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GUIDO SAVIO: I SETTE VIZI CAPITALI: 3 – IRA

Ira : adirarsi è davvero un peccato?

 

 

 

TESI

 

 

L’ Ira, a mio modo di vedere, è sostanzialmente mossa o scatenata da un “pensiero” di ingiustizia subita. Ira determinata dalla impossibilità di accettare la diversità ( dunque anche la forza) dell’altro perché nell’altro si vede, come in un film, o una moviola, il primo offensore. Quello che secondo l’iroso ha inferto il primo colpo. Che si tratti poi di una persona reale, dei fatti della vita, o della fantasia, o dei fantasmi, o delle pare nostre, dei nostri lutti patito, delle angherie subite, delle vessazioni di chi era più forte di noi, del padre violento, della madre dimentica, del socio di lavoro infedele, della moglie infedele, di quello che in cento, mille anni non mi ha mai passato il pallone, ed io ero in una posizione migliore della sua per fare gol… e lui, lo stesso, ha tirato in porta a tre metri fuori dal palo, ignorandomi (il superbo), tanta differenza non fa

L’ira è un pensiero di ingiustizia subita: l’altro avrebbe potuto e dovuto fare meglio di come ha fatto per me e magari anche con me.

 

L’ira, come mi scriveva una mia amica è “sdegno per la propria incapacità di fare andare le cose, o le persone, nel modo che vorremmo. L’ingiustizia tuttavia è nella natura delle cose, nella nostra impotenza e finitezza, nella imperfezione e anche irrazionalità del nostro essere al mondo”. E io sono perfettamente d’accordo.

 

Ma sono anche dell’avviso che ci sia una ira buona e una ira cattiva, tanto per non andare per il sottile nella enunciazione.

 

Quel rissoso, irascibile, carissimo Braccio di Ferro” è per me sempre stato invece il prototipo dell’iroso “buono”, non patologico, non “vizioso”, anzi semmai comprensivo su quelle realtà umane (a partire dalla propria) di cui mi ha scritto la mia amica.

Il rappresentante della incontinenza, del “non poterne fare a meno” da cui tutti noi umani siamo presi (è la nostra humanitas) e che per certi autori si è trasformata in una domanda: quella appunto che compare nella titolazione di questo saggio. Dico due parole su Braccio di Ferro, così, senza tanto scopo alcuno ma per curiosità (spero) del lettore.

 

Nato dalla mente del fumettista statunitense Elzie Crisler Segar (1894-1938), il personaggio di Braccio di Ferro (Popeye) comparve nel 1929 per la prima volta nella striscia Thimble Theatre, pubblicata dai giornali d’oltre oceano dal 1919.

Agli esordi, non erano gli spinaci a dare la forza prodigiosa a Braccio di Ferro. Al personaggio bastava strofinare la testa di una gallina magica di nome Bernice.

Nella stessa striscia, già comparivano tre personaggi in seguito appre

zzati anche dal pubblico italiano: Olivia (in origine Olive Oyl), Poldo Sbaffini  (J. Wellington Wimpy) e Pisellino (Swee’ Pea).

Braccio di Ferro è dotato di una forza sovrumana donatagli dalla gran quantità di spinaci in scatola, che ingerisce nei momenti di necessità. E’ il sapersi aiutare dell’uomo, il darsi coraggio da sé che invece all’iroso vero e patologico è impedito. Ecco, direi anche (linguaggio slang) che l’iroso del vizio capitale è un impedito, un inibito, che a volte sa trasformare in sangue versato nella propria frustrazione, ma non sa versare sangue dentro se stesso per autocurarsi, né negli altri per curarli.

 

Ecco invece, è proprio la necessità, l’obbligo sano, la coazione non patologica, la spinta vitale che determina la fuoriuscita dell’ira “a fin di bene” che mi ha sempre fatto amare e entusiasmarmi per questo personaggio dei fumetti e dei cartoons: la sua umanità e debolezza, il suo non saper contenere, o contenersi, il suo scaricare l’iconscio buono fino al buonismo, ricorrendo all’ira e, a volte, anche alla “violenza”.

 

Domanda. Quante persone invece sono realmente irose e provocano danni all’altro perché tacciono o stanno fermi quando dovrebbero invece parlare e agire?

 

Tornando al discorso generale, io vedrei l’ira come “minaccia (difesa da)”. Tuttavia vorrei fare presente fin dall’inizio che l’ira non è conseguenza oggettiva (post hoc, propter hoc) di una minaccia reale subita o di un reale torto o ferità subita, ma solo il pensiero, meglio, l’autorizzazione malata che il soggetto si dà di avere diritto al risarcimento. Diritto che egli si arroga senza tuttavia che ci sia una sua elaborazione interna di pensiero né di sentimento.

 

Poi è altrettanto vero che esistono forme e esistenze di ira che sono realmente “determinate” da una violenza subita.

 

Leggevo tanti e tanti anni fa in Metropolitana a Milano un poster con un

a immagine di un padre che schiaffeggiava il figlio. “Da un padre violento non può che uscirne un figlio violento”.

 

Lascio qui al lettore valutare, anche e soprattutto in base alla sua esperienza personale, quale sia la qualità e la quantità della relazione causa-effetto della frase di questo poster metropolitano dei lontani anni (Ahimè”!) ’80.

 

La violenza si trasmette da generazione in generazione? L’ira è un sentimento che viene da una forma di identificazione, proiezione, emulazione (a volte anche ammirazione) del genitore “portatore” del terzo vizio capitale?

 

 

 

 

STORIA E FILOSOFIA

 

 

Quando entra a far parte dell’elenco dei sette vizi capitali, l’ira ha già alle spalle una lunga storia. “Ira” è la prima parola della letteratura occidentale: la mènis di Achille, la collera che “infiniti addusse lutti agli Achei”, apre il racconto dell‟Iliade di Omero e costituisce il tema centrale dell‟intero intreccio narrativo del poema.

 

Nel mondo omerico, dove l’eroe è tenuto in primo luogo a difendere il proprio gruppo sociale (oìkos) e ad affermare il proprio status personale, ogni violazione del suo onore ed ogni attacco alla legittimità del suo potere costituiscono una sfida inaccettabile, che però non può essere regolata da leggi scritte condivise o apparati politici riconosciuti come legittimi. L’affronto subito dall’ eroe anima così il desiderio di recuperare la propria rispettabilità e prelude ad un conflitto aperto tra individui, che con le armi e la violenza devono recuperare l’onore perduto (timè). L’offesa ricevuta.

 

 

I sette vizi, come dicevo nella Introduzione, sono “trasversali”, mi verrebbe da dire che vivono per attrazione, e, come le ciliegie: “una tira l’altra”. La attrazione e la vicinanza dell’ira con la superbia non ha bisogno di tanti discorsi. L’iroso è il portatore principe dell’ottavo vizio capitale: “Avere sempre ragione”. Bruciare se non ce l’ho.

 

 

CLINICA

 

 

 

Un giovane uomo, quarantenne, che viene da me per problematiche relazionali (dice lui) da un anno circa, ma il di cui malessere e soffrire, in realtà, è che è portatore di una psicopatologia che non avrei difficoltà a definire “paranoide”, porta in seduta il seguente sogno:

 

“Sono a casa della mia ragazza (che in realtà è una donna che ha dieci anni più di lui). Stiamo guardando da TV con il camino di lato che fa più fiamma di quello che dovrebbe fare. C’è anche un accenno di fumo. Io guardo con attenzione il film (Blade Runner). Il caminetto non mi interessa, mentre la mia ragazza è molto preoccupata da quel divampare, e si distrae dal film. Io seguo alla lettera Harrison Ford   e Rutger Hauer nel loro duello e dialogo finale e aspetto le frase fatidica – ‘Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi… Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione…e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire””. (Mi inserisco nel sogno solo per dire che nel film questa scena è la scena del perdono del replicante Roy Batty che salva la vita al suo cacciatore Rick Deckard, cioè Blade Runner).

Alla parola ‘morire’ mi giro verso la mia ragazza. Lei si sta trasformando in un licantropo. Faccio fatica a capire se maschio o femmina. Penso alla mia giugulare e mi sveglio in un bagno di sudore. Vorrei ucciderla” (pensiero strutturato appena fuori dal sogno).

 

Che dire del sogno. E’ un libro aperto. Il fuoco di cui si occupa la ragazza (mentre il quarantenne guarda il film) rimanda al pericolo, alla possibilità di essere distrutto senza che io lo sappia.

“A mia insaputa” è una delle più frequenti ricorrenze per cui l’ira si trasforma in violenza.

Sulla trasformazione della ragazza in licantropo (a parte gli ululati nel film di Roy Batty) c’è poco da dire: quello che poteva essere inteso come amore (il perdono del replicante) si trasforma per me in una “arma” contro di me. La mia giugulare è in estremo pericolo.

 

Infatti questa coppia cesserà di stare assieme dopo qualche mese da questa seduta.

 

Al lettore lascio un quesito: il licantropo è sia uomo che donna. Perché mai?

 

 

CONSEGUENZE

 

 

Esistono conseguenze della esplosione dell’ira e conseguenze della compressione dell’ira. Mi verrebbe da dire che possono equivalere. L’”organo deputato”, nella mia esperienza clinica, è sempre l’apparato cardiovascolare.

Tuttavia se si dice ira, per molte persone e anche nella letteratura, invece si pensa alla pancia, al non razionale, all’esplosivo, alla evacuazione, allo scaraventare fuori, al liberarsi, allo sputare addosso, e come diceva un mio amico allo “smerdare”, al dare della merda in faccia all’altro “odiato”, etc.

 

Ma io, ascoltando appunto tante persone mi sono fatto un parere diverso: si odia con il cuore e non con la pancia. E ci si sente odiati dentro la cassa toracica e non nell’addome. L’ira è pur sempre un sentimento!

 

L’iroso risponde ad un pensiero di “danno subito” e questo danno lo sente nel suo corpo e in tutte le vene che lo irrorano, nel sangue che corre…fino alla testa!

 

L’ira allora è la risposta ad un attacco a un valore che noi pensiamo di rappresentare. Si dice anche “delitto di sangue”, “questione di sangue”, “il sangue non mente”, e l’offesa subita è proprio sul sangue, sulla credibilità, sull’onore, sulla…reputazione.

 

Una signora sessantenne viene da me da pochi mesi. Ha una famiglia allo sbando. Il figlio tossico, la figlia fuggita negli Stati Uniti, letteralmente “ripudiata” dal padre. La figlia, prima di fare le valigie lascia a casa della mamma e del papà una cagnetta meticcia che abbaia in continuazione.

 

Questa signora viene ad una seduta (che poi io ho stabilito conclusiva) e mi dice quasi con nonchalance, con distacco, quasi nel mezzo del discorso che riguardava altro, che il marito aveva appeso nello stesso pomeriggio la cagnetta a una corda legata a una trave della cantina perché abbaiava troppo, e poi…”L’ha tirata giù per le zampe posteriori, perché soffrisse meno”.

 

La psicosi a deux non sempre è facile da individuare. Ho sospeso immediatamente la seduta e le sedute. Io amo gli animali e ho sempre avuto cani per casa. In quel momento, se avessi avuto il marito sotto le mie sgrinfie, lo avrei impiccato io. Ma tanto vale!!!

 

 

L’ira invece, quella “sana” (e dunque non “folle” alla Orlando) può diventare vero motore dell’azione “eroica”, come racconta la Mitologia, attraverso la quale l’uomo può dimostrare tutto il proprio valore (aretè) e la legittimità del suo potere. Essa non è allora, nel mondo omerico, semplice “rabbia”, ma “nobile impeto collerico”, sdegno profondo (soggettivamente giustificato) per un oltraggio subito, unito al desiderio di riparare il torto con azioni valorose.

 

ANCORA STORIA E FILOSOFIA

 

 

Ancora in Aristotele, nel IV sec. a.C., è presente l’eco dell’antico valore omerico della “giusta indignazione”. Per il filosofo è infatti legittimo che ci si adiri “per le cose a causa delle quali si deve, con chi si deve e come si deve”, perché “sopportare di essere oltraggiato o permettere che lo siano i propri cari è cosa da schiavi”.

 

 

Considerata in quest’ottica, l’ira non è, di per sé, un vizio, ma una semplice reazione emotiva naturale, in sé né buona, né cattiva.

Essa può –anzi deve–manifestarsi secondo una “giusta misura”, che dimostri la ferma dignità dell’uomo libero, il quale non si abbandona agli eccessi del furore incontrollato, ma neppure si mostra vile e remissivo di fronte alle provocazioni e alle prevaricazioni altrui, come farebbe uno schiavo. La condotta dell’uomo saggio ed equilibrato è quella che sa evitare gli eccessi viziosi, reperendo –di volta in volta a seconda dei casi –gli strumenti adatti e individuando le strategie migliori per far fronte alle situazioni della vita.

 

L’ira, se ben governata dalla ragione, è per Aristotele segno di forza d’animo e fermezza.

 

Sulla capacità e anche volontà di “controllare” la propria ira lascio libera licenza di giudizio e interpretazione a ogni lettore.

 

Continuando il nostro percorso storico e filosofico c’è da dire che la considerazione dell’ ira subisce una significativa modificazione nel trattato De ira di Seneca (I sec. d.C.).

Recuperando la definizione oraziana dell’ira come “follia di breve durata” (furor brevis), Seneca vede nell’ira –e nelle passioni in generale –un pericolo terribile per l’integrità della ragione umana: “La cosa migliore è disprezzare subito i sintomi dell’ira e opporci al suo stesso nascere[…]. Le passioni sono funeste sia quando fanno da serve, sia quando comandano […]. E poi, che bisogno c’è dell’ira quando la ragione coglie gli stessi risultati? Pensi tu forse che il cacciatore si adiri con le fiere?”.

 

E aggiunge ancora Seneca: “Nessuno diventa più forte adirandosi, tranne colui che senz’ira non sarebbe stato forte; essa, pertanto, non viene ad aiutare la virtù, ma a prenderne il posto. E che dire del fatto che, se l’ira fosse un bene, tutte le persone migliori vi sarebbero esposte? Eppure, i più iracondi sono i bimbi, i vecchi e i malati e ogni essere debole è per natura portato a lagnarsi”.

 

L’ l’ira, quella perniciosa e distruttiva, a mio modo di vedere, è il contrario della virtù senechiana, è sempre frutto invece e conseguenza di una forma di integralismo. Una impossibilità e una non volontà di “dia-logos” con l’altro, una presunzione dell’aver, come detto, “sempre ragione”, un non volersi lasciare toccare, contaminare Ma lascio qui così l’osservazione, il cui sviluppo porterebbe assai lontano e forse anche oltre l’intento delle cose che voglio qui scrivere.

 

Non c’è spazio per un’ira “buona” in Seneca. Essa è sempre segno di debolezza e mai di forza, come invece credeva Aristotele e anche, modestamente, chi scrive. Al pari di tutte le altre passioni dell’anima, per il filosofo stoico, essa è senz’altro un male da estirpare.

 

La stessa chiarezza di giudizio sembra caratterizzare inizialmente anche la visione cristiana dell’ira, quando Gregorio Magno (VI-VII sec. d.C.) la include tra i Sette vizi capitali. Infatti dall’ira nascono, come filiazioni da un’unica origine viziosa, il desiderio di vendetta, le ingiurie, la bestemmia, la violenza fisica, l’omicidio.

 

L’ira minaccia, al tempo stesso, l’intima armonia dell’ anima e la coesione della vita sociale. È il più eclatante e manifesto dei vizi, che rende l’uomo simile alle bestie, al cinghiale, all’orso, al toro.

 

Dice Gregorio: “Il cuore infiammato dagli stimoli dell’ira comincia a palpitare, il corpo trema, la lingua si inceppa, il viso si infuoca, gli occhi si incendiano; l’intera persona diventa irriconoscibile, mentre con la bocca emette urla senza senso”.

 

Come dicevo in precedenza l’ira sta nell’apparato cardiovascolare. E lì fa i suoi danni o crea le proprie liberazioni (se buona e ben gestita).

 

 

Dirà qualche secolo dopo il francescano Ruggero Bacone (XIII sec. d.C.) che se gli altri vizi allontanano l’uomo dalla ragione, l’ira lo precipita nella follia. Mènisha infatti la stessa radice del verbo greco maìnomai (“sono pazzo”);

 

Le Menadi o Baccanti erano, appunto, le donne che nell’antica Grecia seguivano il corteo “folle” di Dioniso. L’ira è manìa, furore debordante, delirio.

 

Tuttavia, con il passare del tempo, la classificazione che comprende l’ira tra i vizi capitali non può ignorare alcune difficoltà. In primo luogo, il recupero della riflessione etica aristotelica compiuto dall’Occidente tardo-medievale –e, in particolare, da S. Tommaso –evidenzia una difficile coesistenza tra le parole del filosofo greco (il quale, come si è visto, considera l’ira come un moto naturale dell’anima, non soggetto, di per sé, ad un giudizio etico) e l’idea cristiana secondo cui l’ira, semplicemente in quanto tale, sarebbe un vero e proprio vizio capitale.

 

Può la ragione filosofica, espressa nella sua forma più alta dal pensiero di Aristotele, essere in contrasto con la dottrina teologica dei sette vizi capitali e, dunque, con il pensiero cristiano? La seconda difficoltà, ancora più seria, riguarda ciò che affermano a proposito dell’ira le stesse Sacre Scritture. Da una parte, è chiara la sua condanna: Matteo, ad esempio, dice (Mt., 5, 22): “Chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio”. Il rifiuto evangelico della violenza si condensa poi, come è noto, nell’invito a porgere l’altra guancia, inteso come precetto etico universale.

 

Eppure, da altri passi del testo biblico si evince che può esistere anche un’ira non peccaminosa: “Adiratevi, ma non peccate!”, afferma S. Paolo (Ef.,IV, 26). Lo stesso Gesù sembra non essere affatto immune nei confronti di questa emozione quando scaccia i mercanti dal tempio, rovesciando i banchi dei cambiavalute e quelli dei venditori di colombe (Mt., 21, 12-13).

 

E che dire dell’ira di Dio, giudice implacabile delle azioni umane, capace di punire severamente ogni trasgressione dei propri decreti, come accade con Adamo ed Eva? Dobbiamo riconoscere che anche Dio scivola, talvolta, in un peccato capitale? Oppure Dio finge solo di adirarsi, restando invece intimamente impassibile, nella sua assoluta trascendenza?

 

Un giovane studente universitario di Ingegneria mi dice durante una seduta: “Sto ripetendo l’esame di Disegno Meccanico T (qui al Nordest molti giovani si iscrivono a Ingegneria meccanica perché il posto di lavoro è praticamente assicurato) per la terza volta. Studiando mi distraggo in continuazione, penso al Professore che mi ha bocciato e intanto spezzo matite, tiro calci alle gambe del tavolo di studio, fumo una sigaretta dietro l’altra ma soprattutto fisso la lampadina della mia lampada Tolomeo, fino a perdere il fuoco della vista. Mi ci vuole poi del tempo poi per recuperarlo. Quel professore (ovviamente testa di c…) lo brucerei”.

 

Io gli chiedo perchè proprio bruciarlo visto che lui, in qualche modo tenta di abbacinarsi fissando la lampadina della Tolomeo.

Lui resta lì per lì. Non ha una risposta pronta. Poi mi dice che almeno il suo Prof. farà una brutta fine, come si merita, per tutte le ingiustizie che ha operato con me e con altri miei colleghi di Corso. E il gioco è fatto. Il cerchio si chiude.

 

Si torna all’inizio. L’ira è un sentimento determinato da un “pensiero” di ingiustizia subita.

 

 

Torno alla Filosofia.

 

Queste oscillazioni che riguardano la natura dell’ira non impediscono, tuttavia, a S. Tommaso di inserirla a pieno titolo tra i vizi capitali e di consolidare definitivamente la struttura del settenario per i secoli a venire. Con una precisazione importante, però: l’ira-vizio deve essere distinta dall’ira-zelo, che è invece una virtù.

La prima mira al male di chi l’ha provocata (è la preparazione di una vendetta che prevede atti violenti verso il prossimo), mentre l’ira-zelo è rivolta esclusivamente contro il peccato (se punisce il peccatore è solo per il suo bene) e costituisce una vigile sentinella contro la miscredenza e l’immoralità. Colui che prova l’ira-zelo è, anzi, chi combatte strenuamente in difesa del cristianesimo.

 

Qui l’ira si è sottomessa al governo sapiente della ragione etica (cristiana). E proprio su questo punto passa, per Tommaso, la differenza decisiva tra vizio e virtù: se l’ira è una semplice reazione naturale, come già sosteneva Aristotele, il vizioso è invece colui che non la sa contenere e orientare, cedendo alle sue tempeste e ritrovandosi disarmato di fronte ai suoi attacchi. Il virtuoso, al contrario, sa guidare la collera e sottometterla alla propria volontà sostenuta dalla ragione.

 

Dice il monaco Pier Damiani (XI sec.): “L’ira si gonfi pure a dismisura, soffi infurii, incrudelisca, si ingigantisca; io non le darò le mie membra come armi per realizzare i suoi sforzi”. La potenza perturbante dell’ira viene qui impedita con uno sforzo di disciplinamento della propria condotta; la collera viene trattenuta nella sua protensione verso il gesto, fino a farla smorzare e spegnere dentro il proprio cuore.

 

Talvolta si pensa che “ira” sia sinonimo anche di “aggressività”, laddove invece gli psicologi delle emozioni distinguono opportunamente: l’aggressività è, come la sessualità, una pulsione fondamentale per la conservazione del genere umano, presente in ciascuno di noi come reazione ancora indifferenziata agli stimoli che la provocano.

 

In tanti anni di ascolto clinico ho raccolto (trascrivendole a fine seduta in un Moleskine) alcune ricorrenze tipiche del linguaggio dell’ira, distinguendole per scenari semantici.

Espressioni che personificano la rabbia (“La rabbia prese il sopravvento”, “Lottavo contro la rabbia”); Riferimenti alla fisica dinamica(“Incanalare la rabbia in una reazione costruttiva”, “La rabbia accumulata lo spinse ad agire”); Riferimenti ad eventi meteorologici: (“Umore burrascoso”, “Tuonare di rabbia”, “La sua faccia si era rannuvolata”); Espressioni tratte dal mondo animale(“Mettere il muso”, “Guardare in cagnesco”, “Inferocirsi, digrignando i denti”, “Andare in bestia”, “Essere inviperiti”, ed altro ancora).

 

Tutte queste espressioni largamente usate suggeriscono, in modo diverso, una stessa interpretazione: che l’ira è comunemente percepita come qualcosa di altro da noi, che di noi talvolta si impossessa e contro cui noi(che non siamo l’ira, ma la ragione) dobbiamo lottare faticosamente per poter uscire vincitori dal confronto. Vincere l’ira significherebbe allora, secondo il senso comune, tenerla sotto il dominio della ragione, funzione sovrana che custodisce la nostra integrità p

sichica e garantisce la nostra dignità di individui etici.

 

Sorge però il sospetto che sia proprio tale visione schematica e unilaterale del rapporto Ragione/Ira a non consentire alla collera naturale una misurata e salutare espressione, una manifestazione equilibrata ma vigorosa che non la faccia rimanere compressa e muta tra il contegno ipocrita delle “buone maniere” ed il potere repressivo della società (che, come sempre, si preoccupa non poco dell’ira “pubblicamente manifestata”).

 

Forse, intorno a tali questioni si mostrava molto più sottile e acuto Nietzsche, quando sosteneva che “tutti sono convinti che la ragione sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi, mentre essa è solo un certo rapporto degli impulsi tra loro”.

 

Ma che dire allora, e qui concludo, della massima espressione dell’ira? Quella di Dio.

 

 

L’IRA DI DIO

 

Per descrivere una persona al massimo della sua espressione o della sua vita irosa si usa la frase: “E’ un’ira di Dio”.

 

“L’Ira di Dio ” è una espressione entrata nel vocabolario italiano  per significare qualcosa di immensamente sconvolgente e aggressivo, qualcosa che rivoluziona una situazione, qualcosa di esplosivo.

Se noi ci rifacciamo al contesto religiosa biblico noi troviamo che il Dio di Israele si adira. Il profeta Isaia afferma “Ardente è la sua ira, le sue labbra traboccano di furore, la sua lingua è come un fuoco vorace, il suo soffio come un torrente che   straripa e giunge fino al collo…Il suo braccio si abbatte nell’ardore della sua ira, in mezzo a un fuoco vorace, a un uragano di pioggia e di tempesta…Il soffio di Jahve, come un torrente di zolfo, infiammerà la paglia e il legno ammucchiati a Tofet” (Is.30,27-33)Così il profeta Ezechiele parla di fuoco, di tempesta di ira che si infiamma(Ez.20,33). Il risultato di questa ira è la morte, (2Sam 24,15 ss.)

Notiamo come qui sono tirate in scena la vita e la morte in un crescendo d’applicazione a Dio che non rifugge da queste passioni anche se poi la lotta si pone tra l’ira e la misericordia(cfr.Is.54,8ss.)

Ho avuto modo precedentemente di affermare che la impotenza/onnipotenza è una caratteristica esplorata e rifuggita dall’inconscio, questa pellicola che avvolge l’essere umano freudiano e che lo rende un po’ simile al Dio onnipotente disegnato da tutte le religioni, segnatamente anche dalla religione cristiana che si rifa’ ai racconti biblici che abbiamo appena ricordati.

E’ vero che i contesti sono diversi e non si può estrapolare in maniera grossolana, ritengo tuttavia che attribuire alla dimensione inconscia questa caratteristica divina non è per niente arbitrario o ideologico ma fa parte della scoperta antropologica più recente, almeno sotto la griglia di riferimento psicoanalitico.

 

La clinica mette continuamente in contatto con questa parte inconscia che ogni tanto si lascia sfuggire qualche vestigia di quella divinità adirata in maniera onnipotente. La descrizione della ira di Dio precedentemente ricordata nel codice biblico, o nella dizione più schiettamente popolare, si affianca alla seguente descrizione fattami da un paziente.

Penso sia utile soffermarmi su questa narrazione perché’ permette di utilizzare un codice, appunto quello narrativo, che è molto più efficace quando si tratta di  descrivere le passioni umane.

Si tratta di una persona molto dotata, con atteggiamenti e un nucleo narcisistico assai pesantemente influente, la quale ama moltissimo le belle automobili che gli rappresentano la traduzione di una immagine grandiosa, molto vicina alla onnipotenza: proprio mentre sfida la vita e la morte in un duello, a volte aggressivo, a volte carico di soddisfazioni estetizzanti.

Questa persona oscilla tra il piacere di percorrere in maniera molto lenta le strade affollate in modo da guadagnare l’attenzione per se’ e per la propria vettura considerata parte di se’ e la rabbia di essere sorpassato, quando si sente desideroso di far notare la sua potenza (collegata con quella della sua macchina).

Una volta sogna di viaggiare con la sua potente automobile e di essere improvvisamente sorpassato da un’altra vettura. Il suo impulso è quello di innestare la marcia più bassa per far prendere ripresa al suo motore, di sorpassare colui che ha osato sfidarlo, di porsi davanti alla macchina, di frenare e di farsi tamponare. La sua ira è violenta contro chi ha osato mettere in dubbio la sua potenza; il delitto di lesa maestà esige una pena adeguata per il trasgressore che deve essere immediatamente  riportato alla realtà: non si può impunemente violare l’ordine costituito, Dio non ammette di essere surclassato,nel suo potere, da un misero mortale.

Mi sembra facile leggere in questa codificazione dell’inconscio il corrispettivo dell’ira di Dio precedentemente ricordata collegata come è per direttissima alla onnipotenza depositata nelle pieghe più profonde della psiche umana, quella che per convenzione chiamiamo inconscio, seguendo la narrazione e il modello freudiano, ma che tuttavia, al di là di ogni paradigma, noi ritroviamo presente in molti desideri di noi uomini.

L’ira di questo genere la possiamo chiamare patologica se tradotta in atto; il patologico ci rimanda a qualcosa di “male”, di non armonico e che comunque necessita di una cura, quando è possibile.

La cura analitica, per coloro che ne accettano la dimensione terapeutica e non riducono l’analisi a una pura forma di conoscenza più o meno illuministica, si propone di curare, la dove il curare significa riportare in soggetto nella sua verità. Ma la verità del soggetto è identica a quella che il racconto biblico sottintende, la verità dell’uomo è che non è Dio. Al di là delle continuazione del racconto religioso, che in maniera complessa reintroducono la divinità, come dono attraverso il codice della ”Grazia”, lo stesso messaggio afferma in maniera chiarissima la finitezza dell’uomo e la impossibilita di una equiparazione a Dio. Eppure, nelle pieghe più profonde dell’uomo stesso questo desiderio di essere dio è presente in maniera radicale, difficilmente estirpabile, solo ridimensionabile attraverso una cura di verità.

Purtroppo e per fortuna, la verità, a mio modo di vedere, divina o da lettino dello psicoanalista, è un percorso sempre a divenire. Se fosse raggiunto il traguardo…sarebbe la fine.

 

GUIDO SAVIO

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