LA SODDISFAZIONE BISOGNA PENSARLA (BENE)
Tante domande sembrano pleonastiche. Oppure senza risposta. Oppure perfino infantili o banali.
Per esempio: “sono soddisfatto di me e della mia vita?”.
Sono sicuro che tutti noi ci facciamo domande del genere, e molte altre sulla nostra soddisfazione.
“Non occorre possedere un’anima molto elevata per comprendere che quaggiù non vi sono punto soddisfazioni veritiere e solide; che tutti i nostri piaceri non sono che vanità, che i nostri mali sono infiniti e che la morte infine, che ci minaccia in ogni istante, ci metterà infallibilmente entro pochi anni nell’orribile necessità di essere eternamente o annichiliti o infelici”.
E questa è una risposta alla domanda.
E’ questo un brano tratto dai Pensieri di Blaise Pascal che ho scelto per fare alcune riflessioni. Il passo interessa non tanto per la sua crudezza e anche per la sua “veridicità”, bensì soprattutto perché tratta la questione che maggiormente dovrebbe interessare ogni individuo, ovvero il rapporto tra la soddisfazione e la sua stessa finitezza, e la sua stessa “vanità”, come la definisce il filosofo francese. Ma ancora di più, come si vedrà alla fine, la questione di come possa avvenire la soddisfazione tra due soggetti. Due che stanno tra di loro sotto qualsiasi tetto o cielo.
La soddisfazione è la nostra massima questione (perche è strettamente legata alla salute, nel senso che se una persona è relativamente soddisfatta della propria vita si ammala meno dell’insoddisfatto cronico).
Più avanti lo stesso Pascal, parlando del senso della nostra vita su questo mondo afferma che “mi trovo incatenato a un angolo di questa infinita distesa”.
L’uomo allora vive la propria vita da incatenato, come Prometeo? Incatenato tra il suo desiderio di soddisfazione e la mancanza di stabilità della soddisfazione stessa? O “arrischiato nel mondo” come sosteneva Heidegger? Non saprei.
So solo che la soddisfazione non è esposta come merce sui banchi del supermercato. E’ un pensiero che noi elaboriamo e attiviamo in base a quello che facciamo e a come viviamo. Non esiste un “già pronto” nella soddisfazione. Esiste un “tutto da fare”,
Mi pare, in altre parole, che ci sia bisogno di un collante tra le soddisfazioni che la vita ci riserva, e che noi raggiungiamo nella vita attraverso il pensarci soprattutto sodisfatti, non solo sofferenti. Realtà e pensiero di soddisfazione, in qualche modo, si devono sposare.
Sembra tuttavia che noi facciamo fatica a vedere nel tempo la soddisfazione, come se avessimo tra la mani un sapone o un pesce che ci sfugge, proprio perché vorremmo che essa “durasse” come esperienza e anche come pensiero.
La soddisfazione sta invece in uno Spazio/Tempo che io intenderei come “certezza della vincita e certezza della perdita”. Apparentemente sembra uno Spazio/Tempo incongruente, concettualmente un “non luogo”, ma in effetti, a ben vedere, è proprio in questo ambito che la soddisfazione è tangibile.
La soddisfazione è, a mio modo di vedere, il massimo della contraddizione, non tanto perché è vivibile e nello stesso tempo perdibile, ma in quanto di essa noi facciamo fatica a dare una “definizione”. Definire la soddisfazione sembra essere il compito massimo della nostra esistenza. E un compito “prometeutico”: cioè non ci si arriverà mai.
Insomma, per dirla in breve, gli attimi di soddisfazione della nostra vita sono dati dal nostro “pensiero di viverla”, e non dalla sostanza che apparentemente ce la offre.
Leggo un libro, guardo un film, pranzo con piacere, sto bene assieme ad un’altra persona, etc. tutto ciò non serve perché io possa dire che sto provando soddisfazione. La realtà non mi offre la soddisfazione su di un piatto. E’ necessario che io esprima un Giudizio sulla bontà del piatto che sto assaggiando, e questo giudizio travalica tutti i dati oggettivi, pur partendo da essi.
Pascal afferma che “Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose”. E questa riflessione può esserci di aiuto nell’intendere il Giudizio: esso è come uno specchio che si volge verso di noi e pone la soddisfazione nel percorso, nel viaggio, nel tentativo, nella ricerca delle cose (leggasi oggetto).
E’ un passaggio importante questo perché pone l’indice sul reale moto che sta alla base della soddisfazione: che uno si guardi, che uno si osservi e anche che uno si ami nel momento in cui vive una certa esperienza, ecco che proprio per questa sarà soddisfazione.
Allora la definizione di soddisfazione diviene il Giudizio (osservazione di se stessi) che uno dà nel momento in cui prova una certa esperienza. La definizione di soddisfazione non sta fuori ma sta dentro all’individuo e proprio per questo lo nobilita. La nobiltà dell’uomo e la sua differenza dagli altri animali sta nel fatto che egli “sa dire se stesso” (ovvero si definisce) nel momento in cui prova una determinata esperienza, che proprio per questo diviene soddisfazione. “”L’uomo infatti – afferma ancora Pascal – fa da solo una conversazione interiore che è molto importante regolare bene”.
E’ questo lo specchio (non narcisistico) che fa dell’uomo un soggetto pensante “bene” a se stesso (dunque anche dentro la propria solitudine): l’uomo fa i conti con se stesso e solo con se stesso quando esprime Giudizio. Può essere “influenzato” dal pensiero o dal giudizio dell’altro. Ma sancire la propria soddisfazione (se il libro è bello, se il film è piacevole, se la persona con cui sta è amabile, etc.) è il soggetto e solo il soggetto che in tutti i sensi si assume la responsabilità per il suo atto (dirsi e sentirsi soddisfatto). Non a caso la vita soddisfacente è composta da atti e non da esperienze.
Ma questa soddisfazione, come affermava Pascal all’inizio, non è né veritiera né solida. E qui non possiamo che essere d’accordo con il filosofo. Ma proprio perché nemmeno il soggetto è veritiero e solido, proprio perché noi siamo contraddittori che in qualche modo possiamo provare soddisfazione. Perché la leghiamo al nostro giudizio che non può essere un Giudizio Universale ma è un giudizio soggettivo, che vive di vita breve, ma che è frutto della attività pensante del soggetto. E noi siamo il nostro pensiero, noi siamo la capacità di trasformarlo in giudizio, cioè atto che afferma che una certa esperienza è soddisfazione oppure no. L’uomo è mancante e soprattutto contradditorio.
Il problema dell’uomo è che non si accontenta di vivere la propria vita, ma vorrebbe vivere anche una vita immaginaria, o la vita degli altri: questo ci allontana dalla soddisfazione perché ci allontana dal giudizio. Da nessun paragone ne esce una soddisfazione, proprio perché la regola del giudizio del soggetto su se stesso viene rimossa o trasgredita. Non è guardando l’altro che io mi faccio un pensiero sulle mie capacità, ma è “chiudendomi” in me stesso che io posso capire il mio limite e dunque il capo reale dove io posso sperimentare la soddisfazione. E questo chiudermi in me stesso sarà poi l’atto che mi apre all’altro. Realmente. Nell’atto dell’amore.
E qui avviene il passaggio: dopo la chiusura in me stesso che mi permette il giudizio di soddisfazione (che è pur sempre un atto di amore per se stessi), io posso amare l’altro. Si tratta di un primo e di un secondo tempo, come nei film.
L’altro è amabile in quanto io sono un portatore nei suoi confronti di un mio giudizio di soddisfazione. L’altro io lo posso amare solo nel momento in cui sono capace di formulare un giudizio di soddisfazione che proviene da un mio lavoro privato. Privato proprio perché ha a che fare con l’amore che io nutro per me stesso. Si potrebbe quasi dire che amare se stessi ha a che fare con la capacità di esprimere giudizio sui propri atti, ha a che fare con la indipendenza della propria scelta, ha a che fare con l’accento che io saprò porre sul riflesso che il mio pensiero ha in me.
“La nostra natura è nel movimento – scrive Pascal – il riposo totale è la morte”. Il movimento è l’amore stesso, l’atto che avvicina due persone e ne costituisce una regola, una legge comune, una comunione. La soddisfazione avviene nella comunione di due soggetti che sono competenti sulla loro capacità di amare.
E non potrebbe che essere così: il movimento è l’atto di giudizio attraverso il quale noi chiamiamo l’altro alla spartizione, alla comunione. Ma, ripeto, non senza prima avere lavorato dentro alla nostra individualità come atto di fortificazione, sia per noi stessi sia per l’altro che diverrà l’altro del nostro amore.
Certo che la morte ci minaccia in ogni istante, e la sua massima prerogativa è la necessità. Ma anche la massima prerogativa del soggetto è il percorso della soddisfazione, cioè della vita. L’atto del giudizio in merito alla soddisfazione come offerta o come dono da portare all’altro dell’amore. E’ qui, se si vuole la contraddizione: l’incontro tra due necessità: quella della vita e quella della morte. Perché la necessità della vita è vivere, e la vita non può che essere soddisfazione del soggetto e del soggetto con l’altro.
Pascal scrive ancora (ed io concludo le mie piccole riflessioni): “Come è difficile sottoporre una cosa al giudizio di un altro, senza influenzare il suo giudizio con il modo stesso di sottoporgliela”.
Ma qui non stiamo nella regola dell’amore se io penso che il mio giudizio possa determinare (influenzare) l’altro. In amore invece io devo essere sorretto dal pensiero che l’altro è “libero” di fronte al mio giudizio: ovvero che il mio giudizio è frutto del mio pensiero per arrivare alla soddisfazione, che diventerà reciproca proprio in virtù di questa libertà.
GUIDO SAVIO