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A PROPOSITO DI DOLORE

 

 

 

Premessa

 

Ricopiato in foglietti di carta e cucito all’interno delle divise militari di alcuni soldati tedeschi morti a Stalingrado, ma anche di prigionieri ebrei nei campi di sterminio nazisti è stato trovato il seguente scritto:

Non temerai i terrori della notte
nè la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre
lo sterminio che devasta a mezzogiorno.

( Sal. 90, 5-6)

Le parole del Salmo costituiscono la professione della speranza che al dolore e alla morte, che del dolore costituisce la propaggine ultima e non escludibile, l’uomo sappia opporre un proprio atto di volontà: quello di non soccombere alla paura.
Il Salmo non lenisce la portata terrifica delle tenebre o della peste o della freccia ma esorta l’umano a saper perdere con dignità quella partita rappresentata dalla vita che per essere conclusa come vittoria deve essere accettata come sconfitta.

 

Il pudore

 

 

Il pudore è una virtù di per se stessa, se poi è riferito al dolore, al modo di vivere e sopportare il dolore, essa diviene una somma virtù. Il pudore costituisce una virtù in quanto è la forma principe di autoconservazione. Il pudore è la attestazione di un atto di volontà continua dell’uomo che è il proprio giudizio (atto giuridico) a conformare il suo rapporto con la realtà. In più è la dichiarazione che egli non perisce (se vuole) davanti ad essa in nessun modo, anche quando il dolore raggiunge la conclusione della propria sostanza, cioè la morte.

Autoconservarsi significa lavorare di giudizio, proprio darci dentro affinchè la realtà, nella propria conformazione più acuta e penetrante che è il dolore, non sia mai un evento inestimabile e intangibile da parte dell’umano. Io lavoro di giudizio quando nel dolore so trovarmi una realtà altra oltre a quella del dolore, che in ogni caso so non essere cancellabile nè smentibile. Se io “volessi” cancellare o smentire la realtà del mio stesso dolore non lavorerei certo per la mia autoconservazione.

Il giudizio di fronte al dolore è un giudizio produttivo, che fa nascere, ma meglio sarebbe dire, fa saltare fuori l’ altro possibile , ciò che oltre c’è e la cui strada per poterlo raggiungerlo è al momento rappresentata dal dolore.
Il mio soffrire mi dà il segno del limite e mi dà anche il tratto esatto che io non posso superare. A questo punto, senza il giudizio di ulteriore potere, io soccomberei davanti alle regole fenomeniche della realtà, in quanto non è sindacabile quello che il fenomeno afferma. Tuttavia il mio pensiero mi sorregge, mi sostiene, mi conserva se è possibile la pratica del pudore. Pudore come vero e proprio nascondimento dell’arrendersi sul piano della propria produttività. Nascondendo il mio arrendermi io non mi arrendo. La modificazione della realtà (faccio della realtà una realtà vivibile) spetta al soggetto nella forma giuridica che egli riesce a dare al proprio pensiero come lavoro di creatività. So che è il mio non arrendermi la meta e so anche che l’arrendermi sarebbe la mia patologia (patologia che non ha nulla a che fare con il dolore che sto patendo): dunque il mio sopravvivere sta in pugno alla mia volontà di essere pudico, soprattutto con me stesso.

Ma il pudore è una virtù difficilmente sostenibile: esso è inversamente proporzionale alla acutezza della pena da sopportare. L’uomo che sta soffrendo molto, soffre anche per la incomunicabilità del proprio dolore. Il nostro dolore non è mai capito fino in fondo e la sua comunicazione si pone come un problema nel problema.
La ultraclassica espressione “Se uno non ha provato non può capire” può anche avere un fondo di verità in quanto mai il soggetto è tanto soggetto privato e anche isolato quando sta soffrendo.
Il senso di lontananza, di esclusione, di diversità, di impotenza, di rabbia è difficilmente comunicabile vista la intensità con cui l’esperienza del dolore è da noi vissuta. La comunicazione è difficile anche perchè lo stato di sofferenza “cambia” il soggetto, lo pone in prospettive e condizioni diverse, a volte non preventivate, per cui il soggetto “tira fuori” per far fronte al dolore anche quello che prima egli non conosceva di se stesso. L’uomo che soffre è sempre un po’ un uomo nuovo anche di fronte a se stesso. L’esperienza del dolore può rivelarsi una tabula rasa in ui il soggetto si trova a scrivere, magari con una mano che egli non riconosce come sua. Per questo il pudore è una virtù, in quanto pone delle regole all’interno della stessa questione della comunicazione del dolore, regole conformate dal giudizio del soggetto che le promulga non per distruggersi (la autocommiserazione, ad esempio, è una forma di autodistruzione) ma per conservarsi, non il più a lungo possibile, ma il meglio possibile.

Nella nostra civiltà lo spettacolo dell’altrui rovina è un dato di fatto che ha preso piede in quantità e forme impressionanti. Spettacolo significa che l’altrui dolore è “fatto vedere” senza il minimo pudore.

Sappiamo che chi soffre produce come primo desiderio quello, almeno, di soffrire in pace. Invece nel soffrire dell’altro c’è una invasione di occhi, di orecchie, di parole, di microfoni, di telecamere. Non ci vuole molto a constatare che quando vediamo nello schermo televisivo un individuo che soffre, il primo pensiero che facciamo è che la sua dignità è andata a farsi friggere. Un dolore si aggiunge al dolore, ma lo spettacolo è stato prodotto. Spettacolo della comunicazione impossibile: quello lì che sta soffrendo non potrà mai farci capire ciò che sta provando ma noi trarremo, alla fin fine, una rassicurazione dal confronto tra il suo dolore e il nostro star bene. Ciò avviene “in automatico”, proprio senza che noi ce ne “vogliamo” accorgere.
Anzi, lo spettacolo è dato proprio dalla constatazione della assenza in noi della sofferenza stessa, anche se nessuno è spettatore puro di fronte al fenomeno.

 

Dolore e precarietà

 

 

Il dolore è un’esperienza che allontana dagli “oggetti” e dalle persone (vedi Giobbe) e che proprio per questo ne determina un forte bisogno. A partire da una constatazione di precarietà, esso determina una spinta alla appropriazione, alla penetrazione, alla incorporazione nel momento in cui insorge il pericolo di perdita. Nessuna esperienza umana come il dolore rimanda alla dipendenza di tipo oggettuale a partire da una ineludibile constatazione di precarietà. La dipendenza di tipo oggettuale tuttavia non è convogliata verso oggetti precisi (anche se un oggetto potrebbe essere la vita stessa), ma manifesta chiara la propria tipologia: contemporaneo alla esperienza del dolore è il pensiero di perdita e con esso un legame, uno stringersi alla “cosalità” e alla dipendenza dalle cose.

Se io soffro voglio cose che costituiscano opposizione o compensazione al mio soffrire in quanto in un certo qual senso penso che l’oggetto possa sanare prime (non meglio) lo stato di precarietà indotto dal dolore. La mia logica è quella del bisogno che mi rimanda diretto all’oggetto e non già quella del desiderio che inevitabilmente mi rimanda alla temporalità e alla consumabilità. Nella logica del desiderio io devo accettare che posso anche rimanere senza, o che l’altro che è con me segue proprie forme e leggi diverse dal mio desiderio stesso. Ciò non accade nella relazione cosiddetta oggettuale nella quale c’è sempre illusione di possesso, di governabilità, di controllo della alterità stessa e soprattutto di negazione della indipendenza temporale.

Chi soffre vorrebbe fermare il tempo affinchè gli “oggetti” non gli scappino.

Pensiamo al profondo senso di precarietà che invade l’uomo che soffre, precarietà come atto dell’animo, che però non è affatto sconosciuto anche in momenti di serenità, se non addirittura di gioia. Bene, la precarietà mi rimanda direttamente alla questione del tempo. Il tempo del dolore è un tempo particolare che il sofferente tende a oggettualizzare. Il tempo allora diviene esclusivamente quello cronologico (e non già quello della consumazione o quello delle possibilità) che sfugge come la sabbia tra le dita della mano e lascia nel palmo il nudo pensiero della morte. Il tempo si “sustanzia” per effetto di un meccanismo difensivo del sofferente che lo intende esclusivamente quantificato, e la quantificazione del tempo del dolore è quello della “mancanza di vita” o di sospensione della stessa, o di furto del tempo stesso come spettanza di vita che è inevitabilmente diminuita.

Il soggetto invece che sa lavorare di giudizio ul proprio dolore, che sa pensare all’ oltre contenuto nella sua stessa condizione di soffrire, il soggetto che elabora e rende giuridica la sua stessa condizione di sofferente, costui non intende il dolore come mancanza di possibilità o di opportunità, costui non intende lo spettargli della vita nel termine cronologico, non vive il dolore come furto di opportunità, bensì come offerta di alterità, offerta di esperienza altra e fortemente cifrata di caratteri innovativi.
Il dolore (pur facendo esso male), nel togliermi possibilità/potenza di un certo tipo da un lato, in qualche modo mi dà una chance di cui prima non disponevo dall’altro: a me sta il saper cogliere lo spostamento della offerta di possibilità.
Chi dal dolore, ad esempio, è costretto a vivere in uno spazio angusto e oggettivamente ristretto di opportunità, se vuole ha la possibilità di allargare la angustia del proprio spazio con la stessa soddisfazione con cui prima si sarebbe diretto verso spazi più ampi e diversi.
Sia lo spazio che il tempo, di fronte al pensiero, sono infinitamente divisibili: la condizione del dolore è tra le condizioni della esperienza umana quella che maggiormente spinge a frazionare tempo e spazio. La precarietà dell’essere, che pure è un dato inconfutabile, può trovare pensiero di rasserenamento nel momento in cui il soggetto sa lavorare di cesello nel nucleo della propria realtà spazio-temporale.

 

 

La questione del valore

 

 

Certa filosofia morale e certa riflessione religiosa, anche se con modalità diverse si sono spinte al punto di intravvedere, se non addirittura chiaramente intendere una forma di valore all’interno del dolore. Ora, il dolore in sè e per sè non può essere considerato un valore, e quando esso lo diventa siamo pur certi di trovarci all’interno della perversione. Il provare sofferenza, fisica o morale non può assolutamente costituire meta del desiderio in un soggetto sano; anzi, il lottare contro il dolore è la prima opportunità che il soggetto si dà di vincere il dolore stesso.

Del dolore non si può fare un “valorismo”, così come non può esserci una filosofia positiva del dolore. Il dolore è pur sempre e prime di tutto debolezza. Semmai il dolore è una opportunità, una strada verso una conoscenza diversa di se stessi, ma certo mai un valore a se stante. Considerando poi che quel tipo di valore che è costituito dall’inconscio è tutt’altro che un valore positivo.
Ci si chiede se tutto il positivismo e addirittura il “valorismo” che certa psicologia e psicoanalisi fanno dell’inconscio sia poi alla fin fine giustificato. L’inconscio permane come luogo del dubbio e dell’incertezza, del sospeso, del non conosciuto, a volte del contraddittorio, della paura e della angoscia che possono impadronirsi dell’umano.
Qui la precarietà, ossia l’impossibilità dell’appoggio ad un valore interno che sia inscalfibile dalla fenomenicità del mondo e dalla mutevolezza del tempo.

 

Prendiamo ad esempio il dolore vissuto dai personaggi del romanzo. La scrittura ha la capacità di mandarci immediatamente ad un universale, il vissuto del personaggio si staglia nella categoria dell’universale.
Siamo presi dal pensiero, leggendo, che questa storia, questi personaggi, queste situazioni sono già state praticate, visitare, rivissute, conosciute da “altri”, sono già diventate cioè patrimonio comune. Entrare nel romanzo è un atto di omologazione, è un partecipare di un Tutto Universale. In questo senso ci sentiamo di dire che la lettura è rapporto intimo e profondo con Altro. Altro in quanto possibilità di relazione e confronto con una Storia con cui altri reali si sono messi in relazione. Ma soprattutto Altro in quanto la lettura è una forma di moto al di fuori della propria identità, forma di relazione con l’Altro che la parola costituisce, sempre.

Il dolore e la morte di Nikolài Lèvin in Anna Karènina di Lev Tolstoj rappresenta un capolavoro letterario. Il dolore è ineluttabile e attorno al dolore ruotano stati d’animo e di pensiero di tutti i personaggi. Di fronte al dolore del moribondo consumato dalla tisi si intende benissimo come la sofferenza sia l’universale che rende gli uomini uomini, ma anche che essa non può assolutamente costituire un valore in sè e per sè. L’interpretazione cristiana della sofferenza come espiazione e preparazione alla felicità eterna non trovano spazio nel corpo di Nikolài Lèvin nè nel vissuto e nel pensiero che di questo corpo ormai morto stanno avendo il fratello Konstantìn e sua moglie Kitty.

“Evidentemente si compiva in lui (Nikolài) quella rivoluzione che doveva fargli guardare alla morte come al soddisfacimento dei suoi desideri, come alla felicità. Prima ogni desiderio singolo, suscitato da una sofferenza o da una privazione, come la fame, la stanchezza, la sete, era soddisfatto con una funzione del corpo, ma adesso la privazione e la sofferenza non ricevevano soddisfazione, e il tentativo di soddisfazione suscitava una nuova sofferenza. E perciò tutti i desideri si fondevano in uno solo: il desiderio di liberarsi di tutte le sofferenze e della loro fonte, il corpo. Ma per esprimere questo desiderio di liberazione egli non aveva parole, e perciò non ne parlava, ma secondo l’abitudine voleva la soddisfazione di quei desideri che non potevano essere soddisfatti. ‘Mettetemi sull’altro fianco’ egli diceva, e subito dopo pretendeva che lo mettessero come prima. ‘Datemi del brodo. Portate via il brodo. Raccontate qualche cosa, come mai state zitti?’ E non appena cominciavano a parlare, chiudeva gli occhi ed esprimeva stanchezza, indifferenza e disgusto.” ( Lev Tolstoj, Anna Karènina, Rizzoli, Milano, 1994, pp.755-756).

Qui la sofferenza ha fatto saltare qualsiasi forma di relazione e la morte è rappresentata come u affare privato, terribilmente privato. A morire si muore soli, diventa una frase la cui universalità diventa schiacciante e la scrittura ci consente questo rispecchiamento, consente la visione ma anche il toccare di quella che è la angoscia più profonda e insanabile: la solitudine del morire.

Di fronte a ciò una cosa l’uomo capisce: c’è un qualche cosa che non si comprende, e c’è un qualche cosa che non può essere ridotto a comunicazione. Qualsiasi spiegazione del dolore è troppo incerta rispetto alla assoluta privatezza dell’esperienza che esso rappresenta.

Riteniamo che in nessun luogo della umana esperienza si verifichi tanto forte carenza non solo di comunicazione ma anche di relazione tra Soggetto e Altro come nel dolore.
La comunicazione è sempre aleatoria, meramente descrittiva di una fenomenologia, magari, ma mai conprensiva di tutto ciò che avviene in un individuo che sta soffrendo nell’anima o nel corpo (e spesso è in tutte e due).

 

Un possibile incontro

 

 

Se io non ho chi mi pensa, allora penso a Dio (che di sicuro mi pensa). Potrebbe essere questa una frase risolutiva, nel senso del risolvere, la solitudine e la incomunicabilità dell’esperienza dolorosa. In questo modo Dio diviene il sostituto dell’Altro mancante, ma tuttavia svolge lo stesso la funzione di Altro nella relazione.
Il popolo abraico si è distinto da tutti gli altri in quanto si è sempre prefisso non di parlare di Dio, ma di parlare con Dio. Ha cioè inteso un Dio attivo nella relazione, un Dio che compie la sua parte. Compiere proprio nel senso della azione, della fattività di Dio verso il suoi figli, specie i figli nel dolore ( I Salmi costituiscono una prova magnifica e inconfutabile della chiamata dell’uomo sofferente verso il Dio attivo).

Ma resta la difficoltà iniziale: può essere Dio il sostituto dell’Altro mancante per l’Uomo che sta soffrendo e non trova nell’altro reale un referente per la comunicazione del suo dolore e per la relazione tout court? Da dire immediatamente che il ruolo di sofferente e il ruolo di figlio vanno a braccetto: a soffrire certamente ci si sente figli, si aspira al fare dell’altro su di noi come un figlio si aspetta il fare su di noi quale era il fare della propria madre.
Il soffrire comporta con sè sempre un’aura di eccezionalità, il suo esperire diventa una esperienza che va fuori dal comune e in quanto attore di questo vissuto l’uomo necessita del comunicare. Quando io soffro ho il pensiero che qualcuno al di sopra di me, in qualche modo veda e pensi alle mie sofferenze. Questo qualcuno possiede la conoscenza della sofferenza (oppure questa è una semplice mia illusione): io non voglio che questo qualcuno mi “insegni” a sopportare la sofferenza, ma che almeno mi pensi finchè soffro, che ci sia un bagliore di senso nel mio dolore e che questo bagliore sia compreso e saputo e conosciuto da un altro che sta sopra di me e che in quanto tale non può che assumere la posizione di Padre. Posizione di Padre che mi fa immediatamente ed automaticamente assumere quella di figlio.

Il figlio Cristo, nella propria storia, riproduce costantemente il proprio pensiero di Padre Dio. La vita di Cristo è la vita degli affetti del Figlio verso il Padre.

Ora l’eroe greco viveva nella sua aura di eccezionalità, lontano dal pensiero degli umani con i quali non aveva quasi relazione. E’ difficile pensare all’eroe greco, anche dentro al suo dolore, ad un uomo che abbia il pensiero di un padre che lo pensi. L’eroe greco è scisso da tutto e da tutti, nella perpetuazione delle proprie gesta che è sempre una perpetuazione di eccezionalità.
La tradizione ebraica invece è sostanzialmente antieroica in quanto normalizza e generalizza l’eroismo (nella accezione della santità). Tutti i fedeli sono chiamati all’eroismo della santità. L’eroe cristiano, nella sua esperienza del dolore ha un pensiero, quello che un Padre lo sta pensando nel suo dolore, forse che c’è conoscenza da parte del Padre del motivo del dolore stesso. In nessun altro momento come avviene nell’esperienza del dolore l’individuo può cogliersi nella sua natura di figlio in quanto sa di essere all’interno di un Padre che lo pensa, di un Padre che ha preso cura di lui.

Così lo stato di figlio diviene lo stato della speranza. Ad essere figlio si è nella cura del Padre. Se dunque l’eroe greco viveva nella sua aura di enormità, l’eroe cristiano incentra la propria esistenza nella sua stessa normalità di figlio, figlio mosso dal desiderio di sintonia e di affidamento al Padre Dio ( Fiat voluntas tua ).
La speranza è quella che il Padre abbia una buona volontà nei confronti del figlio, che il Padre abbia un buon pensiero di lui, lo pensi bene, lo desideri. Non a caso nel cristianesimo è Dio che va alla ricerca dell’uomo, è Dio che ama l’uomo, proprio “amatevi come io vi ho amati”, Dio stesso dichiara il proprio movimento di amore e di pensiero nei confronti dei suoi stessi figli.

E’ la speranza il moto perpetuo. La speranza il moto che può costituire via d’uscita dalla ineluttabilità del dolore. Ma la speranza non è mai speranza in un qualche cosa di preciso e circostanziato. La speranza è speranza in un segno che è sempre trasposto nel futuro, speranza che vive di ragione propria, speranza che ha alimento dal suo stesso essere passione e sentimento, non necessariamente legata alla quiddità della meta. La speranza è il riferimento che il soggetto fa ad altro , e verso questo altro imposta il proprio discorso e la propria motivazione.

 

“Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo estendiamo com perseveranza. Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perchè non sappiamo nemmeno che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poichè egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” ( S. Paolo, Romani 8, 24-27 ).
Per Paolo dunque non esistono dubbi, la speranza trova il suo motivo di essere non nella sua stessa indeterminatezza oggettuale bensì nella sua arditezza spirituale: io non posso in affetti sperare in qualche cosa che già ho visto e che già conosco. La speranza è un affetto che, in realtà, sorprende: essa ha il suo unico motivo nel rimanere tale e non sfociare in alcuna oggettualizzazione, come il desiderio la speranza muore nel momento in cui attraversa un traguardo.

L’incontro del figlio con il Padre è possibile soltanto nella speranza, forse l’incontro reale davvero non è di questa terra. Il figlio in quanto tale è mosso al Padre dalla speranza continua di vivere nel suo pensiero, soprattutto quando il dolore può annebbiare tutti i pensieri.

 

 

 

Dolore e imputazione

 

La condizione che fa di un uomo un soggetto che possa essere amato, è che sia imputabile, ovvero che sappia (voce del verbo sapere) rispondere delle proprie azioni; l’amore non può essere scisso dalla responsabilità come abilità di rispondere per proprio conto alle domande che l’amante rivolge all’amato. Imputazione significa la categoria dell’esserci nel momento in cui viene rivolta una domanda, e sappiamo che la domanda d’amore è una delle più difficile a cui rispondere.
Dunque la vitalità del soggetto sta nel suo saper rispondere in merito all’amore. Ci si chiede ora se la imputabilità così intesa possa valere non già per l’umano che ama, bensì per l’umano che soffre.
La domanda potrebbe essere posta in modo più colloquiale, gergale ma certo più incisivo: “il fatto che io soffra può farmi avere lo sconto?” Per “sconto” qui si intende “sconto” nella relazione, ovvero che l’altro abbia per me che soffro un occhio di riguardo o usi i guanti bianchi in vista del fatto che io sono in una condizione deficitaria.

La risposta non è semplice. La relazione tra soggetto e altro funziona nel momento in cui tutti i canoni egualitari sono funzionanti, nel momento in cui non c’è preponderanza degli interessi dell’uno nei confronti dell’altro ma soprattutto quando al mio altro io posso rivolgermi con la fiducia che egli sappia portare sulle proprie spalle la mia presenza e a me stesso non chiedo riduzioni nell’affidare il mio peso nella mani dell’altro che per l’appunto io ritengo per questo affidabile.

Si capisce bene a questo punto che nella relazione qualsiasi tipo di sconto acuirebbe la sofferenza già presente in quanto la limitazione inficerebbe la legalità della relazione stessa che basa sulla fiducia reciproca che l’altro abbia sufficienti risorse personali da supportarmi. La presenza del dolore in tutto ciò potrebbe costituire, se la relazione viene male impostata, un muro anzichè motivo di avvicinamento. Un muro nel momento in cui è il dolore stesso, e non l’altro che soffre l’entità con cui io mi metto in relazione.
La relazione non funzionerebbe se io esautorassi l’altro come polo della relazione e lo sostituissi con il suo stesso dolore. Allora il dolore prenderebbe il sopravvento ed io correrei il rischio di perdere la prospettiva esatta dell’altro che sta con me, prospettiva che dice che si tratta sempre di un altro, mai del suo dolore. Accadrebbe come in quelle relazioni che si basano sul “rispetto”.
A ben vedere non si tratta affatto di relazioni legali. Se io sto con uno per rispetto, se amo per rispetto, se parlo per rispetto, se tratto per rispetto significa che se non ci fosse di mezzo la terza polarità costituita per l’appunto dal rispetto, la mia relazione con costui sarebbe completamente diversa. “Lo faccio per rispetto” non significa altro che io faccio una certa cosa in tuo favore, ma la molla che mi spinge non è tanto l’amore per te, ma il rispetto che in ogni caso è una forma di legalità esterna alla quale io mi uniformo e alla quale obbedisco nel mio interesse, il quale non è detto che collimi con il tuo.

 

In sostanza non si può rispettare il dolore ma si rispetta quella caratteristica dell’altro distinguibile nella sofferenza, la quale caratteristica, nella relazione, non può costituire motivo di esautorazione della unitarietà e della dignità dell’altro con cui mi metto in relazione. Invece molte forme di relazione, apparentemente improntate all’aiuto dell’altro sofferente, costituiscono in realtà un approvvigionamento illecito del cosiddetto soggetto sano di risorse che servono a lui ( dovere, altruismo, fare del bene, etc. ) ma che in realtà depauperano l’altro che sta male.
Ciò avviene quando una legge esterna, per esempio nel discorso che stiamo facendo, il rispetto, prende il posto di una legge interna che manca, che fa fatica ad instaurarsi nella coppia in relazione. Ci si accorge immediatamente quando due individui si frequentano non per un interesse e per un bene comune (legge interna del reciproco beneficio) ma per una falsazione del bisogno dell’uno nei confronti dell’altro. Qui il riferimento a forme distorte di missionarismo e proselitismo è fin troppo semplice da fare.

Meno semplice il riferimento al Salmo che recita che il giusto fa del bene anche ai propri nemici, avendo così la possibilità di mettere i carboni accesi sopra alla loro testa (chiaro il riferimento alla vendetta particolare del giusto che usa non l’odio ma l’amore per praticarla e per porsi non nello stato di perdono ma nello stato di superiorità del suo stesso nemico: c’è chiara perversione nei versetti del Salmo).

Allora il dolore non può essere inteso come un evento a se stante esterno all’individuo che lo sta sopportando. Nel mio pensiero e nel mio modo di relazione l’altro che sta soffrendo non ha perso nulla di sè, non è meno di prima per il suo mutato stato, non è indigente perchè ha apparentemente perso la propria integrità (della quale questione diremo più avanti). Non è un assurdo affermare che nel momento in cui sto con uno che soffre non devo nemmeno guardare in faccia il suo dolore, pena il pericolo di fare saltare la veridicità e la legalità della relazione.
Tuttavia non si può nemmeno misconoscere una condizione in atto, non si può fare finta che un dato fenomenico in atto nell’altro che soffre venga tenuto un non detto pericoloso che altrettanto potrebbe fare saltare la relazione. Qui il presupposto deve essere tassativo: il dolore non impoverisce ma cambia solamente, chi soffre non ha meno ma è solo diverso, e la diversità sarà tanto maggiormente foriera di buoni frutti nella misura in cui io, da sano saprò farla coincidere con un interesse comune, con un bene reciproco, con un vero e proprio principio economico di reciproco vantaggio.

Il bene dell’altro è il bene che il soggetto trae nella relazione con l’altro in cui lo scambio è totale: totale non nel senso illusorio che “ci si dà tutti, ci si dona completamente per il bene altrui” ma nel senso più realistico del pensiero che fare del bene all’altro coincide con il fare del bene a se stessi. Fare i propri interessi significa fare automaticamente gli interessi dell’altro, soprattutto dell’altro che soffre e con il quale io entro in relazione. Questo significa “niente sconti” con l’altro che soffre, per il suo e mio bene. Questo significa che l’altro per essere amato ma anche per soffrire (se possibile) del suo stesso soffrire deve essere un altro imputabile, un altro con tutte le carte in regola per la relazione.

 

 

 

Conclusioni

 

Da una parte abbiamo visto come la esperienza del dolore sia difficilmente riducibile ad altre forme di esperienza e dunque alla forma della comunicazione diretta e anche del sapere dell’altro sul nostro dolore. D’altra parte l’individuo che soffre nutre contemporaneamente un forte desiderio di immergersi, di immedesimarsi nel proprio dolore, quasi a fare del dolore la sua stessa identità. Per questo si parlava prima della importanza che nella relazione il dolore non prenda il posto del soggetto.
Abbiamo visto anche come nel dolore nasca la domanda metafisica in quanto il dolore è pur sempre esperienza di pericolo, di pericolo di perdita di sè. Ha ragione Freud a dire che l’angoscia è sempre angoscia d’attesa: “L’angoscia (Angst) ha una innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza di oggetto” ( S. Freud, Inibizione, Sintomo, Angoscia, in Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino 1978, p. 310).
E l’angoscia, proprio come pensiero di imponderabile e di indeterminato, spesso accompagna gli stati dolorosi. La richiesta di aiuto di fronte all’angoscia spesso è una domanda metafisica.

Se da un lato si può verificare nell’uomo che soffre la paralisi dell’angoscia, dall’altro può anche sorgere uno stato di rivalsa e di difesa definibile come fabbrilità . L’uomo che soffre comincia a fare, a darsi da fare, forse a fabbricare la propria esistenza, in modo magari diverso, cosa che in assenza di dolore non si era verificata. Sta qui il mito di Prometeo scolpito nei versi di Eschilo:
Essi (gli uomini) prima, pur vedendo, non vedevano,
pur udendo, non udivano: simili a larve di sogni
passavano nel tempo una loro esistenza confusa,
senza conoscere dimore di mattoni esposte al sole,
senza lavorare il legno, ma sotto la terra
abitavano, come formiche che il vento disperde
via, in antri profondi non rallegrati dal sole.

( Prom., vv. 447-453 )

 

Come Prometeo l’uomo che soffre usa la sua arte nel tentativo di opporsi alla implicazione più insondabile ma anche più sicura del dolore: la morte.
Ma il dolore diventa pena nel momento in cui si instaura il binomio sofferenza/colpevolezza. Sta qui il discorso kierkegaardiano: la pena assume un valore assoluto nel momento in cui l’individuo interiorizza la pena attraverso la colpa. E’ una elaborazione della tradizione ebraico-cristiana lo spingere la sofferenza nell’ordine della sua giustificazione. Allora il dolore diventa tragico nella sua accezione di pena e di colpa. In sostanza la sofferenza ha sempre una giustificazione e la giustificazione ha a che fare con una colpa dell’uomo.

Non è questa la imputazione di cui abbiamo parlato in precedenza. La imputazione non ha nulla a che spartire con la colpa. Imputare se stessi delle proprie risposte offerte all’altro che pone una domanda non ha nulla a che fare con il ritrovarsi colpevoli per forza nel momento in cui le cose non funzionano. La colpa è assolutamente diversa dalla imputazione.
Imputazione è atto di risposta e non approvazione del male (solo da qui potrebbe derivare la colpa). L’atto di imputazione per un soggetto non chiama mai in prima istanza in causa il male, nè quello di natura agostiniana come errata posizione dell’uomo come essere creato di fronte al Padre Creatore (dunque errata posizione del soggetto di fronte alla legge), nè quello di natura paolina che avviene a causa della non conoscenza dell’uomo del bene e della attuazione del peccato che dentro di noi malgrado il nostro desiderio di fare il bene. Così l’uomo biblico spesso ha trovato la giustificazione della propria sofferenza in un pensiero di se stesso come essere ingiusto.
Si nasce sani invece, dunque l’uomo è portatore di una salute iniziale e dunque di una predisposizione iniziale al bene: sta qui la sua capacità di imputarsi. Se noi vedessimo dentro noi stessi una natura originariamente maligna, se noi avessimo di noi stessi un pensiero negativo sulla nostra stessa natura, ci sarebbe assai difficile compiere un atto di reale critica verso noi stessi e fare seguire ad esso almeno un serio progetto di correzione. Se l’uomo non sa imputarsi (rispondere del qui e ora della sua stessa risposta) al suo pensiero di constatazione che qualche cosa in lui non funziona non potrà mai seguire un reale progetto correttivo e innovativo: se si vuole non seguirà mai la cura di se stessi.
L’uomo che soffre spesso si sente indicizzato e chiamato in causa dagli altri solo come sofferente, quasi che la sua nuova carta di identità dicesse: solo dolore. Costui soffre ancora di più quando le sue altre caratteristiche connotative della personalità, del carattere, del pensiero possono venire fagocitate dalla nuova caratteristica della sofferenza. Chi soffre corre il rischio di essere solo, per gli altri, la propria sofferenza.
Così di fronte al dolore il soggetto non può lottare in quanto il dolore non è un nemico e il dolore non è neppure colpevole. Lottare sarebbe uno sforzo immane e improponibile. Lottare sarebbe mettere in dura crisi il proprio stesso spirito di conservazione. Davanti al dolore l’uomo può solo adattarsi , ovvero conformare alla nuova condizione la propria stessa identità, ma soprattutto rivisitare i parametri della sua relazione con la alterità. L’Altro per il sofferente è un Altro mutato ma, come abbiamo visto in precedenza, affatto impoverito o sbiadito.
La reale difficoltà di attuare questo adattamento ha a che fare con il saper lavorare sul “pensiero iniziale di inadeguatezza” che ogni tipo di sofferenza inevitabilmente comporta in sè. La concezione di dolore è sempre legata ad una concezione di svantaggio (handicap).
Ma sappiamo anche che lo svantaggio è più un pensiero che una realtà, un pensiero che poggia la propria essenzialità sulle idee di inizialità, di potenzialità e di opportunità.
In noi vige una malsana illusione di integrità, ansia che nulla vada perduto della condizione iniziale di partenza. In noi esiste un altrattanto insano pensiero, quando perdiamo qualche cosa, che ci sia possibilità di reintegrazione, di restitutio ad integrum , che si possa riempire il vaso dal quale nel corso dell’esperienza di vita è stata versata qualche goccia. Ma quella goccia, quella parte di noi che è andata perduta non verrà mai più reintegrata come quella goccia. Potranno esserci altre forme di reintegrazione ma mai la restitutio ad integrum proprio perchè la nostra natura e il nostro destino è votato al cambiamento e alla perdita finale.

Ora il dolore è una delle esperienze umane che più chiama il soggetto a richiedere la sostituzione di ciò che gli è stato tolto, in potenzialità, in opportunità, in benessere, in salute, in tempo da vivere. Tuttavia ciò che è perduto è perduto ed è solo l’adattamento alla diversità della condizione che il soffrire comporta che può costituire l’unica soluzione, pena per l’umano l’ammalarsi del suo stesso dolore.

 

GUIDO SAVIO

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