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GUIDO SAVIO: SORRISO

SORRISO

 

 

 

QUANTO COSTA UN SORRISO?

 

Che cosa significa  “fare, avere il muso?”.

Si tratta, a mio modo di vedere, di un comportamento che noi vediamo con chiarezza nell’altro, m lolto meno spesso in noimeno spesso in noi stessi.

Punto primo.

Poi il “musone” è davvero colui che non ci sta, non partecipa, non vuole spartire, non vuole lo scambio, è apparentemente disinteressato al luogo e alle persone con cui sta. E questo “tipo”, lo sappiamo tutti, non ci piace, vorremmo che stesse da un’altra parte. Senza tante storie.

 

Molte volte mi sono chiesto: “ma quanto costerebbe (al “musone”) un sorriso per risolvere il tutto?” O anche per “mandare in vacca” la situazione e provare piacere assieme, godersela in santa pace la serata? Quanto costerebbe cambiare registro, essere con l’altro in pace appunto, partecipare (se vogliamo), oppure “dare soddisfazione” all’altro o agli altri con ci quali si sta passando il tempo?

 

Costa. Costa. Costa un sacco. Per il  ” musone”.

 

Costa che il “musone”  per poter sorridere dovrebbe pagare un dazio. Il dazio consisterebbe nell’ essere contento della contentezza altrui, o felice della felicità altrui, o partecipe del bene comune o del valore che in quella occasione si sta dividendo. Esperienze quasi impossibili per il superbo, il “so tutto io”, il pirgopolinice, il “superiore”, il ” finto timido”, il portatore di discordia, sia che taccia, sia che parli (quasi mai!).

 

Se in una piccola comunità che sta facendo festa, ad esempio una cena di compleanno, e quello “musone” fa da tappezzeria per fare notare se stesso è perché non sa avere piacere del piacere altrui, letteralmente “non ci sta”? Cosa vuol dire questo? Perchè lo fa? Io userei una parola unica e inequivocabile: Superbia. Stare fisso sulla parete.

 

Se l’amico mi racconta di un suo successo e io non gli faccio succedere niente…che senso avrebbe il mio stare con lui? Che senso avrebbe la mia amicizia con lui? Che senso avrebbero le nostre vite se io non spartisco con l’altro quello che ha/é lui e quello che ho/sono io?

 

Facile, facilissimo spartire ed essere presente al dolore altrui. Ma partecipare al piacere dell’altro, magari alla sua vittoria, garantisco, è assai, assai più difficile.

 

Perché? Con precisione non lo saprei, ma potrei fare due ipotesi.

 

Prima: la difficoltà di accettare che il piacere “me lo dai tu” ( versus invidia, amor proprio? superbia, pensiero di autosufficienza…?). Io racchiuderei il tutto nella parola (che è anche una diagnosi clinica) Superbia. Io penso che tutti i cosoddetti timidi e riservati “musoni”, in realtà, siano degli aggressivi e degli avari (nel dare piacere all’altro). Non credo di sbagliarmi.

 

Seconda: la stitichezza e il braccino corto che significano per il “musone” che se io do…di un po’ di mio resto poi senza senza. Una perdita insomma. L’avarizia.

Per inciso. Ho letto poco tempo fa che il cosiddetto “braccino corto” non è il braccio appunto corto che fa fatica a raggiungerre il portafoglio, quanto una pratica medievale in cui il braccio era una unità di misura delle stoffe, e tutti i mercanti Centronord italiani ed europei si fornivano a bottega di ragazzini (appunto dal braccino corto) per misurare le stoffe. Bah! Non mi convince tanto, comunque ho riportato questo inciso.

Ma il senso che mi interessa è che lo stitico “musone” non dà soddisfazione all’altro perchè ha sempre paura di perdere. Lui pensa che se dà all’altro una parte di sè viene meno, e non è più rifondibile, recuperabile.

Eloisa, con il suo Abelardo, era invece una maestra  del “sorriso”. Sapeva godere del godere (anche se era una semplice presenza spirituale) dell’altro. Proprio del tipo si tu vales, ego valeo.

 

Eloisa, nelle sue Lettere ad Abelardo, dal Convento di Ferreux-Quiencey (di cui era diventata badessa) scrive: “Il mio piacere è il tuo piacere”. Ed Eloisa sapeva di cosa parlava, di cosa scriveva, perché davvero il suo amore, anche carnale, soprattutto carnale, con Abelardo era consistito in questo. “Ho piacere del tuo piacere e il tuo piacere è il mio piacere, e il mio piacere viene da te”. Dall’esterno, non lo produco io.

 

Ad Abelardo lei non ha mai portato il suo “muso” (anche se se lo meritava),  ma la apertura completa alla passione e al trasporto.

Sì, credo che ciò di cui sto parlando sia “trasporto”. Il sorriso stesso è trasporto, ovvero: sono capace di passare da una condizione di eventuale inibizione, al dare all’altro il motivo della sua stessa esistenza, ovvero che qualcuno (io, in questo caso) abbia piacere del suo piacere. Noi viviamo se qualcuno ci pensa, altrimenti non siamo nessuno.

 

Ad Abelardo Eloisa porta la propria ricchezza e il proprio coraggio: quello di non avere paura di perdere l’altro (e se ripercorriamo i dati storici lo notiamo benissimo).

 

Eloisa ha il coraggio di aspettare con un sorriso, anche quando tutta Parigi la guarda di sbieco.

 

“Io ti aspettavo”, scrive infatti in una delle sue lettere più accese, confessandogli  che il desiderio sessuale per Abelardo, adesso che era in convento, la prendeva proprio nel momento della preghiera.

 

Una donna invece, forse il contrario di Eloisa, che poco sorrideva, per non dire quasi mai, era Isotta, massima esponente femminile del ciclo Arturiano. Il “fare il muso” era il tratto che maggiormente le si addiceva (leggi Tristam und Isolde).

 

Isotta non tanto amava Tristano, ma amava se stessa “amante” Tristano. Quello che comunemente si dice “amore dell’amore” (non di un’altra persona reale).

 

Amo me stessa che amo. Questo potrebbe essere il moto di Isotta, che poi è facilmente declinabile, soprattutto nella vita di coppia di noi esseri normali: “Guarda, ti insegno io ad amare perché tu sai amare meno di me”.

 

E a questo punto allora la frittata è già fatta!

 

Isotta non concepiva che il valore come amore è uno scambio.

 

Come scrive Roland Barthes nello strafamoso Frammenti di un discorso amoroso:

“Malgrado le difficoltà della mia vicenda, malgrado i dubbi, le angosce, malgrado il desiderio di uscirne fuori, dentro di me non smetto di affermare l’amore come un valore”. Eh già, valore. Scambio.

 

Si tu vales, ego valeo.

 

Mi viene in mente un famoso disegno di Escher in cui una mano disegna l’altra mentre la disegna. Andava di moda negli anni 70. Se una mano non faceva la sua funzione l’altra mano non esisteva, e viceversa.

Questo è il valore, il sorridere alla reciprocità del piacere e della realizzazione dell’amore stesso. Poi, sappiamo, la cose vanno come vanno, ma a noi pensatori nulla vieta di pensare in grande. La faceva Eloisa, lo taceva Isotta

 

Si. Quel disegno di Escher mi ha sempre fatto venire in mente una frase che pronunciava il mio maestro Giacomo Contri, da poco passato a miglior vita: “Amare è dare all’altro una occasione di avere una occasione”. Io aggiungerei…per sorridere, almeno un po’.

 

 

GUIDO SAVIO

 

 

 

 

 

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