GOLA
GOLA: L’INGORDIGIA (ANORESSIA) DEL NOSTRO TEMPO
INTRODUZIONE
“Parla come mangi”. Un monito-consiglio-rimprovero che certamente ci siamo sentito fare tutti prima o dopo nella nostra esperienza di vita.
La deduzione ovvia è che il nostro cibarci ha una maggiore spontaneità, naturalezza, intimità, autenticità, etc. rispetto alla elaborazione intellettiva del parlare.
“Non parlare finchè si mangia” significa quasi una attribuzione di sacralità all’atto della alimentazione rispetto a quello del linguaggio (o del pensiero).
“Non si parla con il boccone in bocca” è invece una degradazione del mangiare, o masticare, rispetto alla distinzione morale e relazionale che ha il “parlare”.
Così. Tre esempi che mi sono balzati in testa. Ritengo che la Gola sia un “vizio” che va preso molto oltre la questione dell’ingerire e della “culinaria” (come vedremo nella storia linguistico-filosofica della parola).
Intendo per le motivazioni che può avere (dipendenza) ma soprattutto per le conseguenze (restrizione o chiusura dell’Io).
“Essere presi per la gola” è l’espressione che, a mio modo di vedere, meglio esprime una persona che sta vivendo l’angoscia. D’accordo qui si intende il respiro, la sua mancanza, la disperazione. Tuttavia io ho visto molte persone che sono “morte” con il…boccone in bocca. Perché il boccone non andava ne giù ne su e restava “di traverso”.
E dico subito che la anoressia, di cui parlerò più avanti, è una delle forme più evolute ma anche più subdole della Gola come peccato.
Ovvero ancora una volta, come nella Lussuria, il “troppo” e, come vedremo più avanti, l’”eccesso” sono le condizioni della cattiva volontà che portano al “peccato di gola”.
Ingordigia, insomma, che a mio modo di vedere e sentire è il peggior male del nostro tempo e del mondo in cui viviamo. E si è ingordi sempre quando si ha a che fare con “oggetti” o si oggettualizzano le relazioni.
UN PO’ DI STORIA LINGUISTICA E FILOSOFICA
Da tempo, storici, etnologi ed antropologi sostengono che la storia dell’alimentazione, implicando il passaggio “dal crudo al cotto”, costituisca un punto di vista privilegiato per riflettere sul complesso percorso che ha condotto gli uomini dalla natura alla cultura.
Del resto, una fra le più antiche ed efficaci definizioni dell’umano viene da Omero che qualificò innanzitutto l’uomo come un essere mortale mangiatore di pane (Odissea, IX, 191). Ma assai prima che Claude Lévi-Strauss lo teorizzasse nella serie delle Mythologiques, il nesso fra sviluppo dell’arte culinaria e progresso della civiltà era già stato posto in luce da altri autori dell’età antica. Oltre a Lucrezio, per il quale la scoperta del fuoco permette agli uomini di imparare a cuocere i cibi ispirandosi all’azione del sole (De rerum natura,1091-1104).
In dissonanza col pensiero antico è però Platone. Su questo piano egli anticipa i temi di fondo della condanna cristiana del piacere di gola, che dal IV sec., con la prima formulazione dell’ottonario dei vizi elaborata dal monaco Evagrio, risale sino al Basso Medioevo per poi “dissolversi” con l’inizio dell’età moderna.
Nel Gorgia (462d -465e) Platone introduce due tesi gravide di conseguenze. Da un lato, la culinaria non può essere considerata un’arte, sia perché non è sostenuta da regole teoriche sia per il fatto che chi la esercita, agendo per puro diletto, non possiede una sicura conoscenza della natura delle cose di cui si serve.
Essa risulta quindi declassata a “pratica empirica” e confinata in una gestualità ripetitiva e monotona.
Dall’altro lato, la culinaria viene associata alla retorica, in quanto entrambe nell’apparenza mirano al benessere di corpo ed anima, mentre nella realtà perseguono soltanto il piacere in forza della “lusinga”. Inoltre l’arte della parola e quella della cucina condividono lo stesso “luogo di colpa”: nell’organo della bocca i piaceri della verbosità ingannevole e dell’intemperanza alimentare si sovrappongono, sino a coincidere. In seguito il peccato di gola verrà interpretato proprio entro questa luce, come eccesso di cibo e di parola.
Parole e cibo hanno entrambi a che fare con la bocca. Se Lacan afferma che il pensiero si forma in bocca, tutte le forme di oralità, mi si lasci passare il verbo, passano per la bocca.
Un signore sessantenne, in analisi da qualche anno per motivi….. di eccesso nel bere, mi porta questo sogno assai breve ma assai significativo.
“Sono dentro ad un grande cilindro, forse una botte, che comunque è piena di una sostanza di cui io posso bere ma nella quale posso anche annegare. Penso che più bevo e più cala il rischio di annegare, ma anche che se bevo tutto posso, anzi, debbo morire. Sono angustiato dalla mia posizione che è quella di un pesce che ha tanta sete ma se bene tutta l’acqua della boccia…muore “essicato””.
Io sono immediatamente corso a Forese Donati del Purgatorio dantesco, scavato da una spaventosa magrezza. La nemesi storica. Dantescamente la legge del contrappasso.
Chiedo a questo signore cosa pensa della colpa, della colpa commessa e del suo senso di colpa.
Lui mi risponde immediatamente e senza possibilità di replica. “E’ giusto che chi sbaglia paga, e poi tutti i nodi vengono al pettine”.
Dante stesso non avrebbe potuto dire di meglio su questo sogno.
Si seccano le risorse, le provviste scarseggiano. La colpa è un perdere, in peso, in stima, in reputazione.
La essicazione, a mio modo di vedere, è il procedere della colpa dentro ognuno di noi.
La analisi di questo signore sta andando avanti bene e lui ne sta traendo grandi benefici.
Ma (tornando alla filosofia) Platone ha introdotto anche un parallelismo fra appetito cognitivo e corporeo da cui consegue una esemplare sperequazione di valori. Nella definizione di piacere come “riempimento del vuoto” che si produce nel corpo (fame e sete) e nello spirito (ignoranza e stoltezza), netta risulta la soggezione del primo al secondo, in quanto solo il nutrimento spirituale, che attinge all’eterno ed universale sapere della scienza, sazia davvero l’uomo, innalzandolo verso il mondo delle sostanze immateriali e perfette.
I devoti alla crapula fanno pensare all’imbestiamento da cui sono affetti i golosi dell’Inferno dantesco, condannati, come Ciacco, a giacere nell’acquitrino maleodorante e ad essere scuoiati e squartati dalle unghiate mani del vorace Cerbero. In seguito, il nesso fra storia dell’alimentazione e progresso è fatto oggetto di critica dai Padri della Chiesa; subisce un’ulteriore condanna con la definizione del vizio capitale della gola ad opera del monachesimo orientale del IV e V sec., viene poi formalizzato nel VI sec. da Gregorio Magno (sempre lui), per essere da ultimo ridefinito dalla Scolastica del XII e XIII sec.
Vorrei a questo punto trarre spunto dal passo dell’Ecclesiastico in cui si riporta che “essenziali per la vita umana sono l’acqua, il pane, la veste e la casa per proteggere la nudità”, egli così prosegue:
“Adesso invece ai golosi non bastano più i frutti degli alberi […], gli animali della terra o gli uccelli del cielo, ma vanno in cerca di spezie, si procurano aromi, si nutrono di pollame, scelgono animali più grassi cucinati dall’arte dei cuochi più raffinati e riccamente preparati dai servitori. Uno trita e filtra, un altro mescola e compone, muta la sostanza in accidente, cambia la natura in arte, affinché la sazietà si trasformi in appetito, la nausea risvegli il desiderio di cibo, per stuzzicare la gola, non per sostenere la natura, per appagare l’avidità, non per supplire alla necessità”.
Nella tradizione ebraico-cristiana il passaggio dal paradiso terrestre al mondo che “si consuma” avviene a causa della trasgressione di un tabù di tipo alimentare: è il divieto di mangiare i frutti “dell’albero della conoscenza del bene e del male” (Genesi,2, 16-17). La trasgressione al comando di Dio produce il primo peccato, il peccato di gola.
In realtà Agostino, rileggendo il passo biblico, aveva negato che il peccato originale dipendesse dal vizio della gola. Il frutto proibito non è “cattivo in sé”, ma risulta tale soltanto perché è vietato da Dio; pertanto la causa della “caduta” non deriva dalla cupidigia alimentare ma dalla disobbedienza della prima coppia umana che, come Lucifero, ha detto: “Mi farò uguale all’Altissimo” (Isaia,14, 14) e si è volta dal Bene Supremo al suo proprio bene, peccando di superbia.
ALCUNE PERSONE “GOLOSE”
Una donna cinquantenne viene da me da qualche tempo. Vive sola con la madre ormai ultranovantenne. Insegna
Lettere in una scuola media della zona. So che è ancora vergine perché in più occasioni ha insistito sulla questione dicendo che invece “non lo sono più, e ho avuto più di un uomo che mi ha inseguito, e io qualcosa gli ho lasciato fare”.
Excusatio non petita.
Alla domanda mia in che cosa sia mai consistito questo ‘lasciato fare qualche cosa’, lei non è mai stata precisa. Ha glissato, spostando immediatamente il discorso sulla madre. Non era in macchina, non era in albergo, non era in casa (dove la madre regnava), non era nei nostri splendidi boschi dell’Altopiano di Asiago, non era in una notte sulla spiaggia di Sottomarina o Jesolo. Non c’era luogo dove questo atto fosse stato consumato.
Io ho pensato in più di una seduta di chiudere lì il rapporto terapeutico perché questa questione della verginità io la vedevo come una superbia, una pretesa, un integralismo dell’ essere sufficiente a se stessa”. Mi faceva sempre venire in mente la Virgo Virginis di quando ero chierichetto e recitavo alle Funzioni della domenica pomeriggio.
Insomma questa professoressa mi diceva che (sic et non) aveva avuto uomini ai quali lei qualcosa aveva dato.
Ma io ero sicuro che non aveva dato nulla, e forse questi uomini pretendenti non erano mai esistiti.
Esisteva invece la madre, che era lo specchio e il motivo della sua vita (la realtà), il senso di essere sufficiente a se stessa, la banalità del male che lei faceva a se stessa e forse anche a sua madre restando saprofiticamente legata a lei.
Ah, dimenticavo. Questa professoressa pesava oltre cento chili ed era alta meno di un metro e sessanta. Lo so perché è stata una delle prime cose che le ho chiesto. Le apparenze non ingannano. La questione della verginità non contava tanto nella psicopatologia di questa donna (e io lo sapevo fin dall’inizio). Ma la bulimia la faceva da padrona.
Purtuttavia le vera questione della verginità, a volte la folle scelta dell’autosufficienza dell’uomo superbo e pretenzioso corrisponde, alla cacciata dal paradiso terrestre e la definitiva perdita dell’innocenza segnata dalla lacerazione fra anima e corpo, dall’ apparire della menzogna e dalla vergogna di sé: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi,3, 7).
A mio modo di vedere la verginità “professata” è una forma di integralismo e di autosufficienza, “io mi basto a me stesso”. Che è il riporto o rifugio del peccatore di gola: si chiude da qualche parte con il suo “oggetto”.
Sulle orme di Agostino, Gregorio Magno considera la superbia come la radice di ogni male e fa cominciare da questo peccato il settenario dei vizi, in coda ai
quali figurano gola e lussuria. Tuttavia, buona parte della cultura medievale mantiene la convinzione che il primo peccato commesso dai progenitori sia stato di gola.
Anche Agostino riflette sulle insidie del piacere della gola che si annidano nelle pieghe del bisogno. Prescrive un rigoroso rimedio (“accostarmi agli alimenti per prenderli come medicamenti”), ma con straordinaria capacità introspettiva indaga la natura profonda del desiderio del cibo:
Nel passare dalla molestia del bisogno all’appagamento della sazietà, proprio al passaggio mi attendo, insidioso, il laccio della concupiscenza. Il passaggio stesso è un piacere e non ve n’è altro per passare ove ci costringe a passare il bisogno. Sebbene io mangi e beva per la mia salute, vi si aggiunge come ombra una soddisfazione pericolosa, che il più delle volte cerca di procedere, in modo da farmi compiere per essa ciò che dico e voglio fare per salute (Confessioni, X, 44).
Gregorio Magno riordina il sistema dei vizi capitali ed attribuisce alla gola il penultimo posto. Inoltre, attingendo nuovamente all’immagine della battaglia spirituale, identifica ciascun peccato col comandante di un esercito al cui seguito figurano, nelle vesti di “soldati semplici”, “vizi derivati”, ossia mali collaterali da cui guardarsi. Dalla ventris ingluvies (ingordigia del ventre) dipendono “sciocca allegria, scurrilità, sconcezza, loquacità e ottundimento dei sensi”. Nel peccato di gola confluisce anche l’eccesso di parole, indotto dall’intorpidimento del corpo e dai suoi riflessi sulla mente. L’incontro, nella bocca, fra il cibo che entra e le parole che escono genera promiscuità e disordine fisiologico (gozzoviglia ed ebbrezza) e morale (mala lingua).
Un freno all’ingordigia (di cui il nostro mondo e tempo è il grande portatore), però, è dato dalla Regola di S. Benedetto. All’interno del monastero essa provvede anche a disciplinare il peccato di gola: nel refettorio infatti il cibo si limita allo stretto necessario e l’alimentazione è ricondotta alla sua fonte originaria tramite l’ascolto della Parola di Dio, unico vero nutrimento dello spirito.
Allora una signora ormai avanti con gli anni kmi parla di suo figlio, tossico, che passa da una comunità all’altra e che lei trova barcollante in centro della cittadina in cui vive.
La gola e la oralità sono la stessa cosa. La gola e la dipendenza sono la stessa cosa. La gola e l’”ego narcisistico” sono la stessa cosa. Cosa, per l’appunto, oggetto strumento che si usa ma del e con il quale non si ha relazione. Anche quando l’Io si rispecchia in uno stagno, rispecchia la sua immagine e la ama, quando una Eco da qualche parte lo chiama alla relazione ma lui non risponde.
E che Narciso sia morto annegato, trafitto dalla sua stessa spada o morto di inedia (cioè di anoressia) poco conta. Quello che conta è che quando la relazione è sorpassata, bypassata o surrogata….sono sempre guai.
La psicopatologia deve essere sempre misurata e tarata sulla relazione. Chi non né è capace di stare con gli altri è malato. Poi noi tutti “normali” la balbettiamo appena la vicinanza con l’altro.
Tuttavia, posto che la Regola almeno in linea di principio ordini e governi l’assunzione di cibo, il problema è di verificare se ed in che modo il contenimento del vizio sia proponibile anche al di fuori del monastero, nella vivacità di un mondo laico che, con la formazione di nuovi borghi e comuni, si è reso protagonista della rinascita commerciale dei secoli XII e XIII. La ridefinizione della natura propria del vizio della gola avviene ad opera della filosofia Scolastica, preoccupata di configurare il sistema dei peccati in modo compatibile con le mutate esigenze sociali e culturali degli homines novi.
Un giovane studente di Lettere Antiche all’Università di Padova mi dice questa frase all’interno di una seduta abbastanza “burrascosa”: “Ma io i miei amici di calcetto, che mi prendono “per il culo” perché non sono tanto alto, me li mangerei tutti. Uno dopo l’altro”.
Gli chiedo perché anziché “distruggerli”, “ucciderli”, “annientarli” …. (visto l’avversione o odio che prova per loro) lui vorrebbe mangiarseli.
Lui fa l’intellettuale e mi tira fuori la questione del cannibalismo, del mangiare il cuore del nemico (film Apocalipto), del parricidio, della Eucarestia, che sarebbe l’ultimo rimasuglio del pasto cannibalico dei figli per il padre morto…. E tutte questioni intellettuali di questo tipo. Che a me personalmente e come psicoanalista, danno abbastanza fastidio.
Io gli dico che “fisicamente” è difficile mangiare un proprio simile. Meglio ammazzarlo, accoltellarlo, sparargli, etc. E poi lasciare trascinare il suo cadavere dal fiume, fino al mare. Vedere passare il cadavere del proprio nemico sulle onde del fiume.
Lui coglie la mia provocazione e mi dice: “Si, però mancherebbe il gusto!”.
Io gli chiedo: “Quale gusto?”. E lui mi risponde, candido. “Quello del sangue”.
Qui ho capito allora come l’enfasi, la paura, l’inappropriatezza, la superbia, la menzogna, il “raccontarsela”, la paura, la vera paura, ma soprattutto la debolezza mentale e intellettuale di questa persona la facevano da padrone. Di fronte a tutti i fatti della vita che avessero a che fare con una sana aggressività (inferta o subita). Si vantava di quello che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare. Ma non aveva fatto ancora nulla, nemmeno una scazzottata con amici-nemici.
Ma altri, per fortuna, nel nostro presente e nella nostra storia di uomini, questo “coraggio” l’hanno avuto.
Questo ragazzo (ma mi verrebbe da dire “bambino”) è figlio di due genitori “molto ricchi” che praticamente lo mantengono.
Ah, dimenticavo. Questo ragazzo è un attivista di Casa Pound e vorrebbe andare a combattere il “nemico”, con la pelle di diverso colore, fuori dalla nostra bella Patria. Il suo sogno è il combattimento reale, tipo Iraq, Afghanistan, Somalia, etc.
E come tutte le persone superbe e voraci è un eiaculatore precoce ( il sintomo che lo ha portato da me), per cui la sua “morosa” lo sta per lasciare. Ma, son sicuro che ciò avverrà, ma non certo per le sue “prestazioni sessuali”. Chi vivrà, vedrà.
Torno alla Filosofia. Nella lezione di Tommaso d’Aquino, il piacere indotto da cibi e bevande non è di per sé fatto oggetto di programmatiche condanne, in quanto è un desiderio connaturato all’uomo. Ma, affinché non degeneri nella bestialità della concupiscenza, va contenuto entro limiti. Essi non sono imposti da aride precettistiche o da comandamenti fondati sul timore di Dio: in un’età in cui il mondo laico sperimenta nuove forme di autonomia i limiti sono dati dalla ragione, che dà la misura del desiderio.
Aristotelicamente, Tommaso definisce il peccato come il male dell’anima [che] consiste nel prescindere dalla ragione; onde, in tutti i casi in cui capita di abbandonare la regola della ragione, accade che ci sia peccato: nient’altro infatti è il peccato che un atto disordinato o malvagio (De malo, q. 14, art. 1).
Dalla fine del XIII secolo il peccato di gola è sempre più spesso associato alle classi dirigenti e ai ricchi che “mangiano troppo”, ma porre sotto accusa i codici alimentari di nobili e magnati significherebbe condannare i segni più palesi della superiorità di classe e della potenza di cui essi dispongono, rimettendo in discussione lordine sociale esistente. Salvo eccezioni, per evitare questo rischio i moralisti pongono l’accento su alcune perniciose conseguenze, che focalizzino, pur se sotto tutt’altra luce rispetto al passato, la pericolosità degli eccessi alimentari. Si guarda dunque con nuova preoccupazione ai possibili disturbi fisiologici, che profilano una vera e propria “moda salutista”, all’incubo della rovina economica, che sovrasta l’inclinazione dei golosi a dissipare in crapule il loro capitale, e alla necessità di disciplinare il comportamento a tavola col “decoro”, che ben contraddistingue l’etichetta di nobili e ricchi borghesi dalla volgare scompostezza delle plebi. Ridimensionata entro la manualistica delle “buone maniere”, all’inizio dell’età moderna la gola torna ad essere un fatto sociale, relativo al costume e alle abitudini alimentari e di competenza dell’antropologo o dello storico.
Una giovane donna, che viene da me da parecchi anni, non italiana, della sua giovane vita ha fatto quello che ha voluto. La conseguenza (ma forse anche no) è stata una cirrosi epatica che richiede un trapianto di fegato (che forse non è nemmeno possibile fare). Io sono molto affezionato a questa giovane donna, che mi ha fatto capire in tutti questi anni la sua sofferenza . Un padre balcanico alla Kusturica che ha fatto danaro e se lo è letteralmente “mangiato”, lasciando alla figlia maggiore, appunto lei, l’onere di saldare il debito nel tempo. Cosa che questa giovane donna è riuscita a fare. Onestamente la sento come figlia mia.
Porta questo sogno: “Sono nel mio Paese d’origine con mia madre e le mie sorelle. Mia madre mi parla e intanto perde tutti i denti che cascano sul verde del nostro giardino, laggiù. I denti di mia madre sono come concime per il terreno che comincia a germogliare fiori. Io mi sento felice per lei che ha prodotto qualcosa di buono nella sua vita (non certo con me e le mie sorelle), e anche per me, che nella mia patria nativa ho ritrovato “linfa vitale”.
Questa giovane donna, nel suo sogno, pure prodotto in un momento di malattia assai serio della sua vita, dice che la bocca della madre è stata foriera di vita come lo è stata durante il suo allattamento (di cui mi ha parlato in lungo e in largo nel corso della terapia). Il latte sono i denti. I denti sono il latte. Il passaggio dalla suzione alla masticazione. Il passaggio dalla Natura alla Cultura. La crescita. E questa giovane donna mi ha parlato di un grandissimo piacere nel vedere e sentire la madre finalmente pacificata con lei.
Ma nonostante tutto il can-can che si fa nelle nostre reti e nelle nostre televisioni, il piacere continua a spaventare: troppo forte è il peso di una tradizione religiosa che ci ha insegnato a collegarne la nozione con quella di colpa e di peccato” (la fame e l’abbondanza). È anche per questo motivo che oggi, nell’Occidente che da tempo si pregia di aver vinto la fame, l’attrazione irresistibile verso l’eccesso genera un’inedita paura: essa ribalta quella atavica della mancanza di cibo e si traduce nell’incubo della dieta, intesa come “limitazione, sottrazione di cibo”. Il rapporto con la gola torna così a configurarsi come un vizio, un’inclinazione del carattere che pone le premesse psicologiche per la trasgressione, indipendentemente dal segno che essa assume. Forse allora, come scrive Galimberti, si potrebbe assumere la sola storia dell’alimentazione per capire, più di quanto non ci faccia capire la storia delle guerre, che cosa è stata davvero la storia umana (I vizi capitali e i nuovi vizi).
ECCO ALLORA L’ANORESSIA
Anoressia, dal greco an (privazione, mancanza) e orexis (appetito) è una patologia clinica che indica una diminuzione dell’appetito e una avversione al cibo, supportata da una particolare patologia non clinica che al momento definisco come negazione che la causa del desiderio, a partire dal primo desiderio (il cibo) venga da fuori.
Il pensiero di fondo è che non esiste un “fuori” come referente e altro della soddisfazione e del piacere, da cui la perversione, di cui la anoressia è una rappresentazione, tra le più drammatiche.
Il conseguente pensiero è che il sesso è negato in quanto “fuori” e in quanto “altro”; è negata in pratica la differenza sessuale. E negazione dell’assunto fondamentale della relazione (anche) sessuale che recita che il sesso è l’unico momento dell’esperienza sensibile che si presti alla costruzione di una legge in cui il soggetto possa trarre proprio vantaggio dall’operare altrui.
Il conseguente pensiero che questa “buona idea” del sesso va pervertita come vanno pervertite tutte le buone idee che vedono l’altro come agente di relazione legale, dunque di soddisfazione, a partire dal sesso.
Il conseguente pensiero che il pervertire (il perverso è un militante, e anche dunque la anoressica) è la continua perversione del giudizio che viene agito come contro-giudizio, un “contro” della ragion pratica per cui l’altro, tutti gli altri, sono “contro” (l’autosufficienza del corpo che, da solo, non con altri, proverà piacere). Da cui il perpetuare l’integrità del corpo nel tempo infinito (tesi isterica della verginità).
Ragion pratica anoressica che si articola in tre formulazioni: a) l’astinenza sessuale, b) l’iperattività, c) la negazione di ogni pulsione. Opzionale d) la soppressione delle sensazioni fondamentali (fatica – pulsione sessuale – fame – dolore) consente al corpo di compiere imprese eroiche e alla psiche di avvicinarsi e comunicare con Dio (anoressia mistica).
Particolare privilegio della comunicazione mistica con Dio che non è della parola ma del corpo.
Sempre nell’opzionale. I grandi temi della anoressia mistica : autonomia – identità – perfezione , ultima istanza questa che costituì il grande dubbio di Caterina da Siena, la più grande delle sante anoressiche: tutto ciò è vanagloria?
Il grande peccato (sentenza emessa da un giudizio laico) della mistica anoressica è la competizione con il giudizio di Dio (Giobbe docet).
Vanagloria dunque che recita che il desiderio è causa sui , cioè non esiste altro, fuori, a partire dal cibo. Il desiderio non proviene dal di fuori ma è insito nel pensiero di sè. E ricordo qui che l’unico essere che vive di desiderio causa sui è Dio.
Quando Freud parla di Frau Emmy von N. (parla di una anoressica e di una isterica), usa l’espressione “meccanismo di ritenzione di grandi somme di eccitamento”.
Il motivo di tale ritenzione è da ascriversi al fatto che l’eccitamento ( ex-citare ) ha a che fare con una causa esterna (ciò che nega l’anoressica).
L’eccitamento è un “sentirsi vocato”, chiamato da altro. Ogni eccitamento è un giudizio, che l’altro esiste come altro del desiderio e che la componente della soddisfazione (legge del sesso in primis ) è data dall’altro che riempie la parte mancante.
Ma l’anoressica non riconosce parti mancanti, infatti non accetta l’introduzione di alcunchè nel corpo e nel pensiero del corpo: non introduce l’altro nel giudizio.
Il desiderio è interno: tragico errore di giudizio in quanto l’altro è irrinunciabile e il proprio corpo non è integro e il lavoro della restitutio ad integrum è il più vano dei lavori.
Eccitamento è pulsione, e la pulsione non può essere negata. Eccitamento è vocazione. La scelta dell’oggetto vocante nella anoressia mistica è Dio, e ad essere chiamati da Dio e un gran arduo affare.
Ripetendo. Il giudizio dell’anoressica è un contro-giudizio in quanto nega la alterità dell’altro (quando non ne nega la vita stessa). Ora all’eccitamento che viene dal di fuori bisogna rispondere “per forza”, pena la morte (del tipo che chi non si ciba deve morire).
Questo il controgiudizio (perversione) della anoressia: contraddire il “dovere necessario” che viene dal di fuori e con esso la stessa legge naturale.
La perversione anoressica è manifesto di autonomia e indipendenza dal principio di necessità.
L’anoressica non fu quella bambina che pronunciò la frase rivolta a qualcun altro (forse alla madre, forse al padre, meglio se al padre) “Aiutami a mangiare”, la quale frase è una buona (necessariamente) idea che intende che il proprio piacere (e la propria sopravvivenza) stanno nelle mani di un altro e dipende dalla capacità di lasciare libero un posto a questo altro. Buona idea in quanto promulga un principio. Quello sommo, che il piacere si instaura tra due e non è affare di uno solo: questa è la legge (necessaria, pena vari tipi di morte, compresa quella per anoressia).
Il controgiudizio dell’anoressica è che il proprio corpo diventi l’altare su cui sacrificare l’altro: è l’uccisione dell’altro (del corpo dell’altro) che interessa, delitto perpetrato nella assolutezza di un noli me tangere sulla cui origine sessuale non pongo dubbi.
Il corpo è mitizzato in quanto assurge a “ente comunicante” (il corpo uccide la parola) la sua stessa assoluta indisponibilità.
Il corpo al posto della parola. Ma questo corpo si disfa a sua volta, si ritira: “Vedete? Lo stesso mio corpo non c’è!”.
Se molte anoressiche sono diventate sante (Chiara, Orsola, Caterina, Veronica Giuliani, Maria Maddalena de’ Pazzi, Francesca de’ Ponziani, etc.) lo sono diventate come mito dell’inaccessibile.
Corpo inaccessibile in quanto nessun essere normale e normato si sognerebbe di trattarlo a qual modo, con il disprezzo anche di ciò che di “altro” è racchiuso nel corpo stesso (le pulsioni, l’inconscio, la legge).
Corpo che diventa lingua con il sacrificio della voce e della dialettica della comunicazione che, tanto, non servono. Corpo senza dialettica, corpo come cosa (das Ding) con il quale l’altro non può avere comunicazione (relazione) ma solo impatto.
Ritengo che il giudizio divenga forma negata in quanto il due ( dia-logos) è negato.
Qui la perversione, come colmo della indistinzione dei posti (esiste un solo posto, il mio). E come la perversione nega l’altro così nega anche l’universalità degli altri (di tutti quelli che, ma anche “uno per tutti” potrebbero occupare per me il posto dell’altro).
Uni-vertere (tendere verso l’universale della legge) è opposto a per-vertere: o si va da una parte o si va dall’altra, non esistono “terze vie”.
E per diventare perversi è necessaria una “buona idea” da pervertire, a partire da quella buonissima che recita: “I sessi sono due”, dunque esiste la differenza, dunque l’altro esiste.
Ora penso che nella anoressia (nella accezione di perversione) il sesso diviene perverso in quanto (nella accezione del misticismo) è visto avente per oggetto la morale.
Il sesso non può avere la morale come oggetto (fine) ma deve ritenere la legge morale come sua stessa componente interna.
Oggetto che nella perversione può essere abbracciato (allora le implicazioni libertine dei godimenti forzati) o negato da un “si deve”, al limite “Non lo faccio per piacer mio ma per far piacere a Dio”. Se la morale è oggetto del sesso il soggetto libero (di scegliere) e il giudizio libero, sono qui banditi.
Il sesso è dunque componente della legge morale, dunque soluzione. Se invece è oggetto della morale l’angoscia è garantita.
Per concludere. Tutto (il discorso della anoressia e della perversione) sta nella “cattiva idea” (che non porta a soluzione) che il sesso sia la condizione della perdita, a partire dalla integrità del corpo, ovvero dalla idea che esiste un solo sesso, il proprio, e che l’altro è continua obiezione a tale idea (da cui il “contro”).
A mio modo di vedere le cose sul sesso stanno così: il sesso è proprio una obiezione che fonda e rende legale il rapporto, obiezione che significa porre la questione della differenza nella relazione, obietto che il mio corpo e il tuo bastino a se stessi.
Così la frase conclusiva della perversione può essere “Io posso giudicarti (amarti), ma tu non ci sei e quindi non puoi giudicarmi (amarmi)”.
Infatti la gola vuole e pretende oggetti da ingoiare, non relazioni o amore da “sostenere”. Troppa fatica!
GUIDO SAVIO