri inconsci, la prova ultima di verità in quanto l’affetto non può essere falso ma solo adeguato o inadeguato ad un determinato contenuto rappresentativo.
Si tratta di verificare come la ammirazione possa rimandare alla verità della relazione con l’altro nel senso di riconoscimento delle stesse qualità giuridiche (il Padre, lo stoikij muzhik ) dell’altro.
La ammirazione in Freud
C’è da premettere che la questione dell’ ammirazione in Freud non trova una sua collocazione autonoma o articolata, nè egli tratta questa questione con lo spessore che la speculazione filosofica aveva attribuito a questo affetto.
Quasi sempre Freud usa il termine ammirazione per intendere Ideale dell’Io o l’affetto del bambino nei confronti del genitore.
” Non vi è dubbio che questo Ideale dell’Io – scrive Freud nella 31° lezione della Introduzione alla Psicoanalisi (Nuova serie di lezioni) – è il sedimento della antica immagine dei genitori, l’espressione della ammirazione del bambino che le considerava allora creature perfette “, inglobando nell’affetto della ammirazione le funzioni proprie del Super-Io, cioè l’auto-osservazione, la coscienza morale, la funzione dell’Ideale.
Oppure Freud vede nella ammirazione la componente negativa che sostanzialmente fa capo alla rinuncia alla funzione autonoma di giudizio.
” Sappiamo che nella massa degli uomini – scrive in L’Uomo Mosè e la religione monoteistica – vi è un grande bisogno di autorità da ammirare, a cui inchinarsi, da cui essere dominati, forse anche maltrattati “.
Sembra proprio che per Freud il termine ammirazione racchiuda tutta la potenza della ambivalenza insita nel rapporto tra soggetto e autorità.
” Essi ( i figli ) odiavano il padre – scrive in Totem e Tabù – possente ostacolo al loro bisogno di potenza e alle loro pretese sessuali, ma lo amavano e lo ammiravano anche “.
Ancora in L’Uomo Mosè e la religione monoteistica Freud, descrivendo il Grand’Uomo e le sue caratteristiche paterne, parla chiaro sulla connaturata ambivalenza della ammirazione: (Il Grand’Uomo )… lo si deve ammirare, è consentita la fiducia in lui, ma non si può fare ameno anche di temerlo “.
Il Grand’ Uomo incarna dunque la “sacralità”.
La stessa ambivalenza che Freud, per l’appunto, rinviene nel concetto di “sacro” : ” Sacer significa non solo ‘sacro’, ‘consacrato’ ma anche qiualcosa che possiamo tradurre soltanto con ‘infame’, ‘esecrando’ (‘ auri sacra fames ‘).
D’altra parte la ambivalenza che emerge dal concetto di sacer non è una condizione morale, almeno all’origine, ma proprio una qualità (si ammirano le qualità) che inerisce a chi viene in contatto con il dio e con la sua potenza.
Questo comporta un rischio perchè il dio si oppone sempre all’uomo che avanza sul piano della forza ma non al soggetto che batte la strada dell’autorizzarsi, del costituire egli stesso autorità.
Tornando al capo principale, che è quello in cui Freud situa la ammirazione nel campo della idealizzazione, possiamo affermare questo: l’idealizzazione in Freud ha sempre a che fare con l’oggetto, “in virtù di essa l’oggetto, pur non mutando la sua natura, viene amplificato e psichicamente elevato” (S. Freud, Introduzione al Narcisismo), ma il processo di ammirazione non può essere considerato nel rapporto oggettuale proprio perchè si estende e ha motivo di essere affetto nella relazione con l’altro. Si ammira la alterità e non un simulacro, un oggetto, una absenzia o peggio.
La formazione di qualsiasi ideale accresce le esigenze dell’Io e favorisce al massimo la rimozione, al contrario la ammirazione è un affetto che apre la strada alla Legge del moto pulsionale nel senso del conoscimento di una soddisfazione (che è una relazione) intesa come capacità e competenza di assumere la posizione di soggetto in quanto a altro, non in quanto alla idealizzazione oggettuale. Anche se si è trattato di noi bambini alla ricerca di un faro o almeno di una strada abbastanza piana per poter procedere.
Potremo anche distinguere una ammirazione patologica che può riversarsi nell’Ideale dell’Io, e una ammirazione non patologica che si riversa nel posizionare l’altro giuridico (il Padre, la Legge del Padre, il Padre che mi dice di sì); la prima come rivolta e sottomissione, in un continuo lavoro di distruzione e tentativo di ricostruzione della autorità dell’altro (a meno che non si tratti di perversione); la seconda invece come istituzione della volontà dell’altro, un sopruso, una dittatura della Schopenhaueriana Volontà di chi si sente chiamato ad essere soggetto, nel senso di soggezione (suddito e succube) a subire la legge Legge dell’altro, inteso nella indegnità di esserne rappresentante.
Si intende così che la ammirazione vada a confluire nella questione del “posto dell’altro”, anche reale ma non personale, l’altro della universalità, cioè il posto dell’altro reale come principio di realtà che soddisfa il principio di piacere.
Ammirazione non è estasi (intendendo effetti di estasi quella rivolta e quella sottomissione di cui si parlava poc’anzi). L’estasi si differenzia dall’ ammirazione, a mio avviso, per i motivi che qui tenterò di riassumere. L’estasi è uno stato psichico in cui il soggetto si sente uscire da se stesso. La ammirazione è invece (tramite l’Altro) la compattazione di se stessi.
Ammirazione non è estasi
Il concetto di estraneamento, da sè e dal mondo, è il presupposto fondamentale dello stato estatico.
La filosofia nel pensiero ellenico, culminato con Aristotele, riconosceva come ideale supremo la contemplazione della Verità. Ma per l’appunto contemplazione intellettuale, possesso intellettualmente consapevole, in cui erano ancora distinti il soggetto contemplante dall’oggetto contemplato. Nell’esperienza estatica questa dualità sparisce: il soggetto perde la propria individualità per unirsi, fondersi con la Verità Suprema.
Non si tratta più dunque di una visione dell’altro, di un modo di vedere, quale è l’ammirazione, ma “un altro modo di vedere, poichè non son due, ma lo stesso veggente è uno col visto, in quanto non è propriamente visto ma fatto uno” (Plotino, Enneadi).
Si può cogliere in Plotino quella identificazione con l’oggetto che rende impossibile ogni forma di conoscenza e la indistinzione che rende impossibile ogni forma di relazione. La confusione.
Vediamo come quella dell’estasi non possa essere trattata come una forma di conoscenza (come è invece la ammirazione), sia pure irrazionale o intuitiva, proprio in quanto la conoscenza, anche per i sistemi monistici, implica sempre una distinzione, anche soltanto ideale, tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Per gli stessi motivi non possiamo parlare dell’estasi come di una esperienza in quanto l’ experiri presuppone il dualismo in cui il dato fenomenico è distinto dal soggetto.
La ammirazione è invece soprattutto esperienza, proprio in quanto esiste tendenza a portare a termine il moto pulsionale che riconosca come “altra” la meta e veda nella alterità la sua stessa perseguibilità.
In fin dei conti l’estasi tende alla purificazione morale; il fine della ammirazione è la assunzione di un altro come meta pulsionale, che potrà anche comprendere la funzione morale, ma che tuttavia non potrà prescindere dalla relazione.
Sguardo e ammirazione: occhio e Eros
E la ammirazione rimanda alla pulsione scopica, ma, se si potesse meglio distinguere, non la pulsione del vedere ma la pulsione dello sguardo. I bambini ci ascoltano ma più spesso ci guardano.
Se la ammirazione poggia su di un atto di giudizio, si tratta di verificare se si può dire altrettanto dello sguardo come assunzione (l’ incipit ) della ammirazione come affetto.
Partiamo per questo da un saggio di Sylvie Durup dal titolo L’espressione tragica del desiderio amoroso, contenuto nella raccolta L’amore in Grecia a cura di Claude Calame.
L’eros parte dello sguardo, l’eros è l’incontro degli sguardi, all’interno di un gioco di fisiologia immaginaria, gioco inteso come gamos e polemos , matrimonio e guerra: esiste incontro ma anche alterazione (che qui potremo dire alterità)
Se si interroga la tragedia greca sulla nascita di Eros, afferma Durup, possiamo vedere una certa localizzazione proprio nell’ambito della vista. “Come la rappresentazione tragica può integrare le manifestazioni del desiderio nella forma civilizzata del potos (convivio), ma rimuove quella degli appetiti allo stato di ubris , così sulla scena esiste un ruolo accertabile dell’occhio (…) tra desiderio e sguardo si istituisce una tale identità, che vi scorgiamo addirittura un legame di connaturalità”.
Ma la domanda d’obbligo pertiene la connaturata ambiguità che i Greci attribuivano alla vista e al desiderio legato allo sguardo: lo sguardo è azione attiva o passiva? è l’occhio a trasmettere il moto in direzione dell’oggetto o viceversa? dove si costituisce lo sguardo?
Quando il coro dell’Orestea parla di Elena definisce il suo sguardo ommaton belos (“soave strale degli occhi”). Elena ferisce gli occhi di coloro che la guardano o il ferimento viene scoccato direttamente dai suoi occhi?
Sembra proprio che l’oggetto della ammirazione, dell’innamoramento, attacchi come un aggressore, partecipi attivamente alla visione e, al tempo stesso, al desiderio.
Il corpo pulsionale pare dunque attaccato dall’oggetto stesso in un moto di andata e ritorno simultanei e la relazione immediata risente di profonde variabilità quali la provenienza dell’eccitamento e la dislocazione dell’oggetto e della meta. Il tipo di variabilità qui presente è sostanziosa in quanto non è definibile aprioristicamente il soggetto dall’oggetto, come pure la attività dalla passività, come pure l’ Eros dal Polemos.
La differenza dunque tra sguardo e pulsione scopica. Tale questione può essere così riassunta: il guardare indica la pulsione, lo sguardo indica l’oggetto; guardare lo sguardo indica fissazione sull’oggetto, dunque patologia, potremmo definirla la patologia della “equivoca fedeltà all’oggetto”.
Nella frase “lui mi guarda” l’Io patologico ritiene che l’oggetto-sguardo appartenga, come oggetto, all’altro. Ora la questione può essere meglio intesa nella dimensione dello spazio psichico.
Si può dire che lo sguardo emani tanto dall’oggetto ammirato quanto dall’occhio che lo contempla. La vista appare come il prodotto della interazione dei due: la reciprocità fa sì che, al limite, non ci sia nè organo nè oggetto, nè soggetto attivo nè oggetto passivo, o che ciascuno dei due sia ambivalente.
Il gioco sembra avvenire in una terra di nessuno in cui la appartenenza dello sguardo-oggetto inesorabilmente fluttua senza che si possa definire la fonte della pulsione e l’oggetto della pulsione. Da qui la ambivalenza, il Polemos di cui parla la tragedia greca e la guerra che mette in atto il paranoico.
Se poi lo sguardo pertiene, come spesso accade, la sfera del bello, e dunque si erotizza irresistibilmente, avviene che la aggressività che Elena manifesta nel semplice esercizio degli sguardi divenga la ragione stessa del suo splendore, divenga algama (gemma) e erotos anqos (fiore d’amore) ma anche “strale che punge l’anima”.
Ciò che a noi interessa non è lo sguardo dello scoprimento delle qualità dell’oggetto, ma lo sguardo come discernimento sulle qualità dell’altro all’interno della relazione, circoscritto nell’affetto della ammirazione che in quanto discernimento può trasformarsi da Eros in Logos: il punto di intersezione della azione degli sguardi diviene luogo di nascita del Logos come funzione. L’ ammirazione come modalità di sapere tramite il patto e la logica del “posto dell’altro”.
Disposizione all’ ammirazione è disponibilità alla conoscenza: l’altro ammirato è l’altro nell’espletamento delle sue qualità presso altri ancora; si ammira il padre in quanto egli rappresenta qualità anche per altri, rappresenta fonte di legge anche per altri, a partire dalla madre.
La questione può così tornare alla posizione filosofica di partenza, anche se in una accezione variata: non solo la ammirazione di fronte al fenomeno che comporta il dubbio e determina la spinta alla conoscenza e alla indagine, ma l’apprendere attraverso la ammirazione come dato di riconoscimento dell’altro in quanto detentore di un sapere e, ancor più, depositario della legge.
Ammirazione e alterità
L’altro della ammirazione (per concludere) non può che essere l’altro della dignità, quello della relazione propizia, al quale il soggetto perviene nel superamento della condizione di dubbio, proprio la stessa di cui parlavano Aristotele e Cartesio, che conduceva alla coscienza del comprendere, il dubbio di ogni soggetto posto di fronte alla formulabilità o meno del giudizio di dignità nei confronti dell’altro.
L’altro della ammirazione non è il fantasma, inteso come onnipotenza dell’altro, ma l’altro che occupa un posto nell’ordine della dignità.
Purtroppo la filosofia, quando parla di ammirazione, rimane sempre all’interno di una teoria dualistica soggetto ammirante-oggetto ammirato.
La psicoanalisi non tratta di questo oggetto nella accezione di conoscenza (supposta) dello stesso oggetto ammirato, ma si riferisce ad un sapare effettivo, efficace, risolvente non già di questo oggetto ma piuttosto della ex-sistenza dell’altro.
Possiamo vedere come la ammirazione, che è un tipo di sapere sull’altro, superi l’oggetto proprio nella accezione “infantile” che Freud dà quando parla di Ursprungliches Object, non “quello di prima” ma “quello che doveva essere”.
Pensiamo allora alle relazioni della ammirazione, a partire dall’intendere freudiano: del figlio verso il padre nel riconoscimento delle qualità e della dignità, superata l’angoscia di castrazione e di non castrazione. E’ il porre l’altro, nel proceso del sapere inteso come Fronesis, al posto che questo merita e che permetterà al soggetto di meritare.
Non vi è dubbio che la ammirazione abbia a che fare con il merito: il merito che altro non è che il diritto acquisito dal soggetto che liberamente si rende disponibile ad una norma. Non il òerito del premio o della ricompensa, come giustamente affermava Kant, ma quello della condizione e della relazione.
Il ritorno, dunque. Ciò che al soggetto torna dal suo atto di ammirazione verso l’altro: to sofronein, il sapere la legge, proprio come affermava Eraclito in un suo frammento: “Non scoprirai i limiti dell’anima mai da nessuna parte sulla superficie della terra, perchè la sua misura è nascosta nella profondità”. Questa profondità era rappresentata per Eraclito dal sangue, per noi dall’inconscio.
Ogni soggetto può dunque essere sapiente perchè l’oggetto ultimo del Logos è egli stesso, il suo stesso inconscio nella relazione, che dà merito, con la legge dell’altro. Questo il sendo del ritorno nella ammirazione.
Il soggetto della conoscenza, di cui la ammirazione è un atto (se legata allo sguardo, forse uno dei primi) in qualche modo riconosce che l’oggetto gli è impossibile e la negazione della esistenza dell’oggetto apre la strada ad una teoria del sapere, è il caso di dirlo, in merito giuridico.
L’impossibilità dell’oggetto rincia alla possibilità della legge.
Prima di tutto la legge del padre, afferma Freud. Ma a questa può essere benissimo aggiunta quella del sapere, anche nella sua più specifica accezione pedagogica.
Si pensi alla ammirazione come funzione legalizzante tra erastes e eromenos nella civiltà greca.
Strabone insiste nell’intendere la relazione sostanzialmente legalizzante a partire dalla posizione (è richiesta la ammirazione) di riconoscimento di dignità che l’eromenos attribuisce all’erastes al fine di chiarire la propria posizione in seno alla società civile.
Legalizzazione che verrà sancita simbolicamente dall’erastes con tre doni: l’uniforme militare che crea il soldato, il bue che crea il significante e la coppa che autorizza il giovane a prendere posto nel sumposion, la festa civile maschile.
E’ il giudizio di dignità nei confronti dell’erastes che sancisce la trasmissione della legge. Allora l’ammirazione passa attraverso il giudizio attributivo delle qualità atte a rappresentare fonte di legge: il rapporto analitico questo rappresenta. E’ il riconoscimento del carattere assoluto della alterità (dignità) dell’altro che definisce la dimensione del desiderio insito nella ammirazione e il superamento del dualismo soggetto-oggetto (ci viene qui da pensare alla differenza tra altro ingannatore e seduttore della nevrosi e la’ltro della ammirazione, legge non solo della pensabilità della meta pulsionale ma anche della sua visibilità presentificata nella relazione).
La ammirazione è dunque riconoscimento di un principio organizzativo (che sfocia nella azione) della volontà dell’altro, in quel “fammi vedere tu come ti regoli” che può essere posto come ultima frase nella dignità di ogni relazione.
GUIDO SAVIO