A PARTIRE DALL’ANGELO RIBELLE
“Con le sue schiere di angeli ribelli […] egli credeva di potere uguagliare l’Altissimo, se gli si fosse opposto, e con un piano ambizioso mosse un’empia guerra nei cieli contro il trono ed il regno di Dio. Ma la sua superba lotta fu inutile, poiché l’Onnipotente lo gettò a capofitto fiammeggiante dal cielo etereo, ardente in un’eterna rovina verso la perdizione senza fine, dove dimora in catene adamantine, nel fuoco della pena, colui che aveva osato sfidare alle armi l’Onnipotente. […] Ma il suo destino gli riserva altre pene, poiché ancora lo tormenta il pensiero della felicità perduta e del dolore senza fine. Egli getta intorno il suo sguardo malefico che testimonia la sua immensa afflizione, e lo sgomento unito ad incrollabile superbia e odio tenace (J. Milton, Paradiso perduto)”.
Un signore di 52 anni fa il seguente sogno.
“Mi trovo forse sulla cima di una piramide, forse l’’ultimo piano’ di uno ziggurat. Mi pare che siamo in Iran. Con me c’è mia moglie. Ricordo che abbiamo lasciato i nostri figli, che sono più piccoli che nella realtà, in Italia. Con loro non c’è nessuno e io sono angosciato. Mia moglie la vedo più tranquilla. Mi viene in mente la pagina evangelica del pinnacolo del tempio e Satana che dice a Cristo di buttarsi giù. Mia moglie mi dice: “Buttati giù, che tanto te lo meriti”. Io non capisco in realtà che cosa mi merito. Lei mi dice “L’espiazione di tutto il male che mi hai fatto: hai sempre pensato solo a te stesso (più o meno)”.
Questo signore portava un sintomo (ricordo qui che, per Freud il sintomo “è un compromesso tra lo psichico e il somatico” in Inibizione Sintomo Angoscia). Il sintomo di questo signore era l’eiaculazione precoce, per cui, secondo lui, non riusciva a dare soddisfazione a sua moglie e questo gli comportava un “senso di inferiorità” in quanto vedeva la donna capace di “bastare a se stessa” nel piano del desiderio. Mentre lui (e tutti gli uomini come lui che portano questo sintomo) si sentiva costretto a rincorrere la donna su questo piano, sul piano sul piacere, che è il più delicato. Su per questa salita, forse della piramide, forse dello ziggurat.
La mia attenzione si è fermata sul verbo “rincorrere”.
In effetti il superbo altro non fa che rincorrere continuamente. Di solito la prestazione.Che appunto è il pensiero determinante questo tipo di sintomo.
Forse per non vedere scaraventato giù dal pinnacolo del Tempio (il suo “Ideale dell’Io” direbbe Freud).
Anzi, di sicuro per questo. Anche se nessuno questo signore lo ha messo sulla cima della piramide, dello ziggurat o del tempio, se non se stesso. Là in cima lo ha messo, questo signore cinquantaduenne, l’obbligo di offrire sempre una prestazione.
Il superbo è chi si mette troppo in alto e vive la costante angoscia di cadere giù. O che qualcuno lo butti giù.
Il signore del sogno mi dice alla fine della seduta (ovviamente in modo provocatorio): “Guardi che se mi voglio andare a fare del male, lo decido io”.
Io gli rispondo, biblicamente: “Esiste un tempo per, un tempo per, un tempo per…”.
Poi sappiamo tutti che il tempo del dolore è molto, molto più lungo del tempo del piacere. I secondi ed i minuti, e le ore passano in modo estremamente diverso. A volte eternamente diverso.
Ed ecco la interpretazione del sogno: il pinnacolo del Tempio come il Pinnacolo del tempo sono inarrivabili. Non si può dispensare il piacere come al supermercato, né riceverlo. Sarebbe l’angoscia garantita. Il signore del sogno si pone nella condizione della angoscia “garantita” perché pensa che, seppure dal suo top, dal suo alto, non riesce a dare soddisfazione. A partire da sua moglie.
LO SPECCHIO
Un amico mi diceva tempo fa, che se voglio scrivere buone cose sui Sette Vizi capitali, devo sempre tenere presente lo specchio.
E aveva ragione. Io tempo fa ho scritto che se ci fosse un ottavo vizio capitale, esso si chiamerebbe “voler avere sempre ragione”. Ora direi che chi si guarda troppo allo specchio è alla continua ricerca del proprio essere primo, proprio nel senso “dell’avere sempre ragione”. Davanti al proprio specchio. Ma, per fortuna, esiste anche lo specchio degli altri. Lo specchio del Mondo che Freud semplicemente chiama “principio di realtà”.
Nella introduzione a questo lavoro sui vizi ho parlato si onnipotenza ma credo che la parola specchio sia, anche evocativamente, quella che davvero tiene uniti tutti i Sette Vizi.
Infatti Lucifero era il più bello degli angeli e il favorito di Dio e il suo peccato fu la superbia: lui che era più in alto di tutti, poco sotto Dio, si ribellò al Creatore e cadde miseramente. Ora è Satana, il principe del male, così come la superbia –il suo peccato – è il principio di tutti i mali. Si guardava sempre allo specchio. Massimo Cacciari, mi viene in mente, parlando del tiranno gli metteva in bocca queste parole: “Ah, se fossi solo e potessi essere tutto!”.
Lo specchio non è in sé e per sé un sintomo, ma il superbo si fa bruciare gli occhi a forza di guardarlo.
Non so se “bruciore agli occhi” si possa annoverare nella psicopatologia della superbia, ma (metaforicamente o meno) mi pare il più azzeccato.
Certo è che il superbo è un ribelle alla Legge, un intromesso malamente in un consorzio umano, se si vuole anche un “odiato” dagli altri che invece…”si accontentano” (magari della loro bellezza).
FREUD E BERTA PAPPENHEIM
Freud in “Anna O.” (Bertha Pappenheim) parla di lei come di una “paziente visiva”. I sintomi erano chiaramente isterici (poi ai tempi di Freud era molto lasso il confine diagnostico tra isteria e psicosi).
Voglio dire qui due parole del perchè dell’Isteria all’interno di un lavoro sulla Superbia.
Sempre secondo Freud l’eziologia dell’Isteria (al femminile) è legata alla non soluzione della bambina del complesso edipico. Innamorata del padre non riesce a staccarrsi da lui. Crescendo avrà sempre un pensiero che il proprio Padre è inarrivabile dagli altri uomini della sua vita. Avrà un pensiero di denigrazione verso il genere maschile, ritenendosi “superiore” proprio perche il proprio padre è l’unico uomo, il migliore, quello di fronte al quale gli altri uomini non possono competere.
Avrà dunque oltre che problemi sessuali, nonchè un problema di Superbia, ritenendosi (proprio per il suo attaccamento e il sentirsi coppia con un padre inarrivabile) sempre dalla parte della ragione e del più forte, tanto quanto lo era il padre (divenuto ormai una fantasia e un ideale).
Sta di fatto che Anna era portatrice di una serie di sintomi da riempire un vocabolario:
strabismo convergente
cefalea occipitale sinistra
disturbi visivi associati e non
paralisi dei muscoli della regione anteriore del collo
contratture del braccio poi della gamba dal lato destro e in seguito anche della parte sinistra
allucinazioni
disfasia paradossale, incapacità di parlare altra lingua che l’inglese
sensazione riferita di vedersi cadere addosso le pareti, di avere vuoti di memoria e di avere “perduto parti del tempo”
torpore pomeridiano al quale verso sera subentrava a volte un sonno profondo e altre volte una forte eccitazione motoria
comportamento e umore discontinui: passava da depresso, ansioso e relativamente normale ad aggressivo e incontrollato nel quale, talvolta sotto l’effetto di allucinazioni, scagliava oggetti contro le persone che cercavano di rassicurarla
sonnambulismo ricorrente
idrofobia
compresenza di due stati di coscienza ben distinti
mutismo
difficoltà nel riconoscere le persone
Che Bertha Pappenheim, con questi sintomi (ammesso che fossero stati veri) possa essere definita una superba, onestamente, non lo so.
Sta di fatto che tutto quello che raccontava ai suoi terapeuti (a partire da Josef Breuer), prima lo diceva a se stessa, davanti allo specchio.
Si guardava e recitava la sua parte.
Nel libro di Isaia, troviamo un canto rivolto al re di Babilonia, nel quale Lucifero appare per la prima volta come il paradigma del superbo caduto: Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero figlio dell’aurora?
Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli? Eppure tu pensavi: “Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo”. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso! (Isaia14, 4-15).
Per tutto il Medioevo ed oltre, i teologi rifletterono sul senso della caduta di Lucifero, e il discorso sulla superbia, sul peccato, sull’infelicità che venne affrontato a partire dalla rivolta degli angeli.
La azione, l’atto, la vita condotta nella superbia in effetti comporta come conseguenza una amarissima infelicità. Quando non altro di peggio. Infelicità perché “non si è mai abbastanza”, non si è “mai all’altezza” e dunque la frustrazione di fronte allo specchio di fronte al quale il superbo si pone per verificare la sua “prestazione”, risponderà inevitabilmente… Non sei tu il più bello del reame”.
Agostino, nel De Civitate Dei, fu fra i primi a ricostruire la dinamica dell‟evento cosmico della grande ribellione. Secondo Agostino, Lucifero era lusingato dal proprio potere. Lieto di essere il primo degli angeli, era tuttavia insofferente alla propria subordinazione al Creatore.
Per questo, si volse dal bene supremo verso ciò che interpretava come il proprio bene, e aspirò ad un’autosufficienza (qui la “prestazione, o ansia di prestazione di cui parlavo poc’anzi) che fu la sua rovina.
Questo vizio si chiama superbia, perché, come dicevo all’inizio, è quello che tutti li comprende nel merito della onnipotenza e dell’”avere sempre ragione”.
Infatti: “Inizio di ogni peccato è la superbia” (De Civitate Dei,XII, 1-2, 6).
Agostino cita qui la Bibbia, in particolare il passo del Siracide (o Ecclesiastico),10, 6-13. L’autore si pone un problema fondamentale: se gli angeli sono stati creati da Dio e la volontà di Dio e buona, come ha fatto a generarsi negli angeli la volontà cattiva che li ha spinti a peccare di superbia? Questo peccato, infatti, non può che essere causato da una volontà cattiva. Ma che cosa può essere causa di una volontà cattiva? Non certo la volontà di Dio (che è buona), quanto piuttosto una “cosa inferiore”. Ma neppure la cosa inferiore, in quanto generata da Dio e ordinatamente collocata nel Creato, può avere in sé una volontà cattiva:
Qualunque sia la cosa inferiore fino alla più bassa terrenità, dal fatto che è essere ed essenza, indubbiamente è buona perché ha una propria misura e forma nel suo ordine specifico. Come dunque una cosa buona può essere efficiente di una volontà cattiva? Come, insisto, il bene può essere causa del male?
Infatti quando la volontà, abbandonato l’essere superiore, si volge alle cose inferiori, diventa cattiva, non perché è male l’oggetto a cui si volge, ma perché il suo volgersi implica un pervertimento. Perciò non è la cosa inferiore che ha reso cattiva la volontà. Ricordo qui che la perversione è sempre pervertire la Legge, la regola del consorzio civile, lo stato delle cose, il bene comune.
Essa stessa, essendosi resa cattiva, ha appetito sconvenientemente e disordinatamente una cosa inferiore (De Civitate Dei, XII, 6). Il male, dunque, è causato dal rivolgersi della volontà verso qualcosa di basso: non è l’oggetto della volontà a generare il male, ma l’atto stesso del dedicarsi in modo perverso ad esso.
Leggiamo un altro passo di Milton, un monologo di Satana, in cui il momento psicologico del peccato viene descritto con grande finezza:
“O Sole, quanto odio i tuoi raggi, che mi risvegliano il ricordo di quello stato da cui caddi, un tempo glorioso, ancora più in alto della tua sfera, finché la superbia e la peggiore delle ambizioni non mi fecero scendere in guerra nei cieli contro il Re dei Cieli che è senza rivali.
(J. Milton, Paradiso perduto).
La superbia, dunque, è un vizio proprio di chi è elevato. Secondo la Bibbia, anche l‟uomo, creato essere privilegiato fra tutti, non poté fare a meno di
cadere a causa della superbia: E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare, e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (Genesi, 1, 26).[…] Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue nari un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Genesi, 1, 26).[…] Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”(Genesi, 2, 16-17).
L‟uomo era dunque signore del mondo, secondo solo a Dio. È creato, significativamente dalla terra (humus), il che avrebbe potuto garantirgli quella humilitas che preserva dalla caduta. Una sola cosa gli era preclusa: la fonte della conoscenza del bene e del male. Anche se nella mia lunga esperienza clinica ho visto a volte una superbia feroce nascondersi dietro tanta melliflua umiltà!
Mi chiedo a questo punto se il peccato di superbia possa essere accettato nella nostra comune humanitas e dunque, non so se perdonato, ma almeno “compreso”(almeno finchè il superbo non ci ferisce).
A quale tentazione poi il superbo cede? A quale risucchio non riesce a non farsi risucchiare. Certo, lo specchio, il narcisismo, il “volere avere sempre ragione”, certo l’indisponenza, certo la sua sopportazione che gli altri devono sopportare sentendolo sentenziare a cena, certo il suo fare danni alle relazioni (specie con i
SUPERBIA: PECCATO AL MASCHILE O AL FEMMINILE?
E poi mi chiedo se il peccato di superbia sia un peccato più al maschile o al femminile.
Da quello che è il piccolo osservatorio di quarant’anni di esperienza clinica posso dire che il superbo è quasi sempre maschio. La superbia al femminile si declina come isteria. Che è un’altra cosa. Non meno disdicevole. Come risposta alla domanda posta in questo paragrafo, dal punto di vista clinico e statistico, non vorrei dire di più r lascerei continuare la narrazione biblica.
Eppure, anche l’uomo, tentato dal serpente, cedette alla tentazione e compì il primo peccato di superbia: Il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”.
“Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi” (Genesi, 3, 4-7).
Il serpente (ossia Satana) non mentiva alla donna: è vero che la conoscenza del bene e del male rende simili a Dio, ma tale conoscenza ha come prezzo la perdita dell’innocenza. Il Signore Dio disse allora: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Inesorabile e al contempo pietosa, arrivò la condanna divina: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere tornerai”(Genesi, 3, 19).
Ecco. Il sudore della fronte è giusto in contrario del peccato di superbia. E sudano tanto gli uomini che le donne.
A lavorare non si ha tempo per specchiarsi.
Il termine narcisismo compare per la prima volta in Freud nel 1910 per cercare di dare conto (in qualche maniera, i tempi sono cambiati assai) della motivazione della omosessualità.
“… cercano dei giovani che rassomiglino a loro per poterli amare come la loro madre ha amato loro stessi”.
Ovviamente questa tesi sulla origine della sessualità è assai sorpassata. Quello tuttavia che mi interessa sottolineare è ancora la questione dello specchio (anche se qui la proiezione la fa da padrona).
Freud fa esplicitamente riferimento al mito di Narciso, cioè all’amore per l’immagine di se stesso.
Chiaro che il superbo vuole “superare”, ma che cosa? A mio modo di vedere la sua stessa immagine riflessa che vede allo specchio per andare a cercare oltre, forse quello che è stato per lui l’appagamento dell’affetto materno. Molto più probabilmente il “fantasma” di questo affetto.
Il superbo vuole superare le Colonne d’Ercole della realtà per essere amato come si illude di esserlo stato, nell’età dell’oro, da sua madre. Forse.
Ma l’uomo, per vivere sulla terra, non può permettersi di tirarsi dietro il fardello che egli deve godere dell’amore materno a tutti i costi e soprattutto in tutte le epoche della sua vita.
L’uomo cresce.
L’uomo (il maschio forse?) fu così umiliato (nella sua illusione di avere per sé un “amore garantito”, quello della madre): la sua origine, la sua fine e il suo sostentamento sarebbero stati per sempre legati alla terra.
Il Signore Dio lo scacciò dal giardino dell’Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino dell’Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante (Genesi, 3, 19-24).
Questa è dunque la condizione dell’uomo: legato miseramente alla terra e impossibilitato a sollevarsi da essa, è continuamente vittima della sua superbia e delle tentazioni diaboliche (fantasie di ottenere amore gratis, senza meritarlo).
Una delle più belle e ironiche argomentazioni a proposito della condizione umana la troviamo nel Faust di Goethe, nel Prologo in cielo, dove il demone Mefistofele e Dio conversano come vecchi amici a proposito situazione dell’uomo e dei demoni. Dice Mefistofele: “Vedi solo che l’uomo si tormenta. Il piccolo dio del mondo è sempre uguale, stupefacente come il primo giorno. Vivrebbe un poco meglio se tu non gli avessi dato il lume della ragione, e lui se ne serve solo per essere più bestia di ogni bestia.
Gli risponde il Signore: I tuoi simili non li ho mai odiati. Di tutti gli spiriti che negano, il Beffardo mi è il meno antipatico. L’attività dell’uomo facilmente si affloscia, egli ama presto indulgere al riposo assoluto. Volentieri perciò gli do un compagno che lo stimola, e deve fare il Diavolo”.
NARCISISMO PRIMARIO E SECONDARIO (LA QUESTIONE DELLA AUTORITA’)
“Il narcisismo secondario – afferma Freud – designa un ripiegamento sull’Io della libido, sottratta ai suoi investimenti oggettuali” (Laplanche & Pontalis, Enciclopedia della Psicoanalisi).
Come a dire che il narcisista o il superbo disdegna la relazione e il confronto con l’altro, con la realtà e preferisce oggetti (di sua costruzione) con cui mettersi a confronto.
Il primo dei quali, a mio modo di vedere, è proprio lo specchio.
Mefistofele accusa l’uomo di superbia, e sostiene che la Ragione, anziché un dono divino, è una condanna che gli fa commettere solo le peggiori bestialità (ricordiamo che il Faust fu scritto dopo il tramonto degli ideali illuministici. Il prologo fu composto probabilmente nel 1797). La risposta di Dio è ironica: egli non ha mai odiato i diavoli.
Perché, si potrebbe chiedere il lettore, la metto tanto nella Religione, nei testi sacri, nella questione della aspirazione alla divinità, in Lucifero e tutti i suoi discendenti.
Penso per una semplice ragione.
Perché il peccato (o vizio) della superbia) attacca principalmente l’Autorità.
Mi sono proposto, per ciascun vizio, di cercare di vedere, o verificare, quella che Freud in Inibizione Sintomo Angoscia è il “tornaconto della malattia”. Nel nostro caso il vantaggio che un vizio, un peccato, un sintomo comportano con sé e nella loro pratica.
Per la questione della superbia la cosa è abbastanza difficile, in quanto, in sé e per sé, il superbo non soffre (apparentemente) ma fa soffrire. A mio modo di vedere (e il tutte le problematiche psichiche (isteria, necrosi ossessiva, perversione, psicosi) la questione di fondi è la ricaduta che ciascun peccato ha nei confronti dell’altro o degli altri della relazione.
Io penso anche che in sede di diagnosi il terapeuta dovrebbe considerare prima di tutto questa ricaduta, e poi il “vero” soffrire del peccatore o del portatore di vizio.
Se il narcisismo caratterizza, magari, l’intera vita di una persona, stiamo parlando della superbia, e questo narcisismo è reale causa della sofferenza della sua intera famiglia, mi pare abbastanza chiaro che la valutazione diagnostica va fatta proprio sulla quantità di male, sofferenza, dolore che costui porta alla sua famiglia, prima ancora che alla “sua” sofferenza. Visto poi, come dicevo poc’anzi, che il superbo-narcisista non soffre più di tanto.
Un padre di famiglia che viene da me da qualche anno ha il seguente comportamento. Quando invita amici e rispettive famiglie a cena spiega per filo e per segno come vanno cotte al focolare braciole e salsicce. Lui solo sa i tempi di cottura, il rosmarino che ci vuole, la frollatura, la pepatura e la salatura della carne e dice ai suoi commensali: “Vedete come si fa”.
Qualche lettore qui potrebbe già avere individuato il misto di superbia e ignoranza che anima davanti al focolare quest’uomo.
Ma non è tutto. Questo stesso uomo, quando va a cena da amici e il menù e le modalità per cuocerlo sono le stesse, pontifica che…”così non si fa”, la polenta dovrebbe prendere nella leccarda più grasso, etc. e alla lettera strappa dalle mani dell’ospite di turno gli attrezzi da lavoro, e vuole fare lui.
Il problema quale è? Eccola la ricaduta: la moglie oltre che imbarazzata si sente esausta da tutte queste “lezioni” che il marito impartisce a casa sua e in casa degli altri, e vuole chiedere il divorzio. Giusto? Qualche lettore potrebbe dire: “Ma solo per la cottura delle braciole?”.
Evidentemente sotto a tutto questo c’è un sopruso continuo che la superbia di quest’uomo esercita sulla propria e sulle altrui famiglie.
Il superbo è intollerabile perché appunto pesa troppo, e, alla lunga, qualcuno si stanca.
La superbia si manifesta nella volontà assoluta che gli altri riconoscano la mia superiorità, e che essa sia derivata da meriti e soprattutto “palpabile” nella realtà quotidiana.
Il superbo è sempre uno che…”ha le prove”. Ovviamente le sue.
Sproporzionata stima di sé e delle proprie abilità che ne conseguono, siano essi reali o presunte. Con questa eccessiva autostima e disprezzo per gli altri, si assume un atteggiamento altezzoso, sprezzante e con un ostentato senso di superiorità nei confronti degli altri. Nel superbo insorge spesso la volontà di conquistare, esclusivamente per se stesso e con ogni mezzo possibile, una posizione di grande privilegio, superiore agli altri, i quali devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità.
Vorrei tornare per poco tempo alla Filosofia e soprattutto alla Catechesi Cristiana.
GLI “ARTICOLI” DELLA SUPERBIA
Il superbo ha quattro specie ovvero quattro tentacoli con cui ci tiene avvinghiati (così almeno afferma la Catechesi Cristiana).
Il brutto mostro della superbia, oltre che sette figlie, ha anche quattro specie, che potrebbero essere allegoricamente paragonate ad una sorta di tentacoli con cui questa brutta bestia ci tiene avvinghiati alle sue pestifere spire.
San Tommaso d’Aquino le descrive in questo modo: “vantarsi di avere ciò che non si ha; credere che il bene posseduto derivi da se medesimi; credere che il bene posseduto derivi dall’Alto, ma sia dovuto ai propri meriti; cercare di far apparire del tutto singolari le doti che si hanno disprezzando gli altri”.
Anche Tommaso mette in luce come la superbia sia un vizio, o un peccato, sostanzialmente relazionale, determinato dall’eccesso di “riflessione” (allo specchio) del soggetto.
Penso che, se siamo un po’ onesti con noi stessi, difficilmente potremmo affermare di non essere caduti in almeno qualcuno di questi brutti atteggiamenti. Quante volte i discorsi dei mortali di riducono ad uno squallido sciorinamento di improbabili “palmarès” infarciti di inesistenti meriti, titoli, posizioni di prestigio, esperienze, ricchezze, etc.
Vantarsi di avere ciò che non si ha mette bene in luce la radice evanescente e inconsistente del vizio della superbia, la cui etimologia ebraica significa “vapore, fumo”. Quanti figli dell’uomo trascorrono la vita terrena vendendo fumo, amara constatazione che la sapienza popolare ha cristallizzato nel popolare aforisma: “tutto fumo e niente arrosto!”. Poniamo invece il caso che una persona si vanti di beni, meriti e titoli realmente posseduti: ecco così comparire la seconda specie in cui si manifesta e morde la mala bestia della superbia.
San Paolo, nelle sue Lettere, tuonò con forza e vigore: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se lo hai ricevuto perché te ne vanti come se non lo avessi ricevuto?” (1Cor 4,7).
In effetti noi tutti, donne e uomini, siamo debitori a qualcuno. Siano i nostri genitori, il DNA, i parenti che si sono presi cura di noi, gli incontri buoni che abbiamo avuto nella vita (specie nell’infanzia), l’allenatore di calcio o di pallacanestro…Dio.
Siamo tutti debitori perché noi, da soli, con le nostre forze, non saremmo sopravvissuti. E’ la storia del mondo. Altri ci hanno permesso di crescere e vivere. E’ questa la semplicissima realtà che il superbo nega.
C’è anzitutto una superbia dell’intelletto e una superbia della volontà a cui fanno da contraltare l’umiltà della mente e del cuore. La superbia dell’intelletto è tipica di chi si crede di essere qualcuno, “chissà chi o chissà cosa”, mentre l’umiltà dell’intelligenza consiste nella conoscenza sapienziale di sé, data dalla serena e umile consapevolezza di essere nulla (perché tutto ciò che si è, si ha e si fa è stato ricevuto come dono di natura o di grazia), aggravata dalla coscienza – anch’essa scevra da ansie e turbamenti – delle proprie miserie e dei propri peccati. Il superbo non conosce e non vuole riconoscere le proprie colpe, non le ammette, le minimizza, in confessionale non le dice oppure si giustifica, scarica sugli altri le proprie responsabilità, cerca mille circostanze attenuanti.
Distinta dalla prima è la superbia della volontà, per cui desidera apparire, comparire, distinguersi, primeggiare, emergere e, per questo, si mette in mostra, ostenta titoli, denaro, successi, riconoscimenti, onori, cariche, conoscenze… L’umiltà del cuore, per contro, consiste nella rinuncia ferma alla gloria del mondo e nell’amore della propria abiezione, ovvero nel desiderare di essere non conosciuti e riconosciuti, non apprezzati, non stimati, non lodati, non onorati, per amore di Colui che pur essendo il Tutto venne disprezzato, disonorato, stimato pazzo e condannato alla più infame e infamante delle morti.
La superbia (per Tommaso, lo vedremo anche in seguito per l’Avarizia) ha infine dei gradi (dodici) che sono come delle “spie” che avvertono quanto sia profonda e radicata questa mala bestia in un’anima. Il più alto grado di essa è l’abitudine di peccare, che rende simili al principe dei superbi che ha come sacrilego motto quello di non voler servire Dio.
Al secondo posto viene la “libertà di fare quello che si vuole”, opposta alla doverosa soggezione ai voleri di Dio e alle giuste indicazioni delle legittime autorità.
Segue lo spirito di ribellione, ossia la riluttanza a sottomettersi pacificamente ai legittimi comandi altrui, che si oppone alla rara virtù dell’obbedienza. Il superbo non accetta inoltre di affrontare le responsabilità e le conseguenze delle proprie colpe, riparandole dove possibile e offrendosi all’espiazione quando non fosse possibile porvi rimedio (quarto grado); a differenza dell’umile che affronta ogni fatica e ogni pena quando si tratta di fare il bene e perseguire la virtù.
Segue quella fastidiosa e assai diffusa tendenza ad autogiustificare se stessi puntando sempre il dito sugli altri, a differenza dell’umile che comincia ogni discorso con l’accusa di se stesso, che sa scusare il prossimo e riconoscere il bene, le virtù e i meriti altrui.
Il sesto e il settimo grado sono la presunzione (che fa pensare di essere capaci di fare chissà quali grandi e strepitose cose) e l’arroganza, che spinge a rinfacciare e sbandierare i propri meriti disprezzando gli altri (atteggiamenti opposti al ritenersi inutili e incapaci oppure inferiori agli altri in virtù e meriti). Il superbo, inoltre, cerca sempre di apparire del tutto singolare, anche in ciò che non è necessario o opportuno, a differenza dell’umile che, quando non è in gioco il bene o la gloria di Dio, si conforma a ciò che è comune. Il nono grado consiste nel parlare molto, anche quando non si è interrogati e nella facilità nell’interrompere le conversazioni altrui, atteggiamenti opposti al parlare con giusta misura o quando si è interrogati. Il superbo si abbandona facilmente alla stolta allegria e alla leggerezza d’animo (risa sguaiate, divertimenti sfrenati, conversazioni frivole, chiacchiere inutili, maldicenze), al contrario dell’umile che, pur sorridendo sempre e prendendosi i giusti e onesti divertimenti, sta lontano da ogni eccesso o bagordo e sa controllare la lingua.
Infine, grado più basso ma assai significativo, il superbo è curioso, ovvero tende ad impicciarsi di cose che non lo riguardano ed è preso dal desiderio di sapere e conoscere anche ciò che non è utile o non conviene, al contrario dell’umile che, pur essendo competente nelle cose del mondo o in ciò che concerne la propria professione, sa essere discreto e mai invadente, stando lontano da tutto ciò che potrebbe in qualche modo ledere la virtù, il bene proprio, l’onore di Dio o l’interesse del prossimo.
“Un buon tacere non fu mai scritto (o detto)”.
Abbiamo spaziato nello spazio che più è caro allo psicoanalista, quello che riguarda questo mondo della onnipotenza che tanto occupa la dimensione inconscia e è alla base di molte personalità più o meno disturbate. Dico, “più o meno disturbate”, perché questa dimensione onnipotente è presente in tutti gli uomini, in aliquote diverse, a seconda delle fasi in cui uno è riuscito a elaborare questa situazione.
Chiamarla superbia, secondo la terminologia dei sette vizi capitali, vuol dire non rendere giustizia al termine onnipotenza che è molto più ricco e va al di là di una accezione puramente moralistica.
ONNIPOTENZA
La onnipotenza nella dimensione psicodinamica è infatti collegata alle prime fasi di sviluppo e ha anche una dimensione strutturante unita come è alla dimensione narcisistica. Narciso usava l’acqua dello stagno come specchio, per amare se stesso, ma in realtà amava il rispecchiamento.
Sappiamo che, al di là di ogni disquisizione sul termine, rimarcando che si tratta di un semplice modello di analisi, il narcisismo rappresenta una prima fase di sviluppo in cui il bambino ha la possibilità’ di esperimentare questo mondo fantastico, molto divino, in cui si trova a essere intronizzato, al centro del suo piccolo universo familiare, punto di riferimento di una madre attenta, reuccio in un mondo ai suoi piedi.
Il superamento di questa fase è un momento importante che, con la scelta di un oggetto di amore, fa si che il bambino impari a scoprire l’altro uscendo cos ì dal suo guscio onnipotente.
Se questo momento è pure importante e foriero di molte soddisfa zioni rappresenta anche una perdita, vissuta a volte come un grande funerale: la perdita proprio della onnipotenza che coincide con il ridimensionamento delle proprie aspirazioni e, soprattutto con una aderenza maggiore alla realtà.
Questo passaggio non avviene quasi mai in maniera completa e in alcuni soggetti rimane un punto controverso nel proprio sviluppo psichico.
Questi non tanto ipotetici soggetti, (ciascuno do noi è un po’ così), si trovano a veder emergere la propria onnipotenza quando meno se lo aspettano.
Lo vedremo più dettagliatamente collegata all’ira, quando descriveremo l’esperienza di quella persona che sceglie di farsi tamponare per avere la soddisfazione di far pagare un sorpasso azzardato al suo avversario!
L’onnipotenza diventa così la possibile laicizzazione del vizio capitale per eccellenza: la superbia.
A chi scrive sembra di poter vedere in questo nuovo contesto una risposta agli interrogativi antropologici a cui la nozione di vizio cercava di riferirsi. Nel contesto analitico, la voglia di essere Dio e di trasgredire diventa, al di là dei connotati morali comunemente intesi, una delle costanti dell’inconscio di ogni uomo che deve fare i conti con queste istanze profondamente radicate in lui.
Il superbo (abbiamo visto) sminuisce gli altri per rivendicare la propria superiorità, vera o presunta, in ogni campo. Forte di questa illusione di superiorità, non rispetta le persone, le leggi, poiché è convinto di valere più di ogni cosa. La superbia si manifesta in modi differenti. Può implicare la sottomissione degli altri, o piuttosto la pretesa della loro ammirazione. Nasce da un desiderio di primeggiare, di essere riconosciuti come migliori rispetto agli altri, a causa di meriti effettivi o solo pretesi.
Per quanto possa sforzarmi di tornare indietro con la memoria, il ricordo del termine “superbia” mi riporta sempre, a quando ero bambino e la mente fissò il nome di Tarquinio il Superbo. Tutto ruota intorno alla sua persona, di cui conosco ben poco, eppure la qualifica è quanto rimane in me del personaggio. Non saprei dire perché mi colpì così tanto da permanere come pensiero nella memoria. Forse, perché con lui si concludeva la lista dei re di Roma che eravamo obbligati, già in tenera età, a imparare a memoria come una filastrocca; forse, perché neppure sapevo cosa fosse la superbia, ma il termine rimbombante lo imponeva… saranno gli psichiatri a determinare il tutto.
Ciò che posso dire è che parlando di superbia il nome del re Tarquinio è il primo che balza alla mente. Certo, non senza ragione i Romani gli affibbiarono l’appellativo se è vero, come attesta Tito Livio, che convocato il Senato ed entrato nella Curia si sedette sul seggio del re; questi accorso sul posto magna voce gli intimò: “Quid hoc, Tarquini, rei est? qua audacia me vivo vocare ausus es patres aut in sede considere mea?”.
Ciò che Servio Tullio chiamava giustamente audacia, i Romani poco alla volta la definirono superbia, sperimentandola sulla loro pelle.
Qualunque sia il ricordo, comunque, non è di Tarquinio che dobbiamo parlare, ma di noi in relazione a ciò che è identificato come l’origine di tutti i vizi. Da qualsiasi parte ci si volta, infatti, la superbia sembra avere il primato. Per chi vuole trattare dei vizi rispettando l’ordine alfabetico: accidia, avarizia, gola, invidia, ira, lussuria, arriva alla superbia come il culmine di un procedere. Per quanti vogliono modificare l’ordine, la prima che viene nominata è sempre lei, la superbia, per incarnare ciò che rappresenta.
Il “peccato capitale”, così chiamato per primo da Gregorio Magno e tematizzato in seguito dalla teologia medievale, e in primis da Tommaso d’Aquino, porta con sé tanti derivati che impediscono di innalzarsi a una corretta vita di relazioni e di ordine cosmico. Sono sette, come si sa, per indicare secondo la cabala la pienezza e la totalità di una vita ripiegata sul male. Ironia della sorte, però, la semantica del termine (ύπερηφανία) è positivo. Pur nell’etimologia oscura, il significato originario intende esprimere il carattere “eminente”, “eccellente” e “insigne” dell’animo umano e della sapienza. Lo sviluppo successivo, al contrario, venne usato in senso peggiorativo e riprovevole come “arroganza”, “vanteria” e “alterigia”.
Insomma, per gli antichi Greci, la superbia si colloca tra la ύβρις, tipica di chi disprezza e la αλαζών, il presuntuoso millantatore che inganna se stesso ed è un ciarlatano vantando pregi che non ha. In una parola, il superbo è un folle presuntuoso, perché si vanta della sua posizione, del potere e della ricchezza guardando gli altri sprezzantemente dall’alto in basso.
In una parola, il termine manifesta un’esperienza universale. Nell’uomo di ogni terra e di ogni cultura, in ogni tempo e lingua si verifica il segno di una connotazione giudicata negativamente perché tesa a dominare sul proprio simile e a disprezzare le doti altrui.
Insomma, la lotta tra il bene e il male permane fino alla fine dei tempi. Certo, è impari. Come attesta l’apostolo Paolo le “opere della carne” e il “frutto dello Spirito” (Cfr Gal 5,19-23) non stanno sullo stesso livello. La forza redentrice di Cristo ha vinto e ha distrutto il peccato del mondo, ma la libertà degli uomini, che segna l’originalità del cristianesimo, permane come la conditio sine qua non. “Dio che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”. L’espressione di sant’Agostino permane con la sua forza di significato per indicare l’imporsi della libertà personale. Mai, probabilmente, il dramma della libertà si esprime con tutta la sua potenza come nella scelta tra il bene e il male e nella vita a servizio dell’uno o dell’altro.
E veniamo dunque a Freud e alla sua teoria sul narcisismo, che (Narciso) dello specchio fa la propria massima propaggine e richiesta di risposta alla propria domanda.
Una giovane donna fa il seguente sogno: “Mi trovo in sala parto. Sto per avere il travaglio, che tuttavia non comincia. Una infermiera mi fa una puntura e mi dice che adesso posso avere il parto perché il quella siringa è contenuto il mio stesso liquido amniotico ‘dal’ quale io stessa ho concepito mio figlio”.
Mi sembra che in biologia questa possa essere definita una specie di partenogenesi (riprodursi da se stessi, bastare a se stessi). Nell’etimo della parola, faccio notare, esiste la accezione “virginale”. L’altro è fuori dal discorso. E così la alterità.
Ora che cosa c’entra questo sogno con il narcisismo freudiano? O con il peccato di Superbia della Catechesi cristiana? A mio modo di vedere proprio la partenogenesi, il bastare a se stessi, in fare da se stessi. Per dirla in parole semplici: lo specchiarsi in se stessi è il sunto più stretto e la quintessenza del Peccato di Superbia.
GUIDO SAVIO