INVIDIA
LA LOGICA DELL’INVIDIA
Anzitutto letteralmente che cosa si intende per invidia? Nella nostra lingua il significato del termine comunemente riposa nel rammarico e nel risentimento che si prova “guardando di sbieco” (dal latino “invidere”), per la felicità, il benessere, il successo altrui, sia che ci si consideri ingiustamente esclusi (“Perché io no?”) da tali beni, sia che, già possedendoli, se ne pretenda il godimento esclusivo. L’affetto dell’invidia non è un proprio desiderio da realizzare, quanto piuttosto che gli altri non lo realizzino, ovvero togliere all’altro qualcosa di pregiato che “possiede”. E’ questo peccato la dichiarazione di morte del valore della alterità.
Tuttavia non trascuriamo il sentimento di odio che è “humus” di tutto ciò.
Questo odio è determinato proprio dal senso di ingiustizia che l’invidioso prova e di impotenza a trascenderla.
Molto spesso l’invidia non è rivolta alle “cose” (anche non materiali) che l’altro possiede, ma al “potere” dell’altro di averle. L’invidia verso la potenza (produttiva, di amare, di provare piacere. Di vivere bene, etc.) che l’altro possiede. Come se l’altro avesse una infinità di frecce al proprio arco e l’invidioso nemmeno una. Si invidia l’essere e non l’avere. L’essere che si riferisce alla capacità di provare esperienze (si pensi alla tanto famosa invidia di Salieri per Mozart). Salieri è egoista proprio perché ..brama fuori dalla misura della sua capacità di essere chi è, capace della musica che sa scrivere. Brama è incontinenza. L’”eris” della grecità.
Il superamento dell’egoismo sarebbe la guarigione e l’annientamento della processualità invidiosa, che invece l’invidioso tende a legittimare come “giusta” (vedi Salieri) la propria brama.
“L’invidia, ci dice B. Russel – è una forma di vizio, in parte morale e in parte intellettuale, che consiste nel non vedere mai le cose in se stesse, ma soltanto in rapporto ad altre”. Il confronto, in altre parole. Il confronto invidioso invece è il campo di battaglia contro l’altro e anche contro se stessi.
Salvo che non si tratti invece, anziché di invidia, della sua progressione o guarigione, cioè la “ammirazione” che mi spinge a lavorare e a dare fondo alle mie risorse per raggiungere veramente quello che l’altro ha o è e io non ho e non sono. Allora non è più campo di battaglia ma campo di crescita.
Proprio secondo H. Schoeck l’invidia nasce dalla disuguaglianza che emergerebbe dal confronto; su questa tesi, che si trova per certi versi in alcune posizioni di Freud, egli fa l’esempio delle società primitive, nelle quali si viveva nel terrore dell’emergere di qualcuno e nello stesso terrore che a emergere sugli altri sia il proprio Io. Insomma l’invidioso non vuole fare giustizia ma solo fortuna, non vuole uguaglianza ma solo privilegio per se stesso, sulla scia della vecchia eris della mitologia greca. E l’invidioso vuole operare e combattere proprio attraverso un “lavoro” sia “ad personam”, ma anche generalizzato rivolto contro l’altro che può assumere caratteristiche universali, in parole povere, l’uomo sereno della strada (“Io ce l’ho con il mondo intero”). L’invidia a questo punto può essere paragonata ad una paura vera e propria: “si invidia qualcosa o qualcuno – scrive H. Schoeck – come si teme qualcosa o qualcuno”. Abbiamo visto nella clinica che l’invidia ha sempre un oggetto preciso, non può sorgere, se manca un bersaglio, una vittima.
E diventa ancora più chiaro l’odio viscerale che sottende l’invidia, cioè il piacere di arrecare danno, senza che chi compie l’azione ne ricavi alcun vantaggio (e qui ancora la antieconomicità dell’invidia e il “non piacere” dell’invidioso).
Lo psichiatra I.D. Suttie insiste nel dire che la gelosia sessuale va considerata, anche se camuffata, se non addirittura a volte rimossa, la sorgente principale dell’invidia, anche se questo vizio ne risulta compresso. Il tema è chiaro: l’invidia è sinonimo di conflitto, conflitto rivolto in particolar modo agli oggetti viciniori. In altre parole non si invidia il miliardario con le case al mare e/o in montagna ma la classica erba del vicino di casa che è sempre più verde della propria.
Una giovane donna in analisi da pochi mesi, nel corso di una seduta ha questa affermazione: “Quando vedo mio marito che torna (dice lui) stanco dal lavoro, lo fulminerei con gli occhi”. Qui l’invidia della donna (casalinga) per il marito che “ fa pesare” la sua posizione contrattuale ed economica verso la moglie (motivo della sua domanda di analisi) assume una veste chiaramente conflittuale e aggressiva. Poi, fulminare con gli occhi, è una prerogativa solo di certi Dei!
Se lo psichiatra Suttie pone la questione dell’invidia sul piano sessuale, il filosofo G. Simmel ne vede l’origine nella situazione, potremmo dire noi, edipica, cioè nella invidia per il padre, reale o fantasmatico, di fronte al quale il soggetto invidioso si sentirebbe perennemente impotente (quella che in Freud è intesa come complesso di castrazione).
Simmel crea poi una interessante distinzione tra gelosia e invidia. “Nella sua direzione e nelle sue sfumature più profonde – scrive – la gelosia si distingue appunto per il fatto che il ‘possesso’ ci è negato perché si trova nelle mani dell’altro, nonché per il fatto che se questi ne venisse privato, toccherebbe immediatamente a noi; mentre l’animo dell’invidioso è attratto piuttosto dal possesso, quello del geloso guarda al possessore. Si può essere invidiosi della fama di qualcuno, pur non avendo la minima pretesa alla fama; si è invece gelosi della fama di un altro quando si pensa di meritarla alla pari e più dell’altro (si vede come torna la questione della ‘ingiustizia subita’).
L’amarezza e il cruccio del geloso poggiano su una certa finzione, ingiustificata, anzi insensata, secondo la quale l’altro gli avrebbe sottratto la fama”.
Sempre di mancanza e di impotenza di tratta , sia nel geloso che nell’invidioso, che tentano di integrare la mancanza con loro private creazioni e pensieri fantasmatici, fantasiosi di raggiungimento dell’oggetto invidiato. Ma c’è di più: l’invidioso può essere disposto anche a danneggiare se stesso – o almeno a sottoporsi a spese e costi inutili – pur di arrecare molestia alla persona invidiata (se vogliamo il moderno stalker).
Perché, soprattutto a livello di società, di gruppo, l’invidioso è inevitabilmente un guastafeste, un potenziale sabotatore e sedizioso, un incontentabile perché aspira ad una utopia che poi diventa follia: vuole che tutti gli individui siano almeno “uguali”, condizione che è proprio il contrario della giustizia retributiva che invece regge sia la salute del soggetto sia quella della società.
Come afferma M.P. Nilsson: “Se uno si appropria di più di quanto gli spetta, deve sopportarne le conseguenze”. Ora il buon ordine è un elemento essenziale del concetto che presso gli antichi greci passava sotto il termine di ‘moira”. Che tradotta alla lettera significa appunto “parte, “quota”, “porzione”. Cioè sapersi accontentare.
A proposito di guastafeste invidioso (per me perverso militante) una signora che viene da me da parecchi anni, lei vaccinata, il marito no-vax mi racconta questa amena scenetta conviviale. Quattro persone a cena. Il marito cerca sempre di portare la discussione sul fatto che lui ne sa più degli altri perché legge, si documenta, etc. Sappiamo, solita storia dei no-vax. Al culmine della discussione grida al suo commensale, ovviamente di parere (e esperienza opposta): “Guarda che noi abbiamo medici anche migliori di te”. Per inciso, il medico “attaccato” è un chirurgo pneumotoracico ora in pensione e che ha lavorato da Primario nella nostra vicina Università per quarant’anni. Ovviamente la cena è finità lì. Il guastafeste invidioso.
Chiaro che sotto la questione di vax e no-vax esiste una invidia sterminata di un uomo per l’altro.
Sempre presso gli antichi greci, l’antica concezione di una potenza divina malevola che impersona il principio dell’invidia ricorre molto spesso in collegamento con la parola “nemesis”. In Omero questo termine significa soltanto ‘sdegno, riprovazione per ciò che è sconveniente’. Soltanto molto più tardi compare una dea Nemesis, che viene considerata tutrice della giusta misura (nessuno deve avere troppo o troppo poco) e nel contempo nemica dichiarata della troppa fortuna.
Sempre Nilsson riscontra già in Erodoto la contrapposizione tra una ‘hybris’ dell’uomo e una ‘nemesis’ degli dei provocata dalla eccessiva intraprendenza degli uomini.
Omero individua invece il soggetto che si è appropriato di porzioni superiori a quello che gli era stato assegnato (e diventa l’oggetto dell’invidia dell’altro). Mi verrebbe da dire che, ai giorni nostri, si parlerebbe dei “soliti furbetti”.
Ricordiamo tuttavia per inciso come nella antica Atene l’invidia fosse un vizio alquanto diffuso, mitigato soltanto da un certo fatalismo che, da una parte affermava la forza del destino individuale di ogni singolo( ciò che deve avvenire avviene comunque); dall’altra la accettazione di una certa passività e senso di colpa ontologico per cui esistevano, (ed esistono tutt’ora) individui che cercano continuamente di scusarsi di essere al mondo, quasi per proteggersi dalla invidia altrui. Quello che nella clinica si chiama “senso di colpa ontologico”. Alcune persone vivono disagio e paura e temono l’invidia degli altri, solo per il semplice fatto di essere vivi. Qui tuttavia siamo già al confine, siamo su patologie borderline.
Sta di fatto però, alla fine della fiera, l’invidia ha come risultato pratico la impossibilità dell’individuo di darsi all’altro.
«Perché lui si e io no?» è dunque l’interrogativo che accende l’invidia. Non c’è livellamento tra gli uomini. Ci potrà mai essere?
Nietzsche, ad esempio, lo suggerisce. A suo parere il livellamento tra gli esseri umani può favorire «quell’inclinazione che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l’invidia» (Umano, troppo umano).
Ho notato però leggendo varie cose su questo argomento che c’è una generale concordia nella severità di giudizio sull’invidia. La bella sintesi di Elena Pulcini, nel volume Invidia. La passione triste, che spazia dalla cultura greca sino ai nostri giorni, può riassumersi nell’affermazione dello scrittore statunitense Joseph Epstein che considera l’invidia «il più insidioso dei vizi capitali».
E, potremmo aggiungere, anche il più meschino, tanto che nessuno se ne vanta come fa rilevare il duca Francois La Rochefoucauld: «Molti sono disposti a esibire i propri vizi, ma nessuno oserebbe vantarsi della propria invidia».
L’invidia resta segreta e triste (porterò in merito un sogno di un paziente più avanti). Ed anche dolorosa, perché è un vero e proprio auto avvelenamento dell’anima: non solo non riesce a sopportare il bene dell’altro, ma trova soddisfazione solo nella disgrazia dell’altro.
Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, la raffigura come una vecchia dalle mani rapaci, avvolta dal tormento di un fuoco che ne brucia le vesti e con un serpente che esce dalla sua bocca e gli si rivolta contro iniettandole negli occhi il veleno mortale.
Diceva bene Hannah Arendt: l’invidia «è il peggior vizio dell’umanità» (L’umanità nei tempi oscuri).
L’invidia, sostanzialmente non è “io vorrei essere alla tua altezza” ma “vorrei che tu fossi alla mia bassezza”. E’ questa la sostanza intima e infima del vizio.
Insomma, nella invidia si tira sempre l’altro giù per la giacchetta!
Ecco allora l’amor sui come la molla che la fa scattare, che porta a guardare malevolmente gli altri, soprattutto il loro progresso. E il cuore trova complice l’occhio che porta a stabilire il confronto con l’altro.
Dante pone nell’occhio malevolo il centro dell’invidia. Nel canto XIII del Purgatorio impone agli invidiosi un singolare castigo: a loro vengono cuciti gli occhi con il fil di ferro: «E come alli orbi non approda il sole, / così all’ombre quivi, ond’io parlo ora / luce del ciel di se largir non vole; / ch’a tutti un fil di ferro i cigli fora / e cuce sì, come a sparvier selvaggio / si fa però che questo non dimora».
E’ una punizione molto dura; si potrebbe dire: nulla da “invidiare” alle pene dell’inferno! Certo, il Poeta voleva sottolineare la malvagità di questa passione che si rivolta anzitutto contro se stessi, appunto, non riuscire a godere per il bene degli altri per gioire solo della loro rovina.
Ma come l’invidia s’insedia nel cuore degli uomini?
Innumerevoli analisi sono state fatte nel corso dei secoli per scandagliare l’animo umano e cogliere la ragioni di questa passione viziosa.
Quella che tuttavia mi pare la più profonda è indicata, a mio modo di vedere, nelle Scritture ebraico-cristiane. E potremmo dire che tutto inizia con Lucifero, l’angelo “portatore di luce” che dopo essersi ribellato a Dio, volendo essere simile a Lui, è stato scaraventato negli inferi, ossia in una condizione di definitiva e incolmabile separazione da Dio.
Nella seconda Lettera di Pietro, a proposito di questi angeli ribelli, si scrive: «Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio» (2,4). Lucifero, imprigionato in questa lontananza infernale, non tollera però coloro che sono in comunione con Dio, non sopporta il conversare sereno di Adamo ed Eva con Dio. Ne prova profonda invidia.
E decide di rovinarli iniettando nel loro cuore quello stesso veleno dell’orgoglio: se mangiano il frutto dell’albero della vita saranno come Dio. I due si lasciano tentare. E accettano il consiglio. Le conseguenze sono drammatiche: scardinano l’armonia con Dio e quella tra loro e con il creato. È il primo peccato, quello “originale”, prototipo di ogni peccato. Il Libro della Sapienza commenta: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (2,23-24). È a causa dell’invidia di Lucifero che il male e la morte fanno il loro ingresso nel mondo.
La successiva vicenda umana si snoda nel continuo confronto tra l’hybris luciferina che spinge l’uomo sino al cielo e la realtà della debolezza della creatura. La colpa originaria segna la storia umana. Alcuni racconti biblici sono emblematici. L’invidia, potremmo dire, dopo aver preso possesso dell’animo umano, si mette subito all’opera.
Ed ecco Caino che prova invidia per Abele, suo fratello, sino ad ucciderlo. Nella sua forza archetipica, il peccato di Caino è denso di implicazioni simboliche. Egli non era cattivo, ma l’invidia verso il fratello lo acceca. Caino non sopporta che Dio ami Abele in maniera particolare. Abele non era migliore di Caino, ma più debole (abel significa soffio, debolezza), per questo Dio gli era più vicino. Caino è accecato dall’invidia e giunge sino al fratricidio. L’invidia danneggia chi ne è posseduto e colui verso il quale si dirige.
Un giovane quarantenne, in analisi da qualche anno, porta i seduta il seguente sogno:
“Sono rinchiuso in un carcere, mi pare della antica Roma. Mi vengono in mente i Mamertini. Probabilmente io sono un gladiatore e aspetto di entrare nell’arena. Ora nel sogno si inserisce un altro pezzo dove io vedo una ragnatela tra lo specchietto retrovisore e la portiera della mia auto. Io sono confuso. Penso che nell’arena ci sarà l’altro, o altri gladiatori con la rete, pronti a prendermi. Apro immediatamente la portiera della mia auto e la ragnatela si spezza. Mi sveglio affannato e pieno di angoscia”.
Chiedo a questo signore di dire qualcosa sul sogno e lui mi risponde lapidario: “Mi sembrava di essere chiuso dentro una segreta e che tutti gli altri fuori facessero festa, e io non riuscivo ad uscire. Volevo ma non potevo. Mi sentivo molto triste e mi veniva da piangere”.
L’invidia non sente ragioni e “ letteralmente mette in croce” chi ne cade vittima. L’invidia, infatti, disgrega la convivenza pacifica e uccide l’altro nei suoi valori di cui pure vorrebbe appropriarsi. Essa può nutrirsi solo della distruzione dell’altro e può unire in maniera perversa, come avvenne appunto sotto la croce.
L’invidia è sempre presente negli elenchi dei vizi da cui Paolo nelle sue Lettere mette ripetutamente in guardia i fratelli, per scongiurarne divisioni e rivalità e proteggere quindi la concordia che è il fondamento stesso della vita della comunità cristiana.
Se è vero che tutti i vizi capitali sono anche “sociali”, ossia hanno un riflesso sulla vita associata, l’invidia, a mio modo di vedere, vanta il primato negativo per lo sgretolamento e la dissoluzione dei rapporti umani. Essa infatti alimenta quel clima di reciproca diffidenza che sfocia nel proliferare di lotte e conflitti tra individui e fazioni, e mina alla radice ogni sentimento di solidarietà.
Tutto ciò è rilevabile in ogni epoca della storia, ma in questo tempo, ossia in un contesto sociale ove l’individualismo sembra approfondirsi e allargarsi, l’invidia pone un’accelerazione pericolosissima allo sgretolamento della società. Gli uomini e le donne sono certamente oggi più libere ma tutti comunque più soli. L’io sta soppiantando sempre più il noi. In tale contesto il confronto diventa più facile, ma anche più lacerante e più frustrante. Insomma, l’invidia, oggi, è una passione che ha la strada in discesa. E forse proprio per questo è ancora più triste. Qualcuno, non a caso, parla dei nostri tempi come de “L’epoca delle passioni tristi”.
INVIDIA: IL VIZIO CHE NON DA’ PIACERE
Prima di tutto, l’invidia è una passione che si condensa nello sguardo. Invidia: da in-video, vedere contro, guardare con ostilità. Un’aberrazione dello sguardo; uno sguardo cattivo e dissimulato caratterizza la persona invidiosa.
Che l’invidia è un vizio, da condannare, correggere, estirpare se possibile? Oppure bisogna considerarla una caratteristica naturale dell’uomo, una passione (una sofferenza) che esiste nell’uomo per il suo essere limitato, ma capace di vedere, e di desiderare, oltre i propri limiti; una passione che si piega in forma negativa, degenera in malattia, per il confronto con gli altri e per la consapevolezza di ciò che quei limiti impediscono di fare e di essere? Che cosa nasconde questa passione? Come si nasconde, ed infine, come ci si può svincolare da questo “unico vizio che non dà piacere” (U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi).Un primo testo fondamentale si trova ne Le opere e i giorni, di Esiodo (VII sec. a. C.). Nel testo la parola “invidia”, phtònos, compare solo in una posizione secondaria. Si parla invece di èris, contesa: Sulla terra non v’era un sol genere di Contesa, bensì due ve ne sono: e mentre una è lodata da chi ben la conosce, l’altra è riprovevole: hanno infatti indole diversa. L’una, la trista, favorisce la guerra luttuosa e la discordia(v.11 e segg.). La è riprovevole non è l’invidia ma qualcosa di più ampio: la contesa che genera incomprensione, inimicizia, la guerra con i sui lutti. L’invidia –come noi la intenderemo –è solo una delle forme assunte da questa cattiva èris.
Di contro l’emulazione (che io vedo come comportamento non nettamente ma sufficientemente virtuoso). Esiodo la colloca all’origine della laboriosità, dell’ambizione, degli sforzi che gli uomini compiono per migliorarsi, per ascendere nella ricchezza, nella reputazione. Notiamo ancora che l’emulazione e l’invidia sussistono tra chi è di condizione simile: “Il vasaio gareggia col vasaio”, aggiunge Esiodo.
Se i vizi si chiamano vizi, si presuppone che in qualche modo chi ne pratica uno (almeno) ne provi piacere. Mi è capitato di constatare che quello dell’invidia, tra tutti i vizi, è il meno foriero di gaudio. Proprio perché si consuma in segreto e nella costrizione (la ragnatela). Nessuno infatti ammetterà mai di essere invidioso. Il goloso magari sì, o anche lussurioso, difficilmente il superbo, l’avaro dal braccetto corto magari si lascia scappare qualche ammissione, etc. L’invidioso cova al buio e basta. E non partorirà mai.
Un giovane appena diplomato e che già lavora in una fabbrica del territorio come informatico, all’inizio della terapia insisteva, quasi in maniera compulsiva e a tratti anche persecutoria sul suo voto di maturità, lamentando che altri suoi compagni, meno meritevoli di lui, “avevano preso di più”.
Sta di fatto che lui ha avuto un posto di lavoro quasi appena diplomato, altri suoi compagni più “medagliati” invece stavano ancora tentando di inserirsi nel mondo del lavoro.
Alla mia considerazione che poi, alla fine della fiera, lui poteva sentirsi fortunato, mi rispose: “Si ma la macchia resta sempre”.
Ogni commento è superfluo: l’invidia si annida nella tristezza e a volte bella cecità verso la realtà dei fatti.
CI SI METTE IL DIAVOLO…
Ora è abbastanza facile dedurre che la ammirazione e anche, se si vuole, una certa forma di emulazione (come abbiamo visto in precedenza), sono staccate dall’invidia, perché per l’appunto permettono di produrre. L’invidia invece è sempre una continua retrocessione nella serie inferiore. O come restare bocciati a scuola.
L’esperienza greca delle vicende umane ha poi generato il motivo dell’invidia degli dei che interviene quando l’orgoglio per le proprie capacità o per la propria fortuna produce nell’uomo un accecamento (àte) che gli fa dimenticare i suoi limiti, e allora la bravura, il successo, diventano superbia, temeraria sfida agli dei, tanto da meritare la loro punizione.
Sono storie crudeli quelle che il mito greco ci racconta, come quella di Aracne, che volle competere nella tessitura con la dea Atena e, per punizione fu trasformata in ragno (vedi il sogno delle ragnatele); o quella di Niobe, che si vantò con la dea Leto dei suoi dodici figli (la dea ne aveva solo due) e subì la terribile punizione di vederli morire trafitti dalle frecce di Apollo e Artemide –i figli di Leto –e di essere poi trasformata in roccia. Dante ricorderà le tragiche storie di Aracne (Aragne) e Niobe nel canto XII del Purgatorio come esempi di superbia punita. Ma la invidia e la superbia, lo sappiamo, vanno spesso a braccetto.
Si può ancora ritrovare nella Bibbia una originale dislocazione del tema dell’invidia degli dei. È nota a tutti la storia di Giobbe, il giusto colpito dalle sventure, che accetta la volontà di Dio, ma continua anche ad interrogarlo sul perché tanti mali lo strazino senza sua colpa (vedremo più avanti la questione della invidia come “ingiustizia subita”).
Nel prologo del libro, il Signore è rappresentato come un re che dà udienza ai suoi ministri. Tra questi Satana (in ebraico, l’accusatore) mette in dubbio i motivi della rettitudine di Giobbe ed insinua che il pio ebreo smetterebbe di rendere grazie a Dio se fosse colpito nei suoi beni, negli affetti, nella salute. Dio concede a Satana di mettere Giobbe alla prova.
La risposta di Giobbe alla serie di sofferenze che lo toccano sempre più intimamente sarà: “Il Signore ha dato e il Signore ha tolto. Sia benedetta la volontà del Signore”. (Gb, 1,21).
L’invidia, che nella concezione monoteistica non può essere attribuita a Dio, viene „spostata‟ in Satana; egli è invidioso della felicità degli uomini, vuole infrangere la loro armonia con il Signore. Il libro della Sapienza afferma: “Per invidia del Diavolo la morte è entrata nel mondo” (Sap,2, 24). L’invidia del Diavolo si ritrova quindi nella originaria tentazione del serpente (Gen,3,1-7) ed anche nel racconto del primo omicidio, compiuto da Caino (Gen,4,1-16).
Il Signore gradisce le offerte del pastore Abele e non quelle del coltivatore Caino: Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo”. L’irritazione e l’abbattimento di Caino, il volto e lo sguardo rivolti a terra, sono i segni dell’invidia (il “peccato accovacciato alla porta”) per essere stato escluso, lui che era il primogenito, dalla benevolenza del Signore. Da qui sorge il pensiero dell’omicidio che infine Caino non sa dominare. La figura di Satana ci permette inoltre di riconoscere il legame tra invidia e superbia: Satana vuol essere al di sopra di Dio, ma viene respinto nella sua inferiorità.
L’invidia è una superbia delusa, frustrata, che si volge perciò in tristezza e odio. La derivazione dell’invidia dalla superbia è al centro della definizione che ne dà San Tommaso: “L’invidia è tristezza per il bene d’altri in quanto ostacolo alla propria superiorità” (Summa Th., II q. 36).
Le raffigurazioni dell’invidia nel Medioevo provengono da un contesto culturale che considerava i vizi come le forme del peccato, il peccato ribadito in abitudine. E se il vizio, come fatto umano, si può riferire ad un modello di rettitudine e misura nei comportamenti personali e sociali, il peccato esiste solo in riferimento a Dio.
INVIDIA: ANCORA IL PENSIERO DI INGIUSTIZIA SUBITA
Lo rileva Mandeville, l’autore già citato de La favola delle api, ovvero vizi privati pubblici benefici(1705-1729) opera che provocò un certo scandalo poiché relativizzava i concetti di vizio e virtù: Noi crediamo di voler la giustizia, e che il merito sia premiato; ma se degli uomini occupano a lungo i posti di più alto onore, metà di noi si stanca di loro; cerchiamo allora le loro colpe, e se non ne troviamo, pensiamo che le nascondano, ed è molto se la maggioranza non vuole che siano cacciati […]perché nulla stanca più della ripetizione di lodi cui non si può in alcun modo partecipare.
Se riassumiamo (per concludere) il profilo tracciato fin qui risulta che l’invidioso si rapporta ai beni che desidera solo in termini negativi. Si rammarica delle doti e dei beni altrui come se gli fossero stati sottratti, dispera di poter raggiungere il bene e, per questo senso di impotenza, consuma le sue energie nell’immaginare o nel procurare il male di altri. Friedrich Nietzsche ha mostrato come l’impotenza connessa all’invidia può trasformarsi in una potenza negativa.
Quando l’impulso fondamentale dell’uomo, la volontà di potenza, non può positivamente espandersi, si tramuta in volontà di negazione: Gli annientatori del mondo. A costui non riesce qualcosa; alla fine, ribellandosi, sbotta: “Che il mondo intero vada in malora!”.
Questo disgustoso sentimento costituisce il culmine dell’invidia, la quale argomenta: “Poiché io non posso avere qualche cosa, il mondo intero non dovrà avere nulla. Il mondo intero dovrà essere nulla!”(Aurora, 304)La riflessione sull’invidia confluisce poi nella costruzione della psicologia del risentimento che caratterizza quelli che Nietzsche chiama: “gli schiavi”: i deboli, i malriusciti, i malaticci, invidiosi della capacità che altri hanno di affrontare a viso aperto la vita.
Lo sguardo di costoro è “volto a ritroso”, contro la libertà, la forza, la salute, la bellezza, e insinua un capovolgimento dei valori naturali: Questi malriusciti[…] si aggirano tra noi come rimproveri viventi, come ammonizioni dirette a noi –come se salute, corpo ben riuscito, forza orgoglio, senso di potenza siano già in sé cose biasimevoli, per le quali si debba un giorno espiare, amaramente espiare: oh quanto sono pronti in fondo costoro a far espiare, quanta è la loro sete di diventare carnefici(Gen. Morale,III, 14).
Con Nietzsche la nostra indagine sull’invidia arriva dunque ad una supposizione paradossale: sarebbe questo vizio l’origine delle virtù morali, per lo meno di quelle che raccomandano di astenersi, non eccedere rispetto a una misura che diviene opprimente e livellatrice.
L’invidia può mascherarsi anche da senso della (in) giustizia, rivendicando un’uguaglianza livellatrice che non concede a nessuno di risaltare sugli altri. Naturalmente, sostenere che il giudizio morale, la severità critica, le richieste di uguaglianza e di giustizia sociale possono essere maschere o razionalizzazioni dell’invidia non vuol dire che lo siano in ogni caso e che la moralità, il senso critico, il principio d’uguaglianza non abbiano altri, più degni fondamenti. Se ci rivolgiamo ora alla nostra società possiamo riconoscervi parecchi fattori che sono incentivi all’invidia.
L’uguaglianza è un presupposto giuridico costitutivo delle società contemporanee ed ha creato una mentalità per cui, in linea di principio, tutti hanno diritto alle stesse posizioni ed alle stesse cose: non ci sono beni o posizioni che è vietato desiderare, che siano sottratti alla competizione.
Meno chiaro diventa che ci sono doti, dedizioni, sacrifici che fanno legittimamente le differenze; mentre influiscono più sulla mentalità corrente i casi –purtroppo reali e troppo frequenti –in cui le differenze sono determinate dal privilegio, dal capriccio, dalla spregiudicatezza, quando non dalla mancanza di scrupoli.
Sul piano clinico non dico quante relazioni ho visto fallire strette dentro questa logica: “In amore bisogna dare e ricevere alla pari” altrimenti non è amore. Anche qui pochi commenti alla lapidarietà ma anche stupidità della frase che dopo per molte coppie diventa vademecum o Bibbia da mettere in pratica giorno dopo giorno (specie le coppie giovani).
Caratteristico della nostra società è poi il forte aumento di beni e status che si possono desiderare, ottenere ed esibire; la nostra società consumistica e competitiva crea le condizioni materiali per un aumento dell’invidia. A questo fattore si lega la tendenza dell’uomo contemporaneo a pensare la propria realizzazione in termini di affermazione individuale, e quindi in termini di competizione con gli altri. È possibile respingere l’invidia, cercare di svincolarsi da questa passione senza gioia? Poiché –come abbiamo visto –essa si condensa nella sguardo, il superamento dell’invidia passa per una “rettificazioni” dello sguardo.
Se l’invidia nasce da una sorta di sfiducia o senso di impotenza, rettificare lo sguardo verso se stessi vorrà dire trovare la fiducia di conseguire i beni di cui si ha bisogno, forse non quei beni che si invidiano, ma altri che possono dare sufficiente serenità e soddisfazione alla propria vita. Verso il bene degli altri si tratterà di andare oltre la logica del possesso e dell’esclusione, imparando ad essere lieti perché il bene c’è e costituisce una luce e una promessa per tutti. Si libera infine dell’invidia chi non si colloca al centro del mondo e sa guardarlo o con la fiducia di potervi scorgere un nascosto disegno divino, o con gli occhi di Spinoza, che contemplò l’ordine necessario e razionale del Tutto, amò quell’ordine –che per lui era Dio –, vide in esso il Bene oggettivo, universale e vide il proprio bene nel semplice fatto di contemplare l’Universo, riconoscervi il proprio posto e amarlo.
L’invidia è lo stato d’animo o sentimento spiacevole che nasce dal volere per sé un bene o una qualità altrui. L’invidia è spesso accompagnata da avversione e rancore verso chi possiede tale bene o qualità, che porta l’invidioso ad augurare il male all’altro, di modo che il dolore e la tristezza possano così oscurarne le qualità o diminuire la felicità che ne consegue. Nasce nell’uomo che ha modo di constatare che altre persone hanno quella qualità o quelle cose che lui non possiede. E’ una miseria interiore del paragonarsi agli altri, giudicandoli negativamente per quello che sono o hanno in più. L’invidioso è…”felice” (ma abbiamo visto il suo destino di tristezza) quando agli altri la vita va male o perdono qualcosa. L’invidioso prova risentimento e astio per la felicità vera, la prosperità e il benessere altrui, sia che egli si consideri escluso ingiustamente da questi beni, sia che già possedendoli, ne pretenda l’esclusivo godimento.
L’invidioso non lavora mai su di sé per sciogliere l’invidia che ha dentro, affinché possa crescere, esprimersi ed ottenere con le proprie capacità quello che vuole. Perché sostanzialmente non vuole per se ma vuole la caduta dell’altro.
GUIDO SAVIO