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GUIDO SAVIO: PAURA ( NON SOLO DEL CORONAVIRUS)

 

 

PAURA (NON SOLO DEL CORONAVIRUS)

 

 

 

 

Mi sono trovato spesso in questi tempi difficili a chiedermi quale possa essere non tanto il motivo, la causa, lo stimolo che determina la paura, quanto quale sia nella nostra intimità, la architettura, il terreno, il background dove essa affonda, o si appoggia, o trova la sua linfa vitale.

 

Ovviamente intendendo che la paura è uno dei più sani sentimenti che contraddistinguono il nostro essere umano. Sano perché ci fa vivere, difenderci, attivarci. Chi non ha paura, da qualche parte, muore. E d’altra parte, di paura non si muore.

 

Ma è anche il sentimento che maggiormente (assieme all’angoscia) ci fa soffrire, ci limita, ci toglie pezzi e possibilità di vita come la vorremmo noi, o come la abbiamo “assaggiata” prima di ora.

 

Mi ha molto colpito una notizia che ho sentito stamattina alla radio.

 

Dopo le cosiddetta aperture (ahimè discroniche)  in Italia, solo il 4% della popolazione ha cambiato le proprie abitudini rispetto alla reclusione “forzata”. Solo il 4%ha messo il naso fuori dalla porta di più che prima. Tuttavia non sappiamo ancora bene se le condizioni siano, ora, quelle di prima, cioè quelle di un anno fa.

 

So per mestiere che una delle fasi più difficili dopo un ricovero ospedaliero in psichiatria o in una casa di cura per “malattie mentali” è costituito dal cosiddetto “ritorno nel mondo”.

 

So per mestiere che una delle fasi più difficili per un detenuto che viene scarcerato e quello di ritrovarsi di fronte alla “società”.

 

Allora si stava meglio quando si stava peggio? Il rischio  vero che noi temiamo è allora l’ansia del rischio di affrontare il rischio di vivere?

A vedere gli assembramenti e altri meeting non si direbbe. Eppure la paura di ritornare ad “uscire” c’è. Dentro di noi, nel nostro pensiero, nella nostra cassetta dell’inconscio, ma c’è.

Per il detenuto tornare al mondo è reinserirsi nella competizione, nel dover domandare, nel farsi vedere dagli altri.

 

Lo stesso per l’ammalato “psicologico”, colui che frequenta lo studio dello psicologo, dello psicoterapeuta, dello psicoanalista: la pena è quella di tornare a “confrontarsi” con un “altro” che si pensa ostile, superiore, cattivo, accusatorio, disinteressato e in ogni caso sempre, ma sempre, superiore. Anche se questa alterità sta proprio dentro di noi.

 

Noi non usciremo più allo scoperto così disinvolti come prima, dopo gli arresti domiciliari del Coronavirus, perché pensiamo che l’altro, l’Altro, l’Esterno, il Mondo, etc. sia diventato più forte della nostra debolezza.

 

Balbettiamo la nostra libertà perché pensiamo che fuori dalla porta di casa ci sia il Nemico che ha più carte da giocare di noi? Possa colpirci quando meno ce lo aspettiamo? Sia più furbo di noi? Sappia quello che noi non sappiamo? Che il Nemico sia l’Onniscienza da cui, eppure, un tempo ci siamo fatti un Dio? Il virus ha nel nostro immaginario un potere quasi divino.

 

Se io, come psicoanalista, dico a qualcuno “fatti vedere” nel senso amichevole, amorevole, sanamente invitante della accezione della espressione, gli offro una opportunità di apertura, gli offro una occasione di uscire dal suo nascondimento. Ma devo stare attento in quanto so che ogni nascondimento è funzionale al nostro equilibrio. Noi non possiamo tirare nessuno fuori a forza dalla propria scelta, qualunque essa sia, anche quella del fare del male a se stessi.

 

Ma in questi tempi che hanno cambiato per sempre i tempi, la cosa non è tanto scontata. Non è tanto automatica né semplice.

L’altro non è più quello che ci siamo aspettati prima, né quello che ci hanno insegnato mamma e papà, neppure quello che ci ha insegnato la religione, la morale, le tabelline, le regole del calcio (ahimè solo ieri calpestate da una Superlega che di super ha solo il super-io). E’ un altro al quale noi dobbiamo ri-prendere le misure. Come se noi dovessimo ripartire da capo in quella attività vitale, soggettiva e sociale, che ha portato allo sviluppo della Società: fidarci.

 

La semina pericolosa che il Coronavirus ha operato (almeno nelle persone sane) è stata quella del diffidare di fidarci, in qualche maniera dell’Altro, del Mondo, dell’uomo e della donna che mi siedono vicino nella panchina del parco o al tavolo del ristorante (quanto mai riapriranno per davvero?).

 

 

“Fatti vedere” allora è un invito che il Mondo ci fa, che l’Altro ci fa, non una richiesta, all’altro: “Mettiamoci (noi due) nella condizione di non avere paura l’uno dell’altro. Paura è sempre paura che l’altro entri troppo in noi, fino a toccare la nostra debolezza, che poi l’altro ci rifiuti per questo. E dunque il nascondimento. Il 4% che rimane ancora in “casa” quando un po’ i portoni delle stalle si sono aperti.

 

 

Spesso la nostra debolezza è rappresentata dai nostri stessi sintomi, che noi usiamo appunto come vestiti per nascondere all’altro la nostra debolezza (eppure anche il sintomo è inteso come debolezza).

 

“Fatti vedere” non è un brado invito all’altro a spogliarsi di sintomi o di debolezze, né la assunzione di una posizione di superiorità per cui dovremmo essere noi a stabilire le regole della relazione. No. “Fatti vedere” è il “fatti ammirare” che molte mamme dicono alle loro figlie quanto sono eleganti, o molte amiche all’amica sincera nella prossimità di una cerimonia importante-

 

Il sintomo poi è un evento che fa vedere del soggetto alcune realtà, forse per nasconderne altre. Il sintomo è alleato della paura ma nello stesso tempo è una porta aperta per uscirne: basta che venga riconosciuto. Pensiamo alla importanza del “riconoscimento” del sintomo nel corso della terapia analitica: è il sentimento di una paura. Poi il sintomo può anche persistere o attenuarsi. Solo se viene riconosciuto come tale.

 

“CI PENSERO’ DOMANI”

 

Questa stracitata frase di Rossella O’Hara di Via col vento potrebbe essere intesa frase della paura che l’”adesso” mi fa. Oggi non mi “faccio vedere”. Semmai mi farò vedere domani (tornando al nostro dicorso). Semmai.

 

Semmai è “non deciso” (quando il “mi faccio vedere” in sé e per sé è una decisione ferma, datata e impegnata). Mentre è il fastidio per il quotidiano che ci fa procrastinare le nostre scelte. Come se qualcosa fosse sempre in agguato dietro l’angolo; come se la nostra scelta fosse un lanciare un messaggio al nostro ipotetico aggressore. Qui la paura: temere che quello che faccio un altro se ne può servire contro di me. Allora l’inibizione, il “non ce la faccio” e dunque “ci penserò domani”, logica che rimanda al mio muovermi solo se ne esiste estrema necessità, solo quando ho l’acqua alla gola. Ma noi sappiamo che i più terribili errori vengono commessi nel regime della necessità e della dipendenza.

 

Se il telefono in mano lo prendo solo nel momento della urgenza (che ho tanta paura), di sicuro non ho una relazione libera con chi sta dall’altra parte del filo, “Ci penserò domani” non è né per me né per te: è per nessuno, in quanto fa sopravvivere l’illusione del tempo sospeso, che non decreta né da una parte né dall’altra e inneggia alla ignavia dantesca.

 

Sapendo noi che decisione è il decidere che “si può perdere”, l’ invito della frase “Fammi vedere” e negazione della frase: “Ci penserò domani”. L’atto infatti, in fare questa o quella cosa (ma non tutte e due insieme) è la attuazione del pensiero che…si può perdere, ma nello stesso tempo è la tacitazione del pensiero di colpa. Il senso di colpa infatti ha a che fare con il condurre la nostra vita lungo il binario del disordine e della confusione, in quanto non esiste chiarezza nella lettura della nostra storia: vittime o carnefici? Colpevoli o sottomessi? Sono queste le domande disordinate che sorreggono le nevrosi più dure.

 

E’ ovvio che a questo punto che la risposta non può essere che il “mi faccio vedere” non tanto nel mio presupposto ordine (tipo quello che spazza la polvere sotto il tappeto), ma nella naturalità del fatto che è l’altro a cogliermi. Se io lo voglio.

 

Noi siamo come barchette in balia del vento, veramente, e pensiamo che la ragione ci possa difendere e dirigere. Invece veniamo sballottati da una parte e dall’altra del mare mosso, dalle cui onde, per forza ci dobbiamo difendere senza nascondere la paura che delle stesse onde abbiamo. Basta una parola dell’altro per farci cambiare il battito cardiaco, il respiro, la giornata, la vita a volte. E allora, che cosa pretendiamo di esimerci dalla scelta? Di rimandare la decisione? Di rimanere nascosti

 

HUMANITAS

 

La ammissione della paura è il segno della nostra profonda umanità. Perché la paura è la umanissima esperienza del nostro corpo, che qualcuno, a partire dal nostro corpo stesso, possa farci del male. Il pensiero che il nostro corpo ci faccia del male è la prima paura. La paura sul nostro corpo è una paura che rimanda al pensiero di esauribilità (esauribilità delle risorse) del nostro corpo, che non abbia più forza, più vigore, più energia, più sangue. E allora (on potendone noi controllare oggettivamente i contenuti) ne abbiamo paura. Come chi non sa quanta benzina c’è nel serbatoio. Va avanti. Non è tranquillo, ma è la vita e la vita non ha speranza di rilevazione.

 

PAURA E DEPRESSIONE

La paura è il nesso logico tra dipendenza e depressione. “Non ce la faccio” è il non ce la faccio da solo. Ma altrettanto noi sappiamo che nessuno ce la fa da solo. Ma non è una questione di atti, di esperienze, ma di pensiero: sono depresso se penso che on ce la faccio a vivere la mia paura e la voglio combattere a tutti i costi: chi combatte la paura soccombe. Infatti la vera paura è il voler essere forti quando non lo si è. E nessuno lo è..

 

Paura è un pensiero perverso di immortalità, è il frutto di una illusione andata a male: quella del pensiero di integrità. Paura è profonda disonestà con noi stessi in quanto l’onesto è appunto che va vedere se stesso, che va vedere le sue carte afinchè, assieme all’altro, una relazione possa essere intessuta. E ognuno “beve” dai frammenti delle proprie esperienze quotidiane il sano e il malato della propria stessa esistenza. ma siamo tutti uomini e donne, e la paura ce l’abbiamo per davvero. Come pure la disonestà.

 

Poi, fuor di poesia e dentro alla sana prosa, il pauroso è un ingenuo in quanto non intende, non sa…quello che si perde! Così, alla lettera. La sua inibizione del non sapersi svestire e del non sapersi dare all’altro, e del non sapere scegliere, e del pensare che non è capace di farcela,e, semmai, ci penserà domani… è la sua meritata zappa sui piedi.

 

Allora diviene depresso in quanto va abbasso la sua stessa libido, la sua stessa voglia di vivere, la sua stessa accettazione del limite e della morte (dunque della vita). E Intanto la vita scorre e corre.

 

Per questo avere paura è assolutamente un “valore morale”, solo perché finchè penso alla paura del mio corpo, delle mie non-azioni, della mia depressione, del mio Io, io non penso all’altro. “Non pensare all’altro” è l’unico capo di imputazione che ogni tribunale morale dovrebbe porre come principale articolo.

 

Per questo poi la paura diventa una “legge” che non ci abbandona. Una legge affatto civile ma assolutamente penale che ci condanna in continuazione: non ci dà respiro proprio perché è diventata una legge (anche se perversa) ma ha tutte le caratterist8iche della legge, prima tra tutte la impositività). Infatti la nevrosi conosce molto bene la paura in quanto la chiama in continuazione a dirimere le proprie questioni legale. In soldoni: “io on c’entro, o c’entro quel poco che mi basta per essere assolto dalla mia stessa coscienza”. Anche se la paura è la umanizzazione della angoscia, visto che di “humanitas” stiamo parlando, e nessuno è esente dalla paura, tranne il votato alla morte (e anche costui e degno del nostro rispetto). E, in ogni caso, la paura, non impedisce di fare qualcosa per sé.

E’ chiaro a questo punto che la paura è un impedimento (inibizione) in termini clinici. Mi impedisce, ovviamente, la soddisfazione. Soddisfazione è che noi siamo “autori” del nostro fare e del nostro essere, cioè il “primo fattore” della nostra vita. Se noi abbiamo il pensiero che qualcuno “contraddica” la nostra logica verso la soddisfazione lo nominiamo immediatamente “nemico”. Il nemico versa le sue lance contro il nostro pensiero di essere “pieni” (che è l’inno del narcisismo e la culla dalla paura). Chi pauroso è deve saltare la linea del piacere, non deve confondersi con il dolore,. Chi pauroso è non salta la linea ma salta direttamente al “ci penserò domani”, che significa il continuo rimando che può essere prolusione alla angoscia.

 

E qui il confine tra paura e angoscia è estremamente labile: paura e angoscia sono tutte e due “non conoscenza” del loro motivo.

 

“Anche dentro il corpo la tenebra è profonda, e tuttavia il sangue arriva al cuore, il cervello è cieco e può vedere, è sordo e sente, non ha mani e afferra, l’uomo è chiaro, è il labirinto di se stesso” (J. Saramago, “L’anno della morte di Ricardo Reis, p. 86).

 

 

 

GUIDO SAVIO

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