LUSSURIA
INTRODUZIONE
Ai tempi di noi giovani maschi legati in qualche modo al cerchio-ovile-recinto-prigione della religione praticata, la lussuria era, per noi, l’unico peccato. Non ne esistevano altri che noi potessimo fare se non inventando (in confessionale) qualche disobbedienza ai genitori, qualche calcio o cazzotto tirato al compagno durante una partita di calcio, a qualche bugia detta più per farci vedere più “gaggi” di quello che in realtà fossimo piuttosto che per nascondere un tesoretto rubato da qualche parte, o aver saltato una messa alla domenica o aver guardato troppo intensamente i manifesti del cinema antagonista di quello del Patronato. Edwige Fenech era ancora allora una ragazzina più giovane di noi e non le erano ancora spuntate quelle forme lì sul davanti del petto per cui solo dopo pochi anni saremmo andati pazzi, tutti.
La lussuria era il peccato-vizio principe declinato al maschile. Voleva sostanzialmente dire: masturbazione. So che al femminile, perché me lo hanno raccontato donne allora nostre parietà, tutto ciò non esisteva. O non si confessava in Chiesa.
D’altra parte Santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica Romana, si rivolgeva per questo peccato all’universo maschile, come se per l’amisfero femminile tutto ciò fosse inconfessabile. Le donne ne erano, per definizione (o per voluta cecità ecclesiale) completamente escluse.
E a proposito (del femminile) la mia solita amica mi scrive: “Comunque, in spiccioli, il corpo non può essere peccato e nemmeno il piacere legato al corpo, ricavato dal corpo. A parte le ossessioni della Chiesa, penso che il problema sia quello di eccedere, sacrificando la propria parte spirituale: Forse lussuria e gola sono lo stesso peccato, un piacere “smodato””.
Ritengo questa, la voce femminile che dice sulla lussuria, la voce più attendibile. La lussuria è l’eccedere, la smodatezza. Che nell’uomo può rientrare in un modus vivendi classico degli uomini, ma che altrettanto classico non è per le donne.
Perché parlare allora oggi di lussuria, in un mondo in cui sembra azzerata qualsiasi norma morale e la problematicità stessa della sessualità pare pacificata? Forse questa è una visone semplicistica del nostro mondo e della questione della lussuria che in realtà elude il problema perché non ne coglie la portata.
A me pare di poter affermare che la nostra società oscilla tra due estremi rappresentati dall’ipersessualizzazione dell’esistenza veicolata dai media e dalla nevrosi normativa propugnata dagli ultimi autonominatisi detentori dell’autorità morale.
Sia un atteggiamento che l’altro occultano l’essenza della sessualità lussuriosa: il primo perché è un inganno che, invece di liberare il sesso, lo mette al servizio del mercato, aggiogandolo al suo immaginario preconfezionato e virtuale, e del lavoro, sfruttandone le energie per una rincorsa senza fine della soddisfazione; il secondo perché è cieco, cioè incapace di conoscere la società del suo tempo e le potenzialità che essa offre, perché è animato da un sentimento prepotente di fuga dalla condizione vivacemente magmatica in cui è immerso il nostro tempo.
Nel mezzo si stende il velo immenso dell’ipocrisia, che relega le condotte sessuali eterogenee all’orizzonte del notturno che emerge solo nell’anonimato del dato statistico. Proviamo, allora, ad uscire dall’incertezza. Se pratichiamo una “epoché etica” rispetto a qualsiasi orizzonte normativo di riferimento, il primo punto che risulta evidente è che la lussuria è legata al piacere. Ma in termini hegeliani, l’elemento del piacere è troppo immediato per essere oggetto di pensiero e quindi, preso per sé, resta indeterminato.
Lo dovremo ritrovare alla fine di un processo in cui emergerà pieno di pensiero come sintesi del processo stesso e finalmente ci si rivelerà nella sua pienezza. Infatti poiché la lussuria non è solo piacevolezza ma è anche un pensiero determinato sull’esperienza del piacere, dobbiamo dire che l’idea che ne abbiamo è storica e relativa a una certo orizzonte di senso, il nostro. È la nostra “gettatezza” –direbbe Heidegger –, in cui ci muoviamo come il pesce che non bada all’acqua in cui nuota.
Riconoscere l’esistenza relativa dell’orizzonte di senso in cui siamo collocati è il primo passo per uscire dall’ingenuità gnoseologica e affrontare il problema conoscitivo della lussuria da un punto di vista più consapevole.
Storicamente, nel nostro orizzonte, la lussuria sta dalla parte del male. Il male in occidente è incarnato dall’icona di Satana spesso rappresentato nella forma di un essere dalla sessualità ambigua e incerta, lascivamente femminile ma anche bestiale e oscena. È associato alla malattia, alla sporcizia, alla carnalità derelitta forse qualche anno o lustro fa). Ma dobbiamo stare attenti. L’icona satanica viene da lontano e nel suo viaggio ha raccolto i relitti del naufragio degli dèi del paganesimo antico che, “designificati” e pervertiti, con il trionfo del cristianesimo si sono prestati a dare forma a tutti gli incubi della nuova morale e a tutte le devianze rispetto alla norma della nuova società faticosamente emersa dall’alto medioevo barbarico.
È un’operazione che gli storici delle religioni conoscono bene: gli dèi sconfitti, tramontato l’ordine sociale, morale e culturale a cui presiedevano, vengono assunti dall’ideologia vincitrice come demoni, e con essi tutto ciò che rappresentavano viene volto al grottesco, al ridicolo, al patologico, all’erroneo, al male. Va detto che nel disastro del crollo del mondo antico la Chiesa ha svolto una grandiosa opera civilizzatrice, inventando dalle macerie una società nuova e una cultura nuova. E lo ha fatto anche normando la sessualità. Ecco allora un punto nuovo: il sesso non è una cosa privata ma è di interesse sociale.
Osserviamo, allora i luoghi e le figure sociali che la rappresentano. La letteratura, specie ottocentesca, ne è piena. Sono i bassifondi (l’assomoir di Zolà?), caratterizzati dal degrado e dalla devianza dalla norma e dall’emarginazione, che formano una specie di società parallela a quella dei benpensanti. Qui troviamo semplici debosciati, innocui pederasti, donne lussuriose per scelta o, spesso, per obbligo, ma anche figure rivelatrici. Gli eretici, per esempio, sono anche terribilmente erotici. A dare retta ai loro accusatori, si abbandonano ad ogni sorta di pratica lussuriosa, a orge promiscue, alla sodomia, ai coiti innaturali, senza rispetto né per le regole né per il buon senso.
Non sappiamo se siano solo calunnie o se vi sia del vero. Ma a noi non importa. Ciò che conta è che con essi scopriamo che la devianza ideologica si associa alla devianza sessuale, e non è un’associazione casuale, ma d’essenza. Spesso gli eretici sono anche dei contestatori politici del sistema, dell’organizzazione sociale e quindi della morale che la propaganda. Le due devianze, quella carnale e quella ideologica, appartengono ad un unico orizzonte coerente, quello della trasgressione della norma che si trasforma in insofferenza per il sistema ideologico/sociale così com’è.
La lussuria può essere una metafora dietro la quale si nasconde una riflessione teologica, filosofica e politica di prim’ordine, e non solo il sollazzo di un gruppo di debosciati. La lussuria del corpo si accompagna a una strana lussuria della mente che si apre a diverse, incerte, nuove possibilità di pensare l’esistenza. Certo non basta la pratica della lussuria per accendere la fiaccola del pensiero, ed è anche vero che il pensiero non necessariamente è legato alla lussuria. Eppure questo legame esiste, ed è un legame di devianza, di trasgressione, di alterazione del conformismo.
Del resto anche la riflessione morale della Chiesa ha sempre avvertito la minaccia di una simile associazione, condannando con uguale forza tanto le pratiche ritenute contro natura e antisociali (perché non procreative), come la sodomia, la masturbazione, i coiti impropri e la contraccezione, quanto le condotte considerate pericolose per la tenuta del fondamento della società (la famiglia monogamica indissolubile), come il tradimento, la seduzione, i rapporti multipli, e persino l’erotismo all’interno della coppia legittima.
(Il massimo della autodenuncia della Chiesa in merito alla lussuria!!!).
La Chiesa condanna sempre quello che è il proprio assoluto e inestirpabile peccato interno.
Si sviluppa allora in questo modo un intero complesso culturale di pensiero che riducendo la sessualità a una specie di pratica ginnica votata alla riproduzione, ai fini di mantenere la prosperità dell’ordine divino, relega il piacere carnale dalla parte della lussuria, disgiungendo la figura della madre da quella della prostituta, associando in questo modo la pratica erotica ad ogni sorta di corruzione e malattia del corpo e dell’animo: cecità, idiozia, malattie veneree, che sarebbero la giusta punizione divina del vizio. L’ultimo derivato di questa concezione è la resistenza, che esiste ancora presso molti, a considerare l’AIDS una semplice malattia, e non la giusta punizione per drogati, omosessuali e devianti di ogni genere. È servita la tragedia di persone malate non lussuriose, ma “oneste”, perché si incominciasse a riconsiderare il problema e si smettesse di ritenere l’AIDS affare di “qualche omosessuale senza importanza”.
Nel 1920 Freud scrive Al di là del principio di piacere. Si tratta di una estensione del suo concetto del Principio di Costanza. Come a dire, in parole povere, che esiste un “grado zero” di serenità a cui tutti gli uomini aspirano. Ma il “grado zero” altrimenti detto Principio di Nirvana, è difficilmente raggiungibile. Le pulsioni di morte, che tenderebbero al principio di costanza e dunque alla assoluta riduzione delle tensioni si trovano in contrasto con le pulsioni di vita che cercano invece di creare e mantenere unità vitali che presuppongono un alto livello di tensione
L’organizzazione della sessualità, infatti, è universalmente riscontrata dall’antropologia come una pratica antropogenica. Se mangiare non è solo ingoiare del cibo, allo stesso modo fare sesso non è solo perpetuare la specie, ma è invece un’esperienza che interroga l’uomo nella sua totalità. È piacere, è rapporto, è gioco della parti, è apertura, è mimesi, è metafora, è fantasia e immaginazione. Ecco che siamo arrivati al punto del legame tra lussuria e pensiero, varietà delle pratiche sessuali e varietà dei pensieri.
L’immaginazione animata dalla ricerca del piacere si sa quando si accende, ma non si sa dove andrà, se ne infischia dei limiti e dei vincoli, dei tabù e dei divieti, delle gerarchie e delle convenienze, e attraversa tutto come un venticello sovvertendolo e irridendolo, ispirandolo e reinventandolo.
Il pensiero animato dal desiderio è sovversivo. La lussuria, allora, non è propria di ogni pensiero, ma è il paradigma del pensiero utopico. La libido è alla base dell’utopia e all’estremo di ogni critica. Se ne erano accorti già i libertini settecenteschi, rimasti famosi per la loro condotta sessuale sfrenata, ma in realtà intellettuali libertari, impegnati nella riflessione politica e morale per una società più libera, più giusta e più piacevole contro i sacerdoti e i tiranni di ogni specie, che sfocerà nei grandi ideali democratici e anarchici.
Certo, lo slancio euforico della lussuria del pensiero, come quella del corpo, presenta anche dei rischi, degli sviluppi imprevedibili e degli aspetti oscuri rispetto ai quali la società deve erigere delle barriere per salvaguardare la sua tenuta. Lo stesso Freud ha ben presente che, davanti all’irrequieta pulsionalità perversa e polimorfa (di cui parlerò più avanti) dell’inconscio dell’eterno fanciullo che sta dentro di noi, la collettività deve erigere dei limiti che, soggiogandola, le diano una forma socializzabile.
È il Disagio della civiltà che, secondo Freud, costituisce l’inevitabile prezzo (di repressione e deviazione della libido) da pagare perché la società possa esistere e mantenersi.
E, del resto, sempre la psicoanalisi ci insegna che non di solo gioioso slancio amoroso è fatto l’inconscio, ma trova il suo piacere anche nell’istinto di morte attraverso la crudeltà e la violenza.
Un signore sulla cinquantina mi porta il seguente sogno: “ Mi trovo in un bagno turco, più o meno come nel film di Ferzan Ozpeteck. Ci sono uomini molto grassi che stanno appoggiati con le spalle alla piscina e parlano tranquillamente tra loro. Uno fuma addirittura un sigaro (che sarebbe proibito). Dall’altra parte della piscina ci stanno persone più giovani. Io non riesco a distinguere se sono tutti maschi oppure in mezzo c’è qualche femmina (che sarebbe proibito) ora non lo saprei dire. Ad un tratto uno degli uomini grassi viene verso di me con l’intenzione di baciarmi sulla bocca. Io in quel momento ho una erezione ma razionalmente la cosa mi disgusta. Subito dopo tutta la piscina si prosciuga e sul fondo restano salamandre e rane che mi fanno molto schifo. Ci faccio qualche passo sopra e ne schiaccio qualcuna. Vedo il loro sangue sui miei piedi. Mi sveglio parecchio angosciato.
Il marchese de Sade per primo ha esplorato con la ragione più lucida e allucinata questo abisso della psiche, mettendone in luce gli aspetti più inquietanti, ma anche l’anelito di libertà assoluta rispetto a tutti i limiti che dietro quegli abissi si cela (come hanno ben compreso due suoi attenti lettori come Blanchot e Bataille), e che ci dice qualcosa di profondo sull’animo umano.
Il sogno del signore cinquantenne mette in luce due ambivalenze: quella sessuale e quella tra desiderio inconscio e volere razionale. Per lui le due cose non possono…sposarsi. Infatti si sveglia nell’angoscia del sangue da lui prodotto. Alla mia domanda sul sangue la sua associazione infatti è “sangue mestruale”.
LA LUSSURIA: IL “TROPPO”

ITALY – CIRCA 2002: The Three Graces, detail of the allegory of spring, ca 1477-1490, by Sandro Botticelli (1445-1510), tempera on wood, 203×314 cm. (Photo by DeAgostini/Getty Images)
Uno dei significati etimologici di lussuria è sovrabbondanza (come diceva la mia amica all’inizio), roba in più. E’ simile al termine ” lussureggiante”.
Una signora allora quarantenne, alla mia domanda: “Sesso?” lei mi ha risposto dritta dritta: “Massa grassia S. Antonio!”
Che con il marito avesse una buona intesa sessuale, almeno dalle sue parole, non c’erano dubbi. Ma l’inconscio la richiamava all’ordine , “massa”, cioè troppo, è sempre troppo. E il troppo storpia.
Ecco direi che la lussuria, almeno nella accezione della nostra società, si avvicina molto al concetto di eccesso, troppo, sovrabbondanza che può fare male.
Per cui la cura potrebbe anche essere la continenza.
Nella clinica ho notato purtroppo che questa continenza a volte diventa inibizione.
Un ragazzo di ventisette anni (sulla cui diagnosi di borderline non esistevano dubbi), mi raccontava che aveva stabilito quante masturbazioni (il termine slang lo conosciamo tutti) avrebbe praticato nella vita per non eccedere oltre e ammalarsi. Ovviamente donne niente. Era uno studente un po’ in ritardo di Ingegneria elettronica a Vicenza. Non è venuto tanto tempo, quindi non posso dire se e quando abbia esaurito le cartucce, ma soprattutto se, in qualche maniera, si fosse trovato da qualche parte una donna.
La lussuria allora penso sia darci tanto dentro con il sesso fino a finire il serbatoio, al maschile ma anche al femminile.
Ai primi tempi della mia pratica psicoterapica, veniva da me una bellissima ragazza che si masturbava strusciando il proprio sesso sullo spigolo di un tavolo. Alla mia domanda se non potessero esserci altre modalità meno “atletiche” lei mi rispose che lo aveva fatto per la prima volta ascoltando i propri genitori nella camera da letto. E da lì non si era staccata. Troppo, per l’appunto. E l’Edipo, se non viene elaborato, porta sempre alla coazione a ripetere.
Che la lussuria sia, gratta gratta, in fin dei conti una coazione a ripetere sesso con se stessi e con gli altri?
I moralisti hanno sempre collegato questo termine (lussuria) al piacere che denominavano come “delectatio venerea” ed era soprattutto contro questo che si accanavano. Era infatti uno dei campi in cui non si ammetteva “parvità di materia”, secondo il gergo dei manuali di teologia morale. Questa espressione significava che in questo campo non era possibile applicare la categoria del “peccato veniale”, lieve, tutto essendo catalogabile sotto la prospettiva del” peccato mortale”. E’ vero che, come era abituale in questa disciplina, entravano delle eccezioni e delle sottili distinzioni.
Su tutto però troneggiava il principio aureo della totalità e della assolutezza della non parvità di materia che – lo sottolineiamo – riguardava anche il desiderio.
Saltellando tra i due giochi linguistici, quello della teologia morale e quello che sto usando io in questo scritto, si può parlare di onnipotenza e di totalità La “delectatio venerea”, il piacere sessuale prende tutto per cui non si può sezionare, si deve usare un codice totalitario dell’ o/o del bene/male: non si danno sfumature.
E’ questo un atteggiamento molto infantile, riconducibile-dal punto di vista analitico- alle fasi molto precoci dello sviluppo, alla posizione schizo- paranoide, secondo il modello kleiniano o alle fasi onnipotenti infantili secondo una accezione più largamente freudiana. In tutti i casi siamo in presenza di una posizione rigidamente binaria, senza sfumature, in cui predominano particelle o/o, spada di Damocle dei sentimenti e delle emozioni.
Eppure il piacere sessuale è così sfumato, eppure il piacere sessuale è così complesso e si coniuga in così svariati registri che è difficile riuscire a schematizzarlo.
Qui, a mio modo di vedere, subentra una riflessione che tocca il cuore del problema.
- Pohier, un domenicano francese che per primo ha affrontato in maniera rigorosa i rapporti tra pensiero psicoanalitico e religione, tra psicoanalisi e teologia, ha scritto pagine molto belle e importanti su questa problematica. Purtroppo sia in chiave cattolica che laica il suo pensiero non è molto conosciuto anche perché’ a un certo punto ha dovuto tacere.
Dal punto di vista cattolico, sottolinea Pohier, la sessualità è stata vista come un male, per lo meno fonte di grandissimo pericolo, esorcizzabile in vari modi e normata in maniera rigida e assolutista; è stata vista come il “regno del male“ da cui guardarsi, permessa solo in una istituzione rigidamente controllata come il matrimonio, asservita quindi ai fini istituzionali della procreazione, figlia della istituzione in cui sola può essere legittima.
E nello stesso tempo la sessualità in tutte le altre religioni è collegata con il divino, con la esperienza dell’”altro”, è la porta di ingresso del giardino del piacere infinito o è addirittura il giardino stesso.
“Non potete essere come dio, se mangiate di questo frutto morrete”: molte interpretazioni della pagina biblica hanno fatto centro sulla realtà sessuale vista come un tabù, un caso riservato a dio che non poteva essere toccata pena la morte. Ricordo ancora che i sette peccati si attirano come le ciliegie.
Le interpretazioni più accettate oggi dal punto di vista antropologico vedono questo come conseguenza della “paura del piacere”, visto come qualcosa di tremendo e fascinoso: gli stessi aggettivi attribuiti a Dio come misterioso, perché non esauribile in nessuno schema interpretativo, troppo grande per essere compreso in alcunché, troppo potente per essere lasciato a briglie sciolte.
Il piacere mi verrebbe da dire, per definizione è “doppio”, ambivalente.
La parola “perversione” si trova originariamente in Freud come una deviazione dell’atto sessuale normale, inteso come coito e atto a ottenere orgasmo mediante penetrazione genitale, con una persona del sesso opposto.
Perversione in Freud è quando l’orgasmo è ottenuto con altri “oggetti sessuale” (omosessualità, pedofilia, contatti con animali, etc.) o con altre zone corporee (coito anale, etc.) o quando l’orgasmi è ottenuto in modo imperioso attraverso altre condizioni estrinseche (feticismo, travestitismo, voyerismo e esibizionismo, sadomasochismo).
Non è difficile capire come la Psicoanalisi stessa e anche il senso comune siano mille miglia lontane dalle prime formulazioni freudiane.
Ora in Psicoanalisi si intende comunemente come perversione un modo di essere e di comportarsi che vada oltre e fuori dalla norma. Non certo quella della sessualità tracciata da Freud.
Da qui il peccato e la normativa tanto più rigida quando proveniente dalla istituzione religiosa.
Nessuno oggi sostiene che non ci debba essere una normativa del piacere; Freud, accusato da ogni parte di sfrontatezza sessuale, ha, nella sua metodologia un rigore quasi puritano. Al principio del piacere si affianca il principio di realtà, non solo come elemento epistemologicamente irrinunciabile, ma anche come criterio di sviluppo e di normalità.
Non si vive nel solo principio del piacere, pena la psicosi.
Molti anni fa è venuta da me per poche sedute una coppia di farmacisti (maschio e femmina). Le modalità del loro…rapporto sessuale, non differivano di molto. Il marito indossava un tutù e calze a rete. La moglie lo penetrava analmente con un fallo acquistato in un porno shop. Cosa sorprendente era che entrambi avevano un orgasmo tanto rapido quanto soddisfacente.
Alla mia domanda: “Si ma in questa pratica dov’è l’amore” loro sono rimasti zitti come a dire…”ma non capisci che questo per noi è amore?”
Nulla da aggiungere.
LUSSURIA E LETTERATURA
Traggo queste riflessioni conclusive da uno scritto di Mons. Ravasi.
Lussuria: l’eros senza pienezza.
«Nella seduzione, beatitudine;
sciagura a prova fatta.
Un sorridente sogno, prima;
una chimera, dopo.
E’ cosa che chiunque sa bene.
Ma nessuno sa bene sottrarsi
al cielo che conduce gli uomini
in tale inferno».(Sonetto 129)
Ancora una volta è il genio di Shakespeare a intuire nella trama di una vicenda erotica tutto il miele e il fiele che vi si celano. Gli approcci amorosi sono un mirabile gioco di seduzione che genera felicità e attesa.
Tutto appare come un sogno dorato, un dolce vagheggiamento. Ti sembra di essere così lieve da toccare il cielo. Ecco, però, a questo punto il crinale: è significativo che spesso si usi un verbo brutale come “consumare” per indicare l’atto sessuale, quasi fosse un dare fondo a un piatto più o meno prelibato o esaurire una scorta di energia; anche la comune locuzione “fare all’amore” riduce una realtà così complessa e simbolica a un oggetto da manipolare e da modellare o a un atto da eseguire.
In realtà la parole “consumazione” è una parola sostanzialmente giuridica: sancisce che evento c’è stato, inizio c’è stato e adesso si procede, magari verso la consumazione totale (della vita).
Ora, se è vero, come affermava lo scrittore austriaco Karl Kraus, che «il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti» che hanno una base comune nel carbonio, cerchiamo innanzitutto di risalire alla matrice di partenza da cui si diramano la virtù dell’amore e il vizio della lussuria.
Sesso, eros, amore. Torniamo con la mente alla coppia di farmacisti.
Il paradigma strutturale della sessualità umana ha il suo asse portante nella sua “simbolicità”. “L’uomo assegna alla relazione sessuale, a differenza dell’animale, una molteplicità di valori ulteriori che travalicano la mera copula, il puro e semplice congiungimento carnale, regolato dall’estro e dall’istintività”. Scrive Ravasi.
Questa “eccedenza” è, quindi, di indole non fisica ma ideale e spirituale. Potremmo, perciò, ricomporre questa esperienza umana secondo tre livelli coordinati, che la lussuria invece scardina e deforma. Il primo è quello del sesso nella sua fisicità e biologicità: appetitus ad mulierem est bonum donum Dei, recitava un adagio medievale, che pur nella forma maschilista del tempo, ben illustrava la legittimità della pulsione sessuale, definita un “buon dono divino”.
L’uomo e la donna, però, non si fermano a questo livello dinamico-istintuale, iscritto nella loro stessa organicità fisiologica. Essi ascendono a un piano superiore di natura squisitamente simbolica: l’eros, che è desiderio allusivo, passione, tenerezza, intuizione della bellezza, fascino, attrazione, fantasia, gioco dell’apparire e dello sparire, del velarsi e dello svelarsi. L’eros lascia, come nei testi poetici, ampi spazi bianchi che ciascuno colma con la sua creatività, con l’invenzione, l’intuizione, la proiezione verso significati ulteriori.
Si ha, dunque, con l’eros – che non è da confondere con l’accezione popolare ora dominante, soprattutto nella forma già ridimensionata di “erotismo”, ove è spesso sinonimo di pornografia – un trascendimento della mera corporeità e carnalità. Ma sappiamo che la carne è debole, ammesso che lo spirito sia forte.
È, però, aperta una terza strada che porta a pienezza la parabola della sessualità umana. Si tratta del livello dell’amore che ingloba in sé e trasfigura le tappe precedenti, conducendo alla comunione e alla donazione reciproca.
Illuminante, al riguardo, è lo straordinario poemetto biblico del Cantico dei cantici che, senza falsi pudori, esalta il rilievo della fisicità nella reiterata descrizione dei corpi dei due innamorati (cc. 4; 5; 7), ma che conduce all’ebbrezza di un eros fatto di passione e di fascino per approdare all’apice della mutua appartenenza dei due protagonisti, all’amore appunto. Due professioni di amore della donna del Cantico sono fondamentali per illustrare il vertice e la meta del paradigma descritto: “Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio” (cc. 2, 16; 6, 3).Sappiamo benissimo che il possesso non è dell’amore. E quanto la pretesa di possesso porti violenze e lutti tra le persone (che “non” si amano, ma si illudono.
A me è capitato tante volte nella clinica di “sconsigliare” la continuazione di un rapporto tra giovani quando mi accorgevo che le condizioni iniziali erano proiettate verso una nefandezza, verso un femminicidio.
Alla “meccanica” del sesso si associa lo sfarfallio creativo dell’eros che sboccia nella donazione d’amore. Questo trittico compone la completa e autentica sessualità umana. Scindere questa trama ideale e accontentarsi solo del primo livello, è quello che noi denominiamo come “lussuria”.
Anche un eros del tutto sganciato da un’intimità d’amore – intimità che rende i due veramente “una carne sola”, ossia un’unica esistenza e corporeità (secondo il celebre asserto di Genesi 2, 24) – è ancora un’incompiutezza, una pienezza non raggiunta, una perfezione che aspira ad attuarsi.
Infatti come suggeriva il teologo svedese Anders Nygren – continua nel suo discorso Ravasi – in un noto studio dal titolo Eros e agape (1930), a differenza dell’agápe che designa l’amore cristiano, l’eros è ancora possesso, è tensione verso la bellezza o il valore dell’altro per conquistarli; il partner rimane ancora per certi versi un oggetto, anche se trasfigurato. L’amore è, invece, donazione reciproca libera e gioiosa, che riconosce e crea il valore dell’altro in un’operazione al tempo stesso epifanica e creativa.
La logica della “liberazione”.
Ebbene, la lussuria rispetto alla trilogia appena illustrata segue un sistema alternativo che risponde a un’altra concezione. Si cancella la simbolicità radicale dell’umanità e ci si avvia verso una frammentazione e materializzazione della creatura umana. Cerchiamo, allora, di identificare alcune caratteristiche di questa logica che “perverte” l’armonia unitaria della triade.
Un primo aspetto di questa nuova visione è la logica della “liberazione”, codificata nel mito del “corpo liberato”. Il punto di partenza è stata la ribellione a quelli che erano ritenuti vincoli repressivi, siano essi naturali o culturali. Si voleva elaborare un nuovo codice che non avesse norme, ma fosse solo retto dall’immediatezza, dall’“irregolarità”, dalla pulsione.
Certo, non c’è bisogno di ricordare che sulla sessualità umana – a partire dalla depressione svalutativa introdotta dalla cultura greca riguardo alla corporeità, considerata tomba dell’anima –si era stesa una pesante stratificazione moralistica, ascetico-puritana. Essa aveva scardinato a suo modo l’interazione sesso-eros-amore: la stessa interpretazione allegorica del Cantico dei cantici, che trasformava quei corpi e quella coppia in evanescenti o trasparenti metafore spirituali dell’anima e di Dio, ne era una conferma emblematica.
Da quell’eccesso spiritualistico si è precipitati nel polo opposto di una carnalità istintiva reiterata, spoglia di qualsiasi valore aggiunto che non fosse quello della spontanea e immediata fruibilità. Quello che Dante definiva un “seguir come bestie l’appetito” sessuale (Purgatorio 26, 84) è celebrato come liberazione da tabù oppressivi e repressivi.
Si giunge anche al punto di concepire un modello che cancelli le differenze: pensiamo a certe rockstar che incarnano un indecifrabile androginismo, al traffico notturno dei travestiti, ai segni sessuali miscelati in combinazioni che forzano la stessa fisiologia umana. La scelta operata è un po’ quella che puntualizzava ancora Dante a proposito dei “peccator carnali”, cioè coloro “che la ragion sommettono al talento” (Inferno 5, 39).
La qualità viene così ricercata attraverso l’eccezionalità stravagante. Lo spirito di emulazione riduce la sessualità a esercizio, a sfida, al ricorso a stimolanti sempre più eccitanti, a una pornografia sempre più bieca, all’imitazione che incide anche nel corpo attraverso la chirurgia estetica, capace di enfatizzare alcune componenti sessuali. Il sesso rimane, così, imprigionato nella sua materialità denudata da ogni segno simbolico, è solo “carne” e l’uso e l’abuso del nudo televisivo o pubblicitario ne è la continua attestazione. Mai come in questo caso si vede che la virtù calpestata non è tanto quella della castità quanto piuttosto quella della temperanza, e il vizio che può essere appaiato alla lussuria è quello di gola, come insegnava il film La grande abbuffata di Marco Ferreri.
La logica del possesso
Un ulteriore aspetto della lussuria si esprime nella logica del possesso. Proprio l’incapacità dell’ammirare e vivere la qualità conduce a un accumulo di “quantità”: si moltiplicano le esperienze illudendosi che per questa via si raggiunga la profondità di un incontro. In realtà si rimane sempre a un contatto di pelle, a un accoppiamento che non ha neppure come effetto il piacere. Si configura, così, un vero e proprio mercato del sesso che mette “on-line” i suoi prodotti. Significativa è l’offerta sessuale virtuale attraverso Internet: una fredda e anonima consumazione di atti solitari, con la sicurezza di poter dominare l’altro, senza impegnarsi in un incontro di persone.
Questa riduzione del dialogo amoroso a semplice acquisto e possesso di una serie di immagini mobili, di oggetti manipolabili, molto meno impegnativi del confronto interpersonale, era già stata configurata nella mitologia.
E’ la figura virgiliana di Pigmalione, re di Tiro, che s’innamora talmente di una statua d’avorio della dea Afrodite, da desiderare di unirsi ad essa.
Il mito ha, però, un esito liberatorio perché la dea fa vivere la statua, trasformandola in una donna che Pigmalione sposerà. Ben diverso è lo sbocco del cultore odierno di icone erotiche virtuali: egli in un certo senso si riduce ad aggrapparsi a una statua, a una cosa, in una forma maniacale di possesso.
E’ ciò che è stato rappresentato, ad esempio, nel film Life size – Grandezza naturale, diretto nel 1974 da Luis Garcia Berlanga con Michel Piccoli nelle vesti di un dentista parigino che si fa pervenire dal Giappone una donna-bambola di gomma, anatomicamente completa e appunto di grandezza naturale, innamorandosene follemente e gelosamente.
La logica dell’eccesso
Un altro film, ancora con Michel Piccoli ma anche con Gérard Depardieu e Ornella Muti, ci introduce in un terzo aspetto della lussuria, quello che potremmo definire la logica dell’eccesso. Il film, diretto da Marco Ferreri nel 1976 s’intitolava L’ultima donna e vedeva come protagonista un giovane professionista violento che, abbandonato dalla moglie, passa di amante in amante sempre con la voluttà del dominio e alla fine si decide a compiere su se stesso un’emblematica evirazione. Sì, perché l’eccesso conduce a impotenza. Il possesso, a cui prima si accennava, ti permette certo di acquistare quanto vuoi, più o meno, come accade per le auto che di solito la pubblicità associa a fanciulle discinte e provocanti: possedere l’una è come avere l’altra, con una gratificazione sociale e sessuale. Il ricco può ostentare un parco-macchine e un harem di ragazze.
Questa dismisura incontinente ha come risultato paradossale la caduta della potenza sessuale e del desiderio, la saturazione e persino la paura. La donna, sempre più aggressiva ed eccessiva nella seduzione, spesso non attira ma allontana. E soprattutto questa esplosione pirotecnica di sessualità, che non è mai integrata da un tessuto di passione, di tenerezza, di vero eros e, naturalmente, di amore, alla fine ha come approdo la solitudine. Il grande mercato del sesso imbandito dalla pornografia virtuale o cartacea, esaltata da un’offerta esasperata ed estenuante, produce non la sazietà che colma lo spirito ma la nausea che genera anoressia comunicativa. L’uomo contemporaneo, libero da ogni vincolo, dopo aver percorso tutte le strade della trasgressione, si ritrova non pieno di esperienze ma colmo di vuoto e solitudine.
In una raccolta di saggi intitolata suggestivamente La terra desolata dei teenagers (1990) Raymond Jalbert rappresentava così quelli che definiva “i ragazzi nello scantinato”, sepolti appunto nell’incomunicabilità di un oscuro bassofondo: “Occhi incollati alla tv, orecchie sigillate dalle cuffie, lasciato a se stesso, un estraneo in casa sua. Ma un giorno dovrà unirsi al mondo di sopra e non ce la farà a sopravvivere”. E’ incredibile, ma proprio quell’assoluta moltiplicazione di contatti sessuali immediati, ha prodotto isolamento perché l’uomo e la donna non sono organi sessuali in azione ma persone che col corpo devono non solo consumare ma comunicare la loro umanità.
La logica della spudoratezza
C’è un quarto elemento che contribuisce a demolire l’armonia unitaria tra sesso, eros e amore: è la logica della spudoratezza. Si badi bene che non abbiamo parlato semplicemente di “impudicizia” che è il frutto scontato della lussuria, incapace di conoscere la delicatezza dello svelamento, dell’ammiccamento, della finezza. La spudoratezza è l’ostentazione non solo della nudità fisica ma anche di quella intima. Il filosofo Max Scheler giustamente osservava nell’opera dedicata al Pudore e sentimento del pudore (1933) che esso “consiste in un ritorno dell’individuo su se stesso, volto a proteggere il proprio sé profondo dalla sfera pubblica”.
Ognuno calibra questa rivelazione secondo cerchi concentrici che vanno dall’intimità più intensa con chi ti ama e col quale sei in comunione di vita interiore fino alla chiusura più netta con chi ti è estraneo a cui riservi solo l’esteriorità che è, però, pur sempre un certo svelamento di sé (talora inconscio e incontrollabile).
Oggi, invece, in certi programmi televisivi, che sono “osceni” anche nel senso etimologico del termine perché mettono sulla ribalta della scena vergogne di ogni genere, si assiste alla caduta di ogni pudore, proprio perché non esiste più la comunicazione modulata e personale, ma solo l’apparire volgare. Si vomita spudoratamente tutto il contenuto dell’anima, dopo essersi denudati anche sessualmente nell’impudicizia.
Alla base di tutto questo c’è un nuovo imperativo dell’odierna comunicazione di massa: per essere bisogna apparire. E così, dopo aver mostrato corpo e cose, pur di essere apparendo, si svuota il repertorio segreto dell’intimità, a partire proprio dalle cosiddette “storie d’amore” che in realtà sono solo storie di sesso. La precedente logica del mercato ha qui una sua variante, rendendo pubblico e di proprietà comune ciò che dovrebbe essere personale e privato, in un colossale emporio in cui si vende ancora e solo sesso.
La logica della riduttività.
C’è una ultima forma di abbattimento del paradigma iniziale fatto di armonia tra sesso, eros e amore: è la logica della riduttività. È forte ai nostri giorni, in nome delle pur giuste autonomie delle scienze, la tentazione di procedere soltanto settorialmente, secondo statuti stabiliti e definiti, rendendo totalizzante ed esclusivo un solo approccio a una determinata realtà. Nel campo della sessualità un evento importante è stata l’introduzione della psicoanalisi. Il suo contributo è, al riguardo, di grande rilievo e non può certo essere marginalizzato. Basti solo evocare il nome di Sigmund Freud per riuscire a comprendere come, dopo di lui, non sia possibile anche al filosofo e al teologo moralista analizzare la sessualità senza tener conto delle interpretazioni e delle osservazioni dello studioso viennese.
Detto questo, però, non si può condividere quella sorta di integralismo psicoanalitico che Freud alla fine ha imposto nella sua concezione della sessualità e della stessa persona umana. La legittimità di altri approcci permane; anzi, è necessario che i criteri di verifica e di giudizio di una realtà così complessa com’è l’uomo e la donna rimangano ancora in funzione. A nostro avviso l’anima umana, la psychè, comunque la si intenda, è molto più ampia della “psiche” freudiana e rivela altri livelli di manifestazione. Gli approcci esclusivamente psicologici o neurologici della sessualità, pur indispensabili, non riescono a esaurire la ricchezza e la grandezza del fenomeno umano e della sua sostanza metafisica e esistenziale. La logica della riduttività impedisce un’analisi globale, rispettosa della diversità e della molteplicità. Essa non riuscirebbe mai a spiegare, ad esempio, il senso della castità che non è un “andare vestiti tutti d’acciaio”, come diceva John Milton, pur grande poeta inglese.
Un filosofo “laico” ma capace di evitare ogni riduzionismo come Salvatore Natoli nel citato Dizionario dei vizi e delle virtù (1996) scriveva acutamente: “Vi sono uomini di Chiesa che per primi sviano l’attenzione: proponendo una versione etico-moralistica della castità, ne impoveriscono il valore simbolico, impediscono l’insorgere di quello spaesamento che invita perfino gli estranei a domandarsi:… E se vi fosse dell’altro? Vi sono uomini che lo testimoniano nella loro carne secondo le antiche parole: Perché Tu hai già preso possesso delle mie viscere. E non sono folli, sono amanti. Amanti di Dio”.
Parole folgoranti che inducono anche nel libertino deluso il sospetto e che insediano una bandiera di libertà ben diversa da quella impugnata da chi si illude che essa sventoli solo nell’eccesso e non nell’ascesi. A proposito di quest’ultima, è riduttivo concepirla come “rinuncia” perché in greco àskesis è “esercizio” e, quindi, è abilità, creatività, padronanza di sé. Il corpo dell’acrobata e della danzatrice classica sfida la gravità, si fa lieve, è dominatore perché è dominato, si libra nello spazio in libertà assoluta perché è controllato. Tutto questo sboccia non dalla corrività bensì dall’esercizio, dalla fatica che diventa bellezza, dalla rinuncia a un piacere per aver un godimento ben più emozionante e sublime.
“A immagine di Dio, maschio e femmina li creò”
La lussuria tenta, dunque, brutalmente di tarpare le ali a un’ascensione verso il valore pieno e “simbolico” della sessualità umana, nella convinzione che sia l’agitarsi eccitato, frenetico e scomposto della libidine la grande possibilità di godimento, di felicità, di appagamento. Thomas Stearns Eliot nel Frammento di un agone (1922) sintetizzava in modo incisivo la brutalità riduttiva di una certa lettura della persona umana: “Nascita, copula e morte, / tutto qui, tutti qui, tutto qui, / nascita, e copula e morte. / E se tiri le somme, è tutto qui”.
Ad andare oltre questo riduzionismo è in particolare la genuina teologia cristiana. Proviamo, allora, ad abbozzare un ritratto della persona secondo la Bibbia per intuire quale collocazione abbia la sessualità. Già si è visto – attraverso il Cantico dei Cantici – che la sua anima profonda è donazione, comunione totale, intimità personale.
A mio modo vedere solo la connotazione dell’uomo e della donna. Nelle loro declinazioni.
Un giovane gay viene da me da parecchi anni. Il problema fondamentale è che lui aveva una identificazione legata alla sua omosessualità che aveva a che fare con le barzellette, i film di Pippo Franco o di Banfi, delle prese per il sedere che aveva ricevuto in tram a Padova, etc. Il lavoro grosso e di successo con questo giovane uomo è stato quello di aiutarlo a pensare se stesso come un uomo, che amava un altro uomo (con cui convive da qualche anno) e non alla “checca” delle barzellette.
D’accordo, non gli è ancora facile baciare sulla bocca il suo uomo al mercato del paese. Ma ci arriverà.
Come ci è già arrivata una giovane donna lesbica che ho seguito da molti anni. Poi l’ho persa di vista. L’ho trovata qualche tempo fa, mano nella mano, con la sua compagna. Vedevo che era ancora un po’ imbarazzata. Quando mi ha visto mi è corsa vicino con la sua compagna per mano e mi ha detto: “Dottore, quanto tempo che non la vedo!!!). Questa è stata una delle mie soddisfazioni professionali più grandi. L’altro che si autorizza da sé dopo avere fatto un lavoro con me che lo/la occupata parte della sua vita.
Il lettore, a titolo di diritto, può chiedere che cosa c’entrino questi esempi, questi casi clinici nel tema della lussuria. Io rispondo semplicemente che in questi casi il piacere è stato abilitato, nobilitato, reso normale quando la Storia precedente tanto normale non lo aveva trattato. Tutto qui. La Storia passata, passata nei secoli e nelle ideologie, ha sempre inteso il piacere sempre come troppo. Il Piacere, anche quello sessuale, se misurato, non è lussuria: e’ il corpo che ama un altro corpo. Nulla di più e nulla di meno.
CONCLUSIONE
C’è, però, un altro passo che è posto “in principio” alla Bibbia stessa, quasi come un’asserzione di principio. E torno a riferirmi a Mons. Ravasi. Si legge, infatti, nella Genesi: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (1, 27). L’elemento curioso di questa dichiarazione non è semplicemente nell’assegnazione alla creatura umana di una “immagine divina” attraverso l’anima, quanto piuttosto nell’identificare tale “immagine” proprio nella bipolarità sessuale e, quindi, nella coppia maschio-femmina. E’ ciò che risulta dallo stretto “parallelismo” semitico che regge la frase: a “immagine di Dio” corrisponde appunto “maschio e femmina”. Dio, allora, è forse sessuato e, accanto a lui, si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese o la Giunone latina? La risposta è ovviamente negativa, sapendo con quanta asprezza la Bibbia polemizzi contro nozze e coppie divine e contro i culti della fertilità diffusi in tutta l’area dell’antico Vicino Oriente.
“In sé la sessualità umana – scrive Ravasi – contiene un germe che può fiorire nel cielo della bellezza e dell’amore. Il vizio è limitazione, riduzione perché restringe e mortifica le potenzialità trascendenti che la persona umana ha in se stessa. Apparente celebrazione della libertà senza vincoli, la lussuria si ritrova incatenata alla bruta “consumazione”, alla reiterazione, all’isolamento possessivo. Ignora la creatività dell’eros autentico, i palpiti emozionanti del sentimento, il fascino della totalità insito all’amore. Il grande tragico greco Sofocle (V sec.a.C.). che pur conosceva i meandri oscuri e indecifrabili della sessualità, nell’Edipo a Colono concludeva: “Una parola ci libera da tutto il peso e il dolore di una vita: questa parola è amore”. E chi ha vissuto un amore pieno e genuino può comprendere senza esitazione ciò che un lussurioso non capirà e che lo scrittore francese François Mauriac così descriveva nel suo diario: “L’amore coniugale, che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune”.
Io aggiungerei che il coniugio non è necessario. C’è tanta tristezza e tanto dolore nel mondo che non occorre circoscrivere il piacere in categorie a volte troppo strette e troppo oppressive.
GUIDO SAVIO