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GUIDO SAVIO: DA VENTO A VENTO

Da vento a vento

 

LEGGENDO IL QOELET

  

1

Qoelet. L’Ecclesiaste. Colui che raduna l’assemblea. Ebraico qabal, latino ecclesia. Dunque Qoelet è colui che raduna e parla all’altro. E’ l’uomo della relazione ma anche della comunicazione.

I contenuti del breve Libro della Bibbia. Presto detti: Habel habalim hakkol habel, il celebre Vanitas vanitatum et omnia vanitas della vulgata. La parola Hebel è certo la sigla ma anche la cifra simbolica di Qoelet, martellata all’interno di tutte le strofe più intense.

 

Hebel. Vento. Tardo ebraico e tardo aramaico: soffio caldo, vapore, fumo, alito, nulla; arabo: vapore, fumo, vento; tardo egizio e etiopico: vento; mandeo: alito, soffio, vapore, fumo.

 

In altre parole hebel è tutto ciò che non ha esito, che è inefficace, tanto è vero che in ebraico si trasforma in una locuzione avverbiale equivalente al nostro “invano”: “perché mi consolate invano (hebel)?” (Gb 21-34).

 

Bahya Ibn Paquda nella “Supplica” poetica posta in finale al suo capolavoro mistico I doveri del cuore riprende accuratamente il filo conduttore dell’hebel di Qohelet:

 

“Ho meditato la mie vie,

ho scrutato i miei sentieri,

ho considerato i miei atti,

ho esaminato il futuro di ogni mia ambizione.

Ed ecco: tutto è vuoto

E pascolo di vento.

Ogni fine è vuoto,

ogni futuro è illusione” (c.III)

 

Pascolo di vento. Luogo dove il vento coltiva il proprio passaggio. E non è un passaggio di senso o di contenuti. E’ un passaggio di vento vero. Nulla altro che hebel. Tutto va verso un finire senza neppure la sicurezza che il finire sia poi un finire. Non comporti i propri strascichi. Senza la sicurezza che il finire non ribalti anche tutto ciò che precedentemente è avvenuto, nella sua presenza o assenza di senso.

 

E il finire lascia sempre soli, afferma Qoelet. Ha più speranza Cesare Pavese in questa solitudine quando scrive in Il mestiere di vivere : “La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto, la religione, consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è uno sfogo come con un amico. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri”.

 

Pavese Ecclesiaste più dell’Ecclesiaste. Pavese che cerca l’altro, sia esso Dio, più dell’Ecclesiaste stesso.

 

Pavese domanda all’altro e domanda l’altro. Non possiamo dire altrettanto di Qohelet. Quale rapporto ha Qohelet con il “tu”, dentro al quale prende vita e forma e senso la domanda (anche se risposta garantita non c’è?). Qoehelet “sembra” sapere e per questo non fa domande. Ha deciso per il vento, ha deciso per la fissità, ha deciso per il non avvenire, ha deciso per il nihil novi sub sole.

 

Il grido di Qoelet ha più di un bersaglio: il lavoro, la fatica, il sole che rende insopportabile la fatica. Non per nulla la espressione “sotto il sole” per ben otto volte nel libro è collegata al verbo della fatica ‘amal, e per ben nove volte si aggancia al verbo “fare”, al vuoto operare dell’umanità.

 

Qoelet con queste tre semplici parole “valore, fatica, sole” ha costruito la triade riassuntiva delle dimensioni etiche, antropologiche e cosmiche in cui si aggrovigliano le insensatezze e le miserie dell’uomo. E l’uomo anche di questo è fatto. In alcuni momenti della propria vita, soprattutto di questo è fatto.

Qohelet inizia a srotolare la sua matassa, non per trovarne il bandolo quanto piuttosto per stringere maggiormente il groviglio che stronca l’agire dell’uomo soffocandone illusioni e speranze. Fino alla fine della vita. E anche oltre.

 

“Una generazione passa via,

una generazione entra

su una terra eternamente ferma.

 

Sorge il sole; tramonta il sole affannandosi

Verso quel luogo da cui rispunterà.

 

Soffia il vento dal sud, gira a settentrione,

passa girando e rigirando il vento

e sui suoi giri ritorna il vento.

  

Tutti i fiumi scorrono verso il mare.

Eppure mai il mare si colma;

alla foce scorrono i fiumi

e di là essi riprendono a scorrere.

 

Tutte le parole sono logore

E l’uomo non può più usarle.

Mai l’occhio è sazio di vedere,

mai l’orecchio è sazio di sentire.

Quel che è stato sarà,

quel che si è fatto si rifarà:

assolutamente niente di nuovo sotto il sole!”

 

 

Qoelet è l’immobile. Qoelet è il cerchio che non porta da nessuna parte. Qoelet non si domanda o non domanda in merito al “nuovo sotto il sole”. Non c’è inizio e in quanto tale non c’è fine. Già sa Qoelet. Qoelet non è capax mundi, buono di stare al mondo, uno che “si capacita” al viaggio che è un andare da… a. E poi basta. Sembra che la vanitas di Qoelet scivoli verso un nulla che sa di immortale. Ma Qoelet siamo tutti noi. Lui è il radunatore delle nostre voci contraddittorie. E dalle nostre contraddizioni ha fatto la sua voce.

 

 

2

 

 

Nel giorno del conferimento del premio Nobel per la poesia la grande poetessa polacca Wislawa Szymborska tiene un ameno discorso all’assemblea di Stoccolma e tra le altre cose afferma:

 

Mi capita di sognare situazioni irrealizzabili. Nella mia temerarietà immagino ad esempio di avere l’occasione di conversare con l’Ecclesiaste, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano. Mi inchinerei profondamente di fronte a lui perché si tratta – almeno per me- di uno dei poeti più importanti. E poi gli prenderei la mano. “Nulla di nuovo sotto il sole” hai scritto Ecclesiaste. Però tu stesso sei nato nuovo sotto il sole. E il poema di cui sei l’autore è anch’esso nuovo sotto il sole, perché prima di Te non lo ha scritto nessuno. E nuovi sotto il sole sono tutti i tuoi lettori, perché quelli che sono vissuti prima di te, dopotutto, non hanno potuto leggerlo. Anche il cipresso alla cui ombra stavi seduto, non cresce qui dall’inizio del mondo. Gli ha dato inizio un qualche altro cipresso, simile al Tuo, ma non proprio lo stesso. E inoltre vorrei chiederti, o Ecclesiaste, che cosa intendi scrivere ora di nuovo sotto il sole? Qualcosa con cui contemplerai anche i Tuoi pensieri, o non sei forse tentato di smentirne qualcuno? Nel Tuo poema precedente hai intravisto la gioia, che importa seppure passeggera? Forse dunque è di essa che parlerà il Tuo nuovo poema sotto il sole? Hai già degli appunti, degli schizzi iniziali? Non credo che dirai ‘Ho scritto tutto, non ho nulla da aggiungere ’. Nessun poeta al mondo può dirlo. Figuriamoci un grande come di Te”.

 

Cosa chiede la Szimborska nel suo dialogo immaginario con Qoelet? La vita, amico, dove è la vita? Quando, amico, tutto è vita? A partire dal tempo del vento e del sole?

 

Di che cosa accusa la poetessa polacca il poeta biblico? Vanità che diviene presunzione; fatica che diviene non senso; sangue che scorre nelle vene di Qoelet, come i fiumi che lui canta vani nel loro scorrere ma che nei suoi muscoli portano la vita. Fino a finire. Allora finisce.

 

“Per questo – continua la Szimborska – apprezzo tanto due piccole paroline: ‘non so’. Piccole ma alate, parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto ‘non so’ le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come una grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta ‘non so’ sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe passato la sua vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva ‘non so’ e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca”.

 

L’animo inquieto. Qoelet invece dava corpo alla sua anima disillusa, dunque quieta. Magari di una quiete mortale, nihilista, esistenziale, dolorosa. Qoelet non sentiva la ex-citazione che caratterizza l’animo inquieto. Non chiamava e non si sentiva chiamato. Ma Qohelet siamo tutti noi quando non vogliamo o possiamo chiedere e chiamare. Anche se Qoelet come tutti noi è portatore di contraddizione quando scrive: “Mai l’occhio è sazio di vedere, / mai l’orecchio è sazio di sentire”. E’ la denuncia di una mancanza, di una insoddisfazione che chiede riempimento, è il suo affermare “non so”? La sazietà è morte in quanto chiusura della domanda, del desiderio. L’Ecclesiaste commette il suo lapsus freudiano nell’ambito che è più intimo all’uomo: la propria conoscenza. Ovvero il potere. Sapere è potere non è una scoperta dell’economia classica. La conoscenza sono gli infiniti Ulisse della letteratura mondiale, che siano stati chiamati con questo nome o con altri. Ognuno di noi porta come secondo o terzo nome “Ulisse”.

 

 

 

La domanda la si fa all’altro. Rivolgere domande a se stesso può portare a patologia. Alla domanda non sempre c’è risposta. Le soluzioni non ce le trasmette l’altro. Per l’uomo conta chiedere più che sentirsi rispondere: ne va del pensiero di amore per se stesso: nel senso di capax mundi e di soluzione. Pensiero di amore è iniziare, è “chi” inizia, come scrive Cacciari. Il soggetto che “inizia”, ovvero domanda, non può farlo se non attrezzato di “pensiero” e di “amore”: spinta e meta, direbbe Freud. Non esiste amore senza pensiero e viceversa. L’amore senza pensiero si chiama innamoramento. Ma è un’altra cosa.

 

Si domanda, ovvio, trattandosi di stato di mancanza, da nudi. Per domandare mi devo fare vedere. Solo l’altro mi vede. Io non mi posso vedere. Nemmeno allo specchio. Af-fidare allo sguardo dell’altro.

 

Adamo si nascose – scrive Martin Buber in Il cammino dell’uomoper non dover rendere conto, per sfuggire alle responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo nella situazione di Adamo. (…) L’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio (non possiamo vivere senza lo sguardo dell’altro perché noi “siamo” lo sguardo dell’altro) ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. (…) A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda (la domanda di “venire fuori”, si smettere di nascondersi all’altro).

 

Adamo sente la voce di Dio che lo chiama. Noi sentiamo la voce dell’altro che ci chiama a “farci” vedere “chi” siamo. Cioè nudi. “Sei quello che sei”. “… per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta prina di un cammino finchè egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: ‘Mi sono nascosto’. Qui inizia il cammino dell’uomo (…) il sempre nuovo del cammino umano”. Mentre Qoelet: niente di nuovo sotto il sole. E’ lo sguardo dell’altro che mi “dà” inizio. Che mi tira fuori la domanda per farmi vedere. Nudo.

 

Scrive Remo Bodei in Destini personali : “Percepiamo – direbbe Sartre – solo il nostro ‘sapore insipido’ che ci accompagna a ogni istante, in quanto ‘cogito prè-rèflexif‘ (tradotto dalla terminologia di Bertrand Russel: avvertiamo sempre con noi la discreta presenza di una ‘acquaintance’, di una persona conosciuta”. Si tratta di un contatto “esterno”, come notava già Cicerone, del nostro corpo con lo sguardo dell’altro, o più raffinatamente Heidegger in Essere e Tempo: “L’Esserci, in virtù del suo modo fondamentale di essere, è già sempre’fuori’, presso l’ente che incontra in un mondo già sempre scoperto”.

 

Se noi siamo “fuori”, questo fuori è il mondo della domanda che lo sguardo dell’altro ci mette in bocca.

 

E continua Bodei: “In termini mitici, ci sentiamo quali dovettero sertirsi, secondo la Bibbia, Adamo ed Eva dopo aver commesso il peccato originale: ‘Allora si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero di essere nudi’ (Genesi, 3,7). In termini filosofici, come quell’individuo descritto da Sartre mentre è interamente assorbito da quanto vede ed è improvvisamente costretto a prendere coscienza di sé dallo sguardo altrui”. E’ l’altro che mi fa. E se l’altro mi fa nudo (in quanto io mi af-fido), il bene reciproco è garantito. Magari sboccia anche l’amore. Il vento allora diventa un altro vento. Può diventare il vento della passione.

 

 

GUIDO SAVIO

 

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