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GUIDO SAVIO: PASSIONE NON E’ PATIRE

LA PASSIONE

LA PASSIONE (COME INTRODUZIONE AL DISCORSO)

 

1 – Che dire, per aprire, della passione? Io la vedo in questo modo: lasciarmi andare a qualcuno che mi chiama e nella sua chiamata io “depongo” il mio freno ad essere chiamato e dunque “possibilmente” soddisfatto. Chi mi chiama lo fa per darmi piacere, ma desidera anche il mio abbandono a lasciarmi andare, in qualche modo “farmi fare”.

 

2 – Propongo il motto della passione: “Mi propongo all’altro per avere dall’altro beneficio dalla relazione che io gli propongo”. La passione è lasciarmi attrarre dal beneficio che l’altro mi propone, anche se questo beneficio, all’inizio della relazione, tanto chiaro non sarà. E poi le cose andranno come devono andare.

 

Passione è “ci credo fino in fondo”, in qualunque modo, appunto, mi dovesse andare. Ma se strada facendo vedessi che le cose stanno andando male, non saprei dire se la passione potrà bruciare come all’inizio. Non credo.

 

3 – E qui pongo subito la questione della durata nel tempo della passione tra due persone (che si amano). Alla fine dove sta la soddisfazione se non nel lavoro del mio fare il bene che penso bene? Passione non è oscurantismo o integralismo, né miopia nella logica previsoria degli eventi: passione è andare avanti perché avanti è il moto della soddisfazione. Il moto della soddisfazione non è il traguardo, ma il percorso. Il percorso è contrassegnato dal limite e la accettazione del limite guarisce sempre l’onnipotenza.

“Salvarsi” è sentirci chiamati a salvarci attraverso l’abbraccio con il limite. Se mi salvo lo faccio perché ho un pensiero di salvezza attraverso il mio limite: se voglio strafare o stravincere cado irreparabilmente.

 

 

ALLORA IL CORPO

 

 

1 – Ma che cosa mai sarà allora una passione? Una passione d’amore? Son sicuro che non sarà facile rispondere a questa domanda.

Mi viene subito da dire il corpo che va alla ricerca della alterità come modo per stare bene e per fare stare bene. Il corpo che “non si interessa” più solo a se stesso, ma privilegia l’altro e l’alterità come fonte prima del proprio bene. Sto parlando di parole, carezze, pelle, sesso, premura, pensiero, sensi, odori, sapori, interessamento (inter-essere)…cose che vediamo nella nostra quotidianità e pratichiamo se siamo “appassionati” (niente di stratosferico).

 

Più ri-conosco l’alterità dell’altro (la differenza del suo desiderio rispetto al mio), più ho ricchezza per ri-conoscere, accettare e perdonare l’errore dell’altro: sono ricco se ho coscienza del mio limite e dunque del limite dell’altro. So che il primo desiderio, il punto di partenza verso la salvezza è l’essere amato, ogni bambino ne è la testimonianza vivente.. “ Non è il ‘cogito ergo sum’, penso dunque esisto, ma il ‘cogitor ergo sum’, sono pensato, dunque esisto, il tesoro della passione; meglio ancora l’’amor ergo sum’, sono amato dunque esisto ne è il diamante.

 

Il nostro corpo va sempre alla ricerca dell’esterno dove trovare l’amore, va alla ricerca del non conosciuto, del limite e della frontiera oltre per sapere di più dell’altro e conoscere meglio se stesso.

 

La passione non è astrazione ma corpo. Potrei dire la carne del verbum caro factum est.

L’ordine è un sistema, ma lo è anche una passione.

 

 

AMARE SE STESSI

 

 

1 – Amare se stesso (con passione, cioè fiducia) comprende come fine l’amare l’altro, come lapidarimente afferma Nietzsche.

 

Chi ama sa amare il proprio giudizio (su di sé e sull’altro) in quanto tale ama l’altro.

 

2 – Il giudizio è legame e nello stesso tempo distanza della legge: il giudizio non può essere: “Se tu che sei vicino a me, e stai bene, allora anche io sto bene per questo fatto”. Nelle dipendenza c’è certamente una pace, lo sappiamo tutti: quella del risparmio del lavoro (in merito al giudizio). Ma questa pace può anche essere mortifera in quanto mi esime dal chiedermi sulla distanza sana tra me e l’altro. Chi ama non ci si appiccica contro. E chi vuole essere amato non ama che l’altro lo invischi troppo.

 

La condizione della “salute” e dunque quella dell’“ordine” che recita la frase: “ognuno al proprio posto”, ovvero ciascuno sappia stare in piedi da solo, e sappia anche disinteressarsi dell’altro. La passione non può essere buttare tutto il proprio peso sull’altro, non può essere dipendenza. Se così fosse la passione diventerebbe follia (e vedremo che molte lo furono), diventerebbe dipendenza o saprofilia. Non può esistere, in parole povere, una passione “disordinata”. Non funzionerebbe.

 

 

ANCORA PASSIONE

 

 

1 – A questo punto la domanda: può esistere un pensiero/fare di ristrutturazione della passione all’interno della logica del finire della passione? Del suo esaurimento? Possono due persone, amanti, ritornare al fuoco iniziale?

 

Frase della passione, a cui pervengo in questo punto del mio lavoro , nella piena accettazione del limite, è che “quello che deve finire, finisce”: frase della temperanza e della possibilità di attuare realmente quello che sta per finire (nel senso che ha avuto la sua vita). E se la passione non ha più motivi o alimento è giusto che finisca.

 

 

LA PASSIONE SI TRASFERISCE

 

1 – La passione che inizia, invece, comporta un “trasferimento” del contenuto della propria “sintassi” nel libro dell’altro. Una vera e propria traduzione. Ovvio: il nostro libro ha bisogno di essere letto da due, in due. Trasferire la passione all’altro comporta un dono e un atto di riconoscenza. Chi ama dona e, in qualche modo, si aspetta una “riconoscenza”, alla lettera, nel senso che possa essere sempre conosciuto dall’altro nella sua passione. La passione vuole una certa continuità.

 

La continuità nella relazione è una ricchezza che mi garantisce da un lato che io sia riconoscibile dall’altro, e dall’altro lato, che l’altro abbia strumenti sufficienti per trovarmi in casa ogniqualvolta ne abbia bisogno.

 

2 – Come la passione anche la identità è un trasferimento. Ma questo trasferimento di nostri talenti e ricchezze nell’altro chiama sempre ad una “cura”, ad una oculata “spendita di sé”. Se mi do da fare per l’altro è chiaro che qualche spesa la devo fare! Ma né la conservazione di sé, né la spendita di sé sono dati oggettivi e misurabili, tuttavia soltanto “relazionali”, ovvero vengono colti a portati a profitto nella relazione, nella relazione d’amore. E non fuori di essa. Niente è valore oggettivo fuori della relazione.

 

 

L’uomo della passione è quello che pronuncia la frase: “non uno di meno”, che significa che nella vita è bene che nulla vada perduto, ma nello stesso tempo la accettazione che tutto è perdibile. La salute è la capacità di perdita e di spendita.

 

 

PASSIONE E’ “ESSERE SE STESSI” (ORDINE E AMORE)

 

 

1 – “L’amore instaura un’esperienza di realtà che non ci sarebbe altrimenti, la progressiva cognizione di una essenza individuale, insieme con la sua promozione” scrive Roberta de Monticelli.[1] Vale a dire che il nostro essere noi stessi è strettamente legato con una esperienza empirica: quella dell’essere amati o meno.

 

Anche il rapporto che abbiamo con il nostro tempo è scandito dall’altro, dalla relazione: è proprio l’altro che “ci dà il tempo”. E in questo modo anche il limite. Allora essere se stessi è limite, posto dall’altro che mi ama; oppure è vuoto, posto dall’altro che non mi ama. Tra questi due poli esistono infinite sfumature ma che viaggiano tutte più nella logica del confronto.

 

Mi confronto con l’altro per sapere se sono amato e dunque se posso lasciarmi andare ad essere me stesso, posso lasciarmi andare ai miei limiti. Per l’uomo moderno la questione è sempre più difficile in quanto è costretto a misurarsi con agenzie e entità esterne che lo chiamano, come ben sappiamo, alla massa, al gruppo, all’omologazione e non alla individualità e alla soggettività di un “chi” inizia.

 

2 – Ma forse c’è un dato che può aiutare nella constatazione della coincidenza tra il proprio io e la propria natura: il benessere del corpo. Se il mio corpo sta bene significa che io sono in armonia con me stesso e dunque “sono me stesso”. Cartina di tornasole: il corpo dice sempre la verità, in particolare quando si tratta di salute e malattia. Se il corpo sta bene significa che sono in armonia con me stesso ed esiste adattamento al mondo che mi circonda.

 

 

Sappiamo come “Il disordine dell’Io – nozione questa che corrisponde ad una ricchissima fenomenologia dell’angoscia in tutta la sua gamma – impedisce di vivere, conoscere, amare” scrive ancora R. de Monticelli in L’allegria della mente. Dunque essere se stessi è essere il figliol prodigo che almeno pecca alla grande, ma con passione, piuttosto che essere l’altro fratello che è sempre rimasto a casa a pascere le vacche.

 

D’altra parte Agostino è ancora chiaro e puntuale: il non essere se stessi è il disordine (“In te ipsum rede”). Agostino afferma che una volta che ci siamo accorti del disordine del mondo, possiamo capire il nostro disordine interno. Come ha fatto il figliol prodigo. Che pure per tornare dal Padre è stato mosso dalla passione.

 

 

Il figliol prodigo è un inquieto, ma torna a casa “nuovo”. “Inquietum cor nostrum, quoniam nos ad te fecisti” afferma Agostino nelle Confessioni. Siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio in quanto anche egli è “curioso” e ad un tempo “inquieto”. Solo comprendendo che cosa preme al nostro cuore possiamo comprendere veramente chi siamo. Solo sentendo “chi” amo non ignoro chi sono.

 

Sarà forse la nostra inquietudine interna la madre/motrice delle nostre passioni?

 

La questione dell’amore è fondamentale nella conoscenza: mi “riduco” a me stesso (e qui il poeta Mario Luzi è maestro ) nel momento in cui mi dò completamente all’altro, lo eleggo fine e non più mezzo non solo dei miei pensieri, ma anche della mia pratica. La passione da cui siamo partiti.

 

 

Essere se stessi, in poche parole, significa “voler volere qualcosa” di nuovo. In poche parole, la sostanza della passione.

 

E questo agire è visto da Agostino non tanto come il fare il proprio essere secondo la propria volontà , ma farlo secondo piacere, “volentieri” (Agostino introduce il capitolo del piacere nell’essere se stessi). La volontà diventa un “volentieri”. Come se Freud vi avesse qui compreso l’importanza del “Principio di Piacere” nella fondazione della salute dell’individuo: è sano “chi” vuole (essere se stesso).

 

3 – La nostra singola storia allora si declina in quella degli altri, come hanno modo di dire Màdera e Vero Tarca in La filosofia come stile di vita.[3] Intendendo così che il vero e falso che esistono nel sentirci “autentici” dipendono dalla libertà del nostro intendere noi stessi , che si riconosce come giudizio buono nel momento in cui sappiamo dare un senso alla nostra vita.

Come ribadisce Minkowski, quando sostiene “Quando penso ad un orientamento nel tempo mi sento irresistibilmente spinto in avanti e vedo l’avvenire aprirsi davanti a me. (…) Solo a partire dallo slancio vitale e per suo tramite l’intero divenire diventa irreversibile e comincia ad avere un senso”.

“Essere se stessi” è saper dare senso alla propria esistenza. Non nel senso “esatto”, ma in quello “nostro”, nella logica e nella capacità di amare ed essere amati.

 

“Renditi abituale il pensiero che la morte per noi non è nulla: giacchè ogni bene e ogni male è nel senso, e la morte è privazione di senso”. Questo recita Epicuro nella Lettera a Meneceo. Tutto sta nel senso che diamo alla vita che è frutto da una parte della volontà (il volentieri di Agostino), dall’altra del senso che sappiamo imprimere alle nostre esperienze. Volontà e senso sono i binari sui quali corre il nostro “essere se stessi”.

 

AMORE, PASSIONE, CONSUMAZIONE

1 – “Consumare è vita”. Proprio così: la vita, per avere senso, va consumata. Mi allargherei a dire “spremuta”.

Così Max Stirner nel suo L’unico e la sua proprietà, libro che potrebbe essere letto come l’inno all’Individualismo, nel senso buono e anche nel senso cattivo (come del resto l’Idealismo può avere un senso buono e un senso cattivo). Scrive dunque Stirner: “Ma come si usa la vita? Consumandola come una candela. La si usa bruciandola. Si fa uso della vita e insieme di se stesso, il vivente, consumando la vita come se stesso. Godere la vita significa usarla, consumarla”.

 

Uno. La candela produce luce, calore, bellezza, ricchezza, vita. Due. Ma è proprio espletando questa funzione che essa si consuma, cioè si estingue, muore, va a finire tutta in cera persa sul tavolo. E trasferendo subito la questione sul piano della relazione, che è l’unica cosa che ci interessa al mondo, uso il vocabolario per definire meglio questa duplice strada della consumazione, che è poi la strada della equivalenza (altro termine per “concomitanza”) del vivere come avvicinamento alla morte.

 

Leggo allora nel Dizionario i due binari. La prima definizione della parola “consumazione” è: “Consumare, portare a termine, portare a conclusione, dare perfezione, portare a compimento, portare ad un fine”. La prima accezione della parola è dunque un legame stretto tra la consumazione e il tempo nel senso del prodotto. Fare qualche cosa insomma. Portare a termine qualche cosa come produzione di ricchezza, come produzione di vita. Anzi, direi di più. Consumare è la chiamata alla nostra stessa vita stessa.

 

2 – La seconda accezione della parola consumazione è la seguente: “Ridurre a nulla togliendo poco per poco, dare fondo”. E’ la logica della passione: andare fino in fondo. Sapendo che nel fondo c’è sempre l’altro, che proprio vivendo in questo fondo ci permette di venire fuori, di uscire e riuscire.

 

E’ il Tu che fa l’Io: senza l’altro, non siamo nulla. Il senso profondo del nostro essere è quello dello “scaturire” dalla relazione con il Tu. Dal “venirne fuori” non tanto nella logica dell’esserne contenuto passivamente, ma in quella che intende Roberta De Monticelli nel suo L’ordine del cuore, secondo cui la nostra identità stessa è sancita dalla relazione con l’altro. Se cambia l’altro della nostra storia, cambiamo anche noi. Senza l’altro è impossibile la nostra stessa identità.

 

Quando si usa l’espressione “tenere un posto per l’altro”, in altre parole usare disponibilità affinché l’altro entri in noi, avere capienza per l’altro, ossia volontà di capirlo dentro di noi, dare ascolto, offrire la nostra nicchia, un agente contenitore pronto per l’altro. Tolleranza, accettazione… prendiamo per buone tutte queste accezioni.

 

Ci accorgiamo che in noi, nella nostra capienza e volontà di essere riempiti, c’è “già” il posto per l’altro. Tale posto lo fa nascere l’altro, lo determina l’altro con il suo comparire davanti a noi. Non c’è la sedia vuota già pronta attorno alla tavola e… se arriva qualcuno ha dove sedersi. No. E’ il comparire dell’altro, il comparire del Tu che fa saltare fuori la sedia, che poi noi prendiamo per cenare tutti insieme con il nuovo ospite. E’ stato il comparire del Tu che ha determinato il fargli posto dentro di noi. E’ il tu che crea la condizione per la nostra capienza, per la nostra accoglienza.

 

Ha modo di dire la De Monticelli nel libro precedentemente citato sull’essere determinante del Tu nei confronti dell’Io. “Quello che c’è di indubbiamente misterioso nell’amore, perfino nelle sue forme più naturali e familiari, perfino in quello materno e filiale è la circostanza che l’amore apre gli occhi a un suo fondamento non altrimenti dato: la realtà di un individuo”. La De Monticelli sostiene qui che la realtà, dunque la storia di un individuo, è data dal fatto che un altro ha amore per lui. E’ il Tu della relazione che ci apre gli occhi su chi siamo. Siamo in quanto siamo amati. Proprio come tuona Giovanni della Croce quando afferma che “Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore”. Dato e ricevuto. In quanto è il dare e il ricevere amore che determina tutti gli Io e tutti i Tu che calcano la Terra con i loro passi. Esisto come individuo in quanto c’è un altro che mi ama. Diversamente avrò mille difficoltà (patologie) nel cogliermi come individuo, individuum unico e irripetibile.

 

Per questo è fondamentale che nella crescita il bambino senta l’amore dell’altro, dei suoi genitori: è attraverso questo sentire che struttura la sua identità, il suo essere pensante, il suo essere pensante un buon pensiero di se in quanto “altri” lo hanno voluto e desiderato. Il suo amare se stesso è la foto di lui tra i genitori sorridenti.

 

 

AMORE E INTELLIGENZA

 

1 – Aprire gli occhi. L’amore… sveglia. Nel momento in cui colgo l’amore dell’altro verso di me… mi sveglio, non mi annoio. Mi sveglio ad un sentire nuovo, ad un essere io “nuovo”, dunque me stesso, ad un annusare il mondo in modo diverso, quindi nuovo, a sentire con la pelle le fragranze che l’apparire dell’altro ha determinato. Mi sveglio a un capire nuovo , a un ricevere nuovo perché ogni altro Tu che incontro nella vita mi cambia. Cambiamo solo attraverso l’altro. Qui sta la banalità della cura, se si vuole: della cura psicologica. Un altro mi sveglia all’amore e con l’amore.

 

2 – Nella mia vita non compare tanto l’Amore con la A maiuscola, quello dell’ Andrea Chenier, non compare l’amore dei libri, delle teorie, delle parole vuote. No. Compare un Tu in carne ed ossa. Carne e sesso. Non esiste l’Amore in generale, ma esiste quello di un Tu, unico e irripetibile e anche mutabile nelle sue manifestazioni; è sempre l’Io che dà il senso all’essere. Io come soggetto sono il gestore del mio amore, del mio odio, della mia noia, della mia volontà di arrivare.

 

E’ il viso dell’altro su cui apro gli occhi e l’amore diventa una “legge individuale” come la chiama Remo Bodei. Questa legge la fanno l’Io e il Tu che stanno in relazione. Non si tratta di una legge esterna o sovradeterminata, non c’è fede religiosa, filosofica, politica, non c’è ideologia che tenga uniti due nella legge dell’amore, ma ci sono solo loro due. Dopo verrà tutto il resto. Chi ama un altro non porta con sè il peso dei suoi pensieri, delle sue ideologie, delle sue astrazioni. Si porta dietro il proprio corpo e basta. E con il corpo dell’altro fa la legge nel momento in cui lo ama.

 

Questo è il dato che libera il desiderio. La libertà del desiderio diviene la legge che in altre occasioni potrebbe essere imprigionata dalla morale, dalla religione, dalla tradizione, dalle convenienze o dagli stessi doveri, anche reciproci. Niente di tutto ciò. La libertà del desiderio produce frutti nel momento in cui due corpi si amano. E tanto basta.

 

“Questa legge individuale – ancora Remo Bodei nel suo Destini personali – ha la sua icona nel volto inconfondibile di ognuno, il luogo simbolico più espressivo che si conosca, dotato di sfumature che possono moltiplicarsi all’infinito e in cui i più piccoli movimenti riescono a modificare il tutto” .

 

Il volto dell’altro è la mobilità che mi sveglia, che mi mette in moto, mi offre motivo, se vogliamo, di prestare attenzione, la stessa attenzione di cui parla Simone Weil, al volto dell’altro, ovvero la cura nell’entrare e nell’uscire dall’altro rispettando la legge individuale. La legge dell’amore. E questa legge è garantita proprio dalla “nudità” con cui ci si presenta all’altro. Nudità del volto e del corpo come leggibilità del desiderio e della stessa volontà. La legge è fatta dalla naturalità con cui io mi faccio vedere dall’altro (e per vedere intendiamo “vedere la nostra contraddittorietà e la nostra debolezza”).

 

3 – Bene. Mi sono svegliato (fuori). Ho capito l’interesse della relazione. Ho capito la legge individuale dell’amore, ho capito che la relazione con l’altro è una consumazione . Bene. E’ una consumazione anche nel senso della seconda accezione del vocabolario, cioè un “andare a finire”. Quello che intendo dire è che nella relazione… ci si stanca. Ciò che era prima non è più dopo, e noi esseri capaci d’amare, dobbiamo riconoscere che la relazione d’amore può consumarsi anche nel senso che… va a finire. E in questo non vedo nulla di innaturale.

 

Io e l’altro, consumandoci a vicenda, forse che stando assieme non finiamo per consumarci per davvero? Ossia ci annoiamo e ci stanchiamo del nostro stesso rapporto? La candela raggiunge il suo scopo in una sua funzione. Dalla cera consumata poi che ne sarà? Sarà componibile in un altro rapporto? In altri rapporti? L’energia è rinnovabile e riproducibile nella relazione oppure è destinata a fine, come nella seconda accezione del vocabolario?

 

Perché noi uomini e donne di questo mondo facciamo così fatica (se di fatica si tratta) a far convivere in noi il pensiero e l’esperienza che se da un lato la candela produce vita, amore, ricchezza, dall’altro, proprio perché espleta questa funzione, la candela va a perdersi, ovvero può portare alla stanchezza e alla chiusura della relazione, può portare ad esaurimento, alla morte? Davvero la noia diventa inevitabile.

 

Ritengo che queste domande trovino adeguata risposta solo nell’intimo del cuore di ognuno, nella privatezza con cui noi viviamo noi stessi e anche nella onestà con cui lo facciamo.

 

Penso che tutto sia legato alla natura stessa del desiderio che per essere tale deve essere libero. La legge della vita a volte è la legge del paradosso e noi siamo chiamati a viverlo questo paradosso. Anzi, di sicuro siamo chiamati a questo compito. Il paradosso è che l’altro, come viene se ne và. E che noi come andiamo ci ritiriamo. Proprio perché l’altro è perdibile lo amiamo tanto. Proprio perché ci chiama dal suo luogo, ci andiamo. Non ci chiama da quello nostro. Il suo luogo è il suo, nel quale vi si può anche ritirare. La forza del nostro desiderio è data appunto dal fatto che il desiderio è il desiderio dell’altro. Non è altrimenti e l’altro come è incontrabile è anche perdibile. Il desiderio è il desiderio di stare vicino all’altro. Nella nudità dei corpi: non mi interessa null’ altro che quell’amore lì.

 

Prosegue la De Monticelli: “Per cancellare una credenza, una realtà, un altro reale, ci vogliono dei nuovi motivi. Non è in mio potere abolirla, non più di quanto lo sia il vedere la montagna che è davanti a me”. Per allontanarmi da “una credenza, da una realtà, da un altro reale” devo vedere altro ancora. E’ la vita del desiderio questa, in base alla quale siamo attratti dall’altro, e il desiderio è sempre il desiderio dell’altro. Il nuovo che l’altro mi offre , il nuovo che vedo nel volto nuovo dell’altro.

 

Goethe in Le affinità elettive. Edoardo e Ottilia stanno pronunciando le prime fasi del loro innamoramento e Edoardo parla con queste parole a Ottilia: “Ho da rivolgervi una preghiera cara Ottilia, vogliate perdonarmi anche se mi direte di no. Voi non fare nessun mistero (…) del fatto che sotto il vostro abito, sul petto, portate una miniatura. E’ l’immagine di vostro padre che voi avete appena conosciuto e che merita un posto nel vostro cuore. Ma perdonatemi, il medaglione è esageratamente grande e quel metallo, quel vetro, mi fanno mille paure. Ogni volta che voi pigliate in braccio un bambino (leggo questo passo seguendo con l’occhio quello che ha appena detto la De Monticelli, per passare da un posto all’altro ci vuole un motivo) o portate qualche peso o quando la vettura sobbalza (…) mi riesce insopportabile l’idea che qualche urto improvviso, una caduta o un colpo qualsiasi potrebbero riuscirvi pericolosi. Fatelo per amor mio, allontanate l’immagine. Ma non dal ricordo, e nemmeno dalla vostra camera, soltanto allontanatelo dal vostro petto dove a me sembra, forse per eccesso di sollecitudine alquanto pericolosa (Edoardo sta dicendo ad Ottilia: “Levati il medaglione di tuo padre dal petto altrimenti non avrai altri motivi per… e il motivo per… eccolo qua, sono io). Ottilia senza fretta né precipitazione, con lo sguardo più rivolto al cielo che a Edoardo, sciolse la catena, trasse fuori il medaglione, se lo premette sulla fronte e poi lo tese all’amico dicendo: ‘Tenetemelo voi finchè arriviamo a casa, non saprei come meglio dimostrarvi la vostra affettuosa premura’. L’amico non ardì premere il medaglione con le labbra ma le prese le mani e se le portò sugli occhi. Erano le più belle mani che mai si fossero strette tra loro. Gli parve che di un gran peso si fosse liberato il suo petto e che un muro fosse stato abbattuto tra lui e Ottilia”.

La donna, per avere un altro uomo, deve togliersi dalla testa l’uomo di prima, in questo caso il proprio padre.

 

Affinché per me la parola “consumazione” rivesta il suo completo significato “vitale” devo incontrare nella vita qualcuno che mi faccia un discorso del tipo di quello di Edoardo ad Ottilia. “Lascia di là se vuoi venire di qua, lascia l’altro uomo se vuoi venire con un nuovo uomo”. Che il nuovo uomo poi sia un altro reale o diverso, oppure lo stesso che sa fare discorsi e avere desideri nuovi e diversi dal passato, che aveva portato alla noia e alla stanchezza, mi sembra non vi sia differenza. Ottilia da sola non ci sarebbe mai arrivata senza il Tu di Edoardo. La sua relazione con il medaglione del padre l’avrebbe inevitabilmente portata ad esserne schiava e quindi a stancarsi, magari senza staccarsi. Ancora una volta è il Tu che fa l’Io. Lei si sveglia perché guarda gli occhi di un’altra persona che le dà un nuovo motivo. Se avesse avuto una relazione reale con un altro uomo e non con il medaglione del padre, avrebbe potuto essere anche questo uomo a svegliarla, ma con discorsi nuovi e con nuovi motivi.

 

Poi può succedere che la stanchezza abbia un proprio e preciso significato nella relazione. Che non arrivi a caso, che introduca qualche cosa di nuovo. Oppure la stanchezza può essere patologica, naturalmente patologica in quanto inevitabile. Giacché stancarsi dell’altro è l’umano dell’umano. Il paradosso e la debolezza che ci fanno forti e vivi è l’umano. Dentro l’umano tutto trova posto. Ed esiste dunque una noia “umana”, come ne esiste anche una patologica. Non sempre il proprio posto, ma tutto trova posto.

 

PASSIONE (PER CONCLUDERE) E’ VIVERE

1 – “Da qui deriva, forse attraverso la letteratura, questa idea tutta moderna e romantica che la passione sia una nobiltà morale, e ci ponga al di sopra della legge e dei costumi. Chi ama con passione accede ad una più alta umanità, ove le barriere sociali scompaiono”.[10]

Forse le barriere sociali non scompariranno mai, ma di sicuro nessuna passione si pone al di sopra della legge, la legge istituita dai due che si amano . Solo loro la possono istituire. Certo la passione con cui si vive l’amore è il senso dell’intera nostra esistenza, della nostra storia passata e presente.

 

E la passione è sempre liberazione, liberazione dalla patologia che costringe all’inibizione. La salute è “rinunciare a rinunciare”, come forma e contenuto del senso dell’intera nostra esistenza.

 

«L’uomo della passione attende dall’amore fatale qualche rivelazione, su se stesso o sulla vita in generale».

 

Fatale non è mortale, ma «incontrabile». E’ l’incontrabilità dell’altro il moto del nostro corpo, di tutti i nostri corpi. La possibilità, il potere di un incontro che il fato , cioè quello che riesco a fare, mi può consentire. Il potere che sta nelle mie mani non è “verso” l’altro, ma ”verso” la incontrabilità dell’altro, che per l’appunto non è programmabile ma solamente incontrabile. Fatalmente appunto.

Lo stato d’attesa che l’incontrabilità chiama è quello della passione.

 

L’attesa tuttavia non è mai uno stato primo, una prima esperienza, ma viene sempre dopo una esperienza, un avvenimento precedente: attendo qualcuno o qualcosa, con cui già ho avuto un primo incontro. O attendo questa esperienza, seppure diversa, ma che «mi richiama» un’esperienza vissuta da qualche parte prima nella mia storia.

 

L’attesa è il tempo popolato dall’ostacolo. Anche se ad essere ostacolo è il tempo stesso. Fatalità, la fatalità che ci chiama è quella del superare l’ostacolo. E se l’ostacolo non ci fosse non si potrebbe parlare di passione.

 

“La verità è che bisogna ricreare degli ostacoli per poter desiderare di nuovo e per poter esaltare questo desiderio fino alle dimensioni di una passione cosciente, intensa, infinitamente interessante”.

 

Il desiderio è sempre “di nuovo”. Si proviene sempre da un prima nel nostro desiderio; un “prima” che ci ha fatto scuola, un prima che si riferisce ai nostri primi altri (padre e madre). Il luogo e la situazione primitiva probabilmente ci rimarranno per sempre conosciuti. La prima scena non sarà mai resa “cosciente”, ammesso che sia avvenuta realmente e non sia una nostra costruzione.

 

2 – Il pericolo della passione romantica, dall’amour-plaisir che scivola sempre verso una sofferenza, come si può vedere ad esempio nel Tristano e Isotta, è che chi vive passione, l’ostacolo ce lo metta apposta o per forza, è nella natura della passione. In questo caso però si tratterebbe di perversione. Tuttavia è lecito pensare che la passione esiga sempre una “vittoria”, una risoluzione di un sospeso (ma anche l’amore, tutto sommato, segue questa logica). Nell’amore questa vittoria (non necessariamente “su” qualcuno) altro nome non ha che soddisfazione.

 

La soddisfazione coincide con “l’oltrepassare”. Viene dal corpo dell’altro ma nello stesso tempo va “oltre”. In luoghi e contesti dello spirito che spesso ci sono sconosciuti. Memoria, sogno, futuro, un ulteriore desiderio, la rinascita del desiderio. Non ci si ferma mai completamente nel corpo dell’altro. Ma senza il corpo dell’altro non ci sarebbe alcun “oltre”. Nemmeno un “oltre” con la “O” maiuscola.

La soddisfazione in amore è data dalla lettura del corpo dell’altro e dalla rielaborazione che siamo in grado di compiere con il corpo in relazione con quello dell’altro. Si tratta di “sentire” un corpo con un corpo. Il risultato allora va “oltre” entrambi i corpi, li oltrepassa. Il passaggio dall’esperienza appena vissuta all’attesa di una nuova. E’ l’attesa della passione. L’ostacolo che è gia divenuto tempo.

 

In effetti noi siamo capaci di elaborare con il corpo un qualche cosa di cui abbiamo già avuto esperienza. Come quando parliamo, discorriamo con qualcuno: le sue riflessioni, le sue idee permettono alle nostre di formarsi, di crescere in modo diverso e più completo, come non succederebbe se fossimo da soli. E’ l’altro, anche come esperienza precedente, che ci consente di andare incontro alla soddisfazione. Come abbiamo visto, è l’altro che ci “dà il tempo” e un indirizzo. Indirizzo, comunque, sempre nella libertà.

 

3 – Passione sembra richiamarsi ad un altro unicum, ad un altro irrinunciabile come entità concreta e fisica. Un lui o una lei in sostanza. Ma la passione comporta anche l’alternativa. E’ povero non chi è privo di ricchezza, ma chi è privo di alternativa. L’uomo che vive la propria vita con passione, l’amore con passione, non si “fissa” sull’altro reale, su “quello/a lì” ma li trascende. L’uomo della passione ama l’altro, ma non si fissa o “lo” fissa, non ne chiede l’esclusiva, come in un primo tempo potrebbe sembrare. L’altro che amo mi rimanda sempre alla sua “trascendenza”.

Mi rimanda ad un altro ulteriore “mio proprio” perché mi ama. Mi fa mettere in discussione il “mio proprio” e mi rimanda alla ”possibilità” di un altro proprio perché vuole la mia libertà nel senso che io sia quello che sono, che da me esca tutto il meglio che io sono in grado di dare, e che a partire da questo io “mi trascenda”, cioè… faccia sempre meglio . Questo è il potere dell’amore: una possibilità sempre “oltre”.

 

Ma non è detto che l’”oltre” sia popolato. In quanto possibilità non è detto che sia popolato da altri. L’”oltre” potrebbe anche rivelarsi una mancanza, la perdita della possibilità. La fatalità prevede che ci sia assenza. In questo caso destino c’è, se ci aiuta ad accettare la perdita (ma non il pensiero che siamo sfortunati perché l’altro non riempie la nostra esistenza).

 

Nei suoi Saggi Montaigne sostiene che tutto ciò che insegniamo viene da mano umana e tutto ciò che impariamo viene da mano umana e la verità appartiene soltanto a Dio. E la conoscenza è la prima ricchezza che manca all’uomo povero. E la conoscenza relativa è quella che spetta agli umani. Ma è questa relatività che muove la passione, come la assenza, il mancare. L’altro, per noi tutti, rappresenta il massimo dell’assenza e nello stesso tempo il massimo richiamo alla presenza. Per questo nel lungo viaggio commettiamo tanti errori. Siamo “presenti a noi stessi” solo quando, alla fine del tragitto, se mai fine esiste, siamo in relazione con l’altro.

 

Viviamo “di” altri, viviamo della vita di altri. In questo ambiente la passione potrebbe fare male, potrebbe ferire, nel momento in cui l’Io si trova ad essere eccessivamente “abitatore” di altri, nel momento in cui non ha più casa propria, perché si perde in quella dell’altro sopravvalutandone la ospitalità . Potrebbe diventare una questione di dipendenza, dunque di angoscia.

Per questo anche l’assenza che mi spinge verso l’altro, per non essere dolorosa, deve essere relativa, mai assoluta. Perché diverrebbe pena. La passione è sempre una volontà, un atto del corpo verso quello di un altro, ma anche un atto di volontà presso proprio. Che viva. Che abbia forma e sostanza, in se stesso, per se stesso e da se stesso. Il saper essere soli è la garanzia che posso andare ad abitare l’altro. Diversamente non saprei e nemmeno potrei muovermi.

 

3 – Rispetto all’amore la passione è un “surplus”: rischio, possibilità di perdere l’altro, emozione, trasgressione, ostacolo appunto, tempo dilatato, amplificazione del proprio corpo e del corpo dell’altro, forzatura del principio di Necessità. Alla domanda se tale “surplus” sia qualitativo o quantitativo dobbiamo rispondere: l’uno e l’altro. La passione è forza-forzatura rispetto all’amore, sia nel registro quantitativo che in quello qualitativo

 

Ed altri elementi caratteristici della passione possono essere ancora: la attesa, l’atto della mancanza, lo slancio, lo sbilanciamento al di fuori del proprio corpo, l’esperienza del “fuori”, la relativa dipendenza dalle opportunità che l’altro offre, sorpresa nella risposta che l’altro dà alla mia domanda, spiazzamento rispetto alla mia attesa, sapere/volere cambiare registro nella comunicazione, sapere/volere dire l’ineffabile anche senza riuscirci. Passione è “stile proprio” con cui l’altro mi consente di «essere me stesso», essere quello che si è secondo (da sequor, seguire) se stessi e l’altro, coraggio (cor-is) ovvero cuore fatto ambito della volontà.

 

Passione è spendere come investimento, pensare che l’altro è mistero, ma non “misterioso”. Passione è pulsione di morte, di morte della relazione stessa, ma anche dall’Io e del Tu; e comunque: passione è uscire dall’inibizione, quindi dalla patologia, per accedere alla “capacità” di fare.

 

Se l’uomo è logico per definizione, la passione non è esclusa da questa logica. La logica ha il suo avvenire nel corpo in quanto progetto verso la soddisfazione. Non potremmo arrivare alla soddisfazione senza una logica del corpo (non logica dell’intelletto). La logica avviene nel corpo come stato di «relativa passività» al fatto che sia l’altro che mi porta la/alla soddisfazione. Il lasciarmi amare dall’altro di cui s’è detto in precedenza. E quando soddisfazione non c’è, significa che si è verificato un errore nella logica del corpo, logica talmente funzionante da non richiedere l’intervento dell’intelletto. Se “consentiamo” al nostro corpo di andare secondo natura, esso andrà secondo logica verso la soddisfazione.

C’è sempre un “più grande” del più grande.

La passione d’amore è (se lo è) più grande di ogni altra esperienza, perché prevede la possibilità di “perdersi per strada”, di perdere la possibilità della passione stessa. La passione è la più grande delle esperienze perché può annullare se stessa, può essere sovvertita in qualsiasi momento, in quanto fragile, forse fugace, precaria, lontanissima dalla garanzia.

E’ la più grande delle esperienze appunto perché porta con sé il suo stesso negativo: la pulsione di morte, il richiamo alla fine, alla consumazione. E proprio perché porta con sé il suo stesso negativo che la viviamo con tanto trasporto, e anche con tanto dolore, perché ha già in sé il principio della sua fine, come la Vita stessa. Chi vive passione dentro di sé vuole che anche finisca. Che ci sia alla fin fine…pace.

 

L’Io che vive l’esperienza della passione d’amore riconosce il tempo come “attesa continua”. Il tempo è l’attendere nella condizione della non conoscenza. Per questo motivo costruiamo pregiudizi e ossessioni, per ovviare al tempo come continua attesa. Perché esiste incertezza nel “saper” riempire il tempo che verrà: la passione non è affatto esente dalle imposizioni del Dover Essere. Nella passione la discriminante tra salute e malattia (della passione stessa) è data dalla conduzione del tempo: nella vita esiste sempre un punto temporale “che viene dopo”: questo punto non sarà mai incontrabile, questa è la passione d’amore. Il vivere tale passione è spostare progressivamente in avanti il punto di incontro della nostra soddisfazione.

 

4 – Se la vita è ricerca di ordine, l’ordine non è pensiero che abbia lunga gittata, è evento che avviene al momento e viene consumato nel momento e in quanto tale ha morte nel momento. Il momento è sempre quello dell’attraversamento. Noi attraversiamo sempre qualcosa: l’altro, il tempo, l’esperienza, la forma delle cose e la loro sussistenza. Siamo viaggiatori, non tanto in quanto andiamo da qualche parte, ma in quanto “attraversiamo” qualche cosa e di essa ne conserviamo i sapori e gli odori: nella maggior parte dei casi la nostra esperienza di attraversamento è legata all’altro. Del quale ci portiamo dietro quello che ci portiamo. Nulla di più e nulla di meno.

 

Questo “attraversamento” ha come oggetto qualsiasi voce che rientri nella accezione di “passo per” e “mi fermo in”: l’altro . Attraversare il fenomeno (potremmo dire “il tutto”) ci restituisce una continuità che forse prima era andata perduta. Il nostro pensiero va ben oltre i nostri fatti: questo è l’ “oltre” che viviamo su questa terra. Il pensiero “crea” i nostri fatti e li fa diventare nostri proprio perché il pensiero è “nostro”. Nel senso che il «nostro» pensiero siamo noi. Molto probabilmente la passione ha a che fare con questo senso. Che diviene nostro nel momento in cui… viene fuori dal nostro pensiero, viene fuori dal nostro Io. Questo percorso, questo viaggio, è il viaggio della salute. Al di fuori di ogni forma di sicurezza e di assicurazione. In quanto salute è … continuare ad aspettarla!

 

La passione vive tra attesa e storia, tra attesa e memoria. Lo splendido romanzo di Xavier Marìas (appena acomparso), L’uomo sentimentale, non dice altro che questo. L’amore vive tra la memoria e l’attesa (e non è mai presente). Tesi, se si vuole, discutibile, ma affascinante. Un presente esiste perché amore ci possa essere. Ma nessuna tesi, in amore, può godere del privilegio dell’esattezza.

 

La passione, nella logica del plaisir-amour, per esser tale, deve godere del segreto. Abelardo/Eloisa, Tristano/Isotta coltivavano, giocoforza, il segreto, chiedevano l’esclusiva. Nel senso che se fossero stati loro a voler svelare il segreto… bene. Ma se altri si fossero intromessi…. Non avrebbero accettato lo svelamento. Eppure, quando viviamo una passione d’amore, vorremmo gridare a tutto il mondo il suo contenuto, perfino nei minimi particolari, nelle pieghe dell’esperienza e del pensato.

 

Vorremmo, addirittura, che qualcuno ci chiedesse conto del nostro segreto. E saremmo pronti a rivelarlo; dopo poco, allo stesso modo, a smentirlo:

 

“L’amore al mondo è per far sì che il mondo venga dimenticato” scrive Paul Elouard. L’amore è “nel” mondo (principio di realtà), e così diversamente non potrebbe essere.

Vorremmo tenere il segreto del nostro amore e ad un tempo svelarlo a tutto il mondo.

 

“…perché il mondo, inteso come gli altri, non può reggere ad un eccesso di sincerità e di trasparenza, non può tollerare tutto l’esistente. Si può quindi scegliere di celare un segreto per proteggere l’altro e la relazione stessa, per soddisfare una richiesta tacita dell’altro. Che non vuole necessariamente conoscere tutto”.

E il segreto non sarebbe tale se non possedesse molteplici registri anche nella sua codifica.

“Il segreto, tramite la sua ‘polisemia’, può assumere quindi diversi ruoli all’interno delle interazioni e delle relazioni, divenire una modalità di comunicazione sia se celato sia se svelato”.

Certo è che nessuna passione è indolore: né per il soggetto, né per l’altro: la passione contempla sia l’inevitabilità della sofferenza dentro di sé, sia l’inevitabilità dalla soddisfazione: in ogni caso la passione, per chi la vive e la fa vivere, è una “promozione”. L’altro promuove me che l’ho scelto e io promuovo lui per averlo scelto. Promuovere significa “passare” (come si “passa” agli esami). E si passa da una posizione antecedente ad una susseguente. Si procede. Si va avanti. Ci si accompagna nella strada.

 

Mi appassiona l’altro quando metto a tacere qualcosa dentro di me e… inevitabilmente faccio parlare qualcosa d’altro . Il corpo. Non esistono altre estensioni maggiormente estensibili che il corpo. Per questo possiamo darci e dirci all’altro: sulla misura della sua estensibilità. Che non è un dato «naturale» ma, un dato di desiderio. «Nulla di troppo” recita l’Apollo delfico. Non dobbiamo, amando, allargarci troppo. Continenza. Dobbiamo stare dentro il nostro limite pure essendo «affascinanti» per l’altro. La fascinazione qui non è un’alterazione della naturalità del nostro essere-con-l’altro, ma ne è un completamento. Un tocco in più.

 

“Nulla di troppo” in quanto il “troppo” non esiste. Chi ama il troppo si ammala. Chi ci chiama verso il troppo ci fa ammalare. E nella relazione d’amore spesso accade questo. In questa eventualità allora la relazione non si “chiama” più “d’amore” ma di “dolore”. E a noi non è né lecito, né permesso dare dolore ad alcuno. Pena il nostro dolore successivo. Nulla di troppo.

 

“Nulla di troppo” è la continenza, la Sofrosyne non è il coinvolgere l’altro o il convincerlo alla nostra, o alla comune causa, il “tirarlo” dalla nostra parte. La continenza, proprio per amore, è lasciarlo solo nella libertà di scelta di stare con noi oppure no.

 

Proprio in questo “senso” se non “convinco” l’altro alla mia causa ho buone possibilità di viverlo nella mia passione. Nessuno è da vincere, né nel corpo né nell’intelletto. Nulla di troppo. Nulla di troppo significa che non invado l’altro con la mia domanda. Non lo riempio, non lo svelo del tutto ma gli lascio il suo “segreto”. Segreto che so gli dà grande soddisfazione.

 

Il segreto della relazione è fare delle cose grandi cose piccole, non perché le possa intendere l’altro, ma perché dapprima le possa intendere io. Piccole cose significa «alla portata» delle nostre mani.

 

5 – Le mie mani danno all’altro, se le tendo, la possibilità di amarmi. “Amo chi mi ama” in quanto offro all’altro una possibilità. Lasciarsi amare è “che l’altro faccia”. E non fare niente per opporsi alla sua mano. Si è vista già in precedenza l’importanza del non opporre resistenza al rapporto, al desiderio che l’altro ci offre.

 

Nella relazione, quando sono con te, sono con te. Quando non sono con te, sono da un’altra parte.

 

La passione vive di allontanamento e di avvicinamento. Di presenza e di assenza. Ma questa realtà può anche determinare la cifra della nostra solitudine.

 

Se l’amore ha una legge, essa si impara dall’altro, dai nostri primi altri. La legge dell’amore è redatta nella solitudine proprio per, poi, funzionare tra due. Le parole dell’amore vengono dopo. Vengono dopo dell’istituzione della legge. Legge in quanto gli atti dell’amore hanno senso solo se trovano parole appropriate per essere detti. Detti all’altro, ma soprattutto detti a se stessi.

 

In amore l’espressione «Fatti, non parole» significa solo che le parole diventano fatti solo se sono “parole giuste”. Giuste che significa prelevate dal repertorio della Giustizia, che è una agenzia tra Io e Tu. E che solo Io e Tu possono istituire.

 

La legge dell’amore è quella di “imparare” dagli altri, senza pensiero di sfruttamento, né di sudditanza. Le legge dell’amore è redatta nella solitudine di due che si amano e che intendono tale solitudine come punto di partenza del loro percorso e luogo in cui tornare all’occorrenza durante il viaggio. L’amore, nella sua articolazione di legge, tende all’ordine, si articola sull’ordine. La passione può anche tollerare un disordine relativo in quanto esiste un naturale sbilanciamento del giudizio e del corpo verso l’altro.

 

La legge dell’amore recita che non bisogna avere troppo pensiero per se stessi e che il vantaggio (salute) è il pensiero dell’altro. Il fare dell’altro il proprio pensiero. Per questo colui che vive volutamente in solitudine (senza esperienza d’amore) pensa perniciosamente a se stesso, ha sé stesso come oggetto del pensiero e in questo senso si ammala.

 

Pensare all’altro significa pensare contemporaneamente che esiste «altro» ancora oltre l’altro fisico che noi amiamo . Non abbiamo relazione solo con il corpo dell’altro, ma anche con l’”oltre” che lo trascende. L’altro non esaurisce affatto il nostro desiderio, ma lo fa andare avanti, procedere, verso la “sua” direzione, ma anche verso direzioni “altre”: l’amore è universale in quanto nessun corpo lo esaurisce, anzi, lo rimanda verso infinite ulteriorità.

 

Questo vivere l’amore con l’altro da una partenza di libertà comporta la logica della domanda. Quando rivolgo una domanda all’altro, questi non ha nella mente la risposta pronta, non ha un repertorio di risposte pronte per l’uso, ma la confeziona al momento, l’adatta al momento, al soggetto che chiede, al volto che ha, alla pelle che si lascia vedere. Non c’è in noi un repertorio di risposte. Le risposte nascono nel tempo della relazione. Guai a programmarle. A pensare di avere un punto fisso in noi al quale l’altro deve andare ad appoggiarsi (sul quale l’altro deve / può appoggiarsi?): lo guideremo dove vogliamo noi e non dove chiede lui. La mia domanda all’altro lo induce a crearsi /darsi la risposta. La mia domanda diventa per l’altro un’occasione di attivarsi, di funzionare, di essere ancora una volta vivo. La sua domanda non è quella del commercio in cui io “scelgo” un determinato oggetto. La mia domanda nella relazione prevede una risposta che non posso scegliere e che (in fondo) nemmeno conosco.

 

Comprende altresì la mia disponibilità a ricevere dall’altro una domanda che addirittura mi spiazzi. La risposta non “c’è già”, non esiste in natura, ma si fa strada facendo. Io sono rapporto.

 

“Senza dubbio, quando Platone affermò nel Sofista che l’anima del pensiero conversa con se stessa, o, come piuttosto suppongo, discute con se stessa, – scrive Ryle – stava esaminando ciò che lui stesso faceva o doveva fare, quando da vicino affrontava i problemi filosofici.(…) “ Pensare è ‘dire cose a noi stessi’. Dire cose a noi stessi per averne in un certo qual senso un controllo se non addirittura un dominio. Dire cose a noi stessi per preparare le cose da dire all’altro, magari con il medesimo scopo”. Come esplicita Nietzsche:

“L’intero apparato conoscitivo è un apparato di astrazione e semplificazione – non diretto alla conoscenza della cose, bensì al ‘dominio’ delle cose”. E la tensione nostra nella relazione , per non dire la patologia, si articola sempre sotto la voce del controllo, anzi, come afferma Dewey, nella pretesa dell’anticipazione: l’illusione del vedere prima l’altro, del poterlo in qualche modo programmare, mentre è noto che è (forse) incontrabile, certo non programmabile.

 

“La riflessione è un tentativo di scoprire – scrive Dewey – come sarebbero in realtà le varie linee di possibilità dell’azione; è un esperimento che consiste nell’istituire varie combinazioni di elementi scelti dalle abitudini e dagli impulsi per vedere come sarebbe l’azione risultante se venisse intrapresa. Ma la prova è fatta con l’immaginazione, non manifestamente nella realtà”.

Mentre poi quella che potrebbe essere intesa come la nostra verità interna consiste nel sentire del nostro corpo, come affermava prima la De Monticelli e come afferma ora Nietzsche:

“Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E chissà a quale scopo per il tuo corpo è necessaria propria la tua migliore saggezza (…) Il corpo infatti è una grande ragione (…) e strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua grande ragione”.

 

Fino a spingere il pensiero a intendere la Psiche, nel senso di Anima, come effetto del moto del corpo, come già scriveva Cicerone:

“…. È stata ultimamente sostenuta da Aristosseno, musico e nello stesso tempo filosofo, la definizione dell’anima come una specie di tensione del corpo stesso, del tipo di quel che nel canto e nella tecnica della lira i Greci chiamano ‘armonia’: da tutto il corpo, nella sua natura e conformazione, procede una varietà di vibrazioni simili alle note del canto. Egli non sapeva distaccarsi dalla sua arte e tuttavia ha dato una interpretazione che sostanzialmente molto tempo prima era stata proposta e ben precisata da Platone”.

 

Ed è poi la parola l’ultima appendice che mette il nostro contenuto del sentire dell’anima nelle mani dell’altro della relazione. Non a caso parla di “emozione” come del luogo della veicolazione della comunicazione tra soggetto e altro:

 

“Dapprima le immagini – spiegare come le immagini sorgono nello spirito. Poi le parole, applicate alle immagini – scrive Nietzsche – . Da ultimo i concetti, possibili solo se ci sono parole – riassumere molte immagini in una cosa che non si può vedere, ma che si può udire (la parola). Quella piccola emozione che sorge con la parola, ossia la visione delle immagini simili per cui esiste una parola sola – questa debole emozione è il tratto comune, la base del concetto”.

Pensare è quindi sempre parlare a se stessi, s-coprire la propria identità all’altro, ma anche la propria alienazione, l’incapacità o difficoltà di relazionarci con il mondo, fino a pervenire al pensiero, all’anestesia del pensiero, che pensa che nulla esista in questo mondo, come ci viene a dire Severino: (ma potremmo anche interrogare Peer Gynt e Qoelet).

Tornando all’inizio di questo discorso: “ci si lascia andare” all’altro certo con il corpo, ma il pensiero deve fare bene la propria parte.

 

GUIDO SAVIO

 

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