GUIDO SAVIO: FIGLIO E PADRE – “PADRE E SESSO” – (QUARTA PARTE)
PADRE E SESSO
Che relazione esiste tra il padre e il pensiero (e la pratica) del sesso da parte del figlio? Come il entra il padre nel riconoscimento da parte del figlio della propria identità sessuale?
“Supporre allora il padre –scrive Francesco Stoppa nel suo La restituzione – nel punto di origine sia della sessualità (il padre seduttore) che dell’incontro con la legge (il padre edipico) è il modo per porre da subito in essere una relazione umana che contenga in sé l’esperienza intima del corpo e quella sociale della parola: le pulsioni che si impastano con la tenerezza, la legge che si fonda nell’amore e crea le condizioni del desiderio. Il bambino chiede di essere sedotto ma, proprio in virtù di questa azione con cui l’altro marchia il suo corpo, potrà “deanimalizzare” gli istinti, essere meno solo con le proprie emozioni e non totalmente alienato negli automatismi simbolici: ‘Insegnatemi a parlare, ma anche a godere e soffrire’”.
Il padre è colui che a partire dalla questione del sesso pone il percorso della distinzione. In effetti il padre è “colui che allontana”, allontana dalla pericolosità dei rapporti troppo stretti, troppo vincolanti, troppo soffocanti, troppo simbiotici o saprofitici.
Il padre è colui che si mette in mezzo (dovrebbe mettersi in mezzo) alle questioni troppo strette tra madre e figlio.
Sappiamo benissimo come il “padre assente” favorisca il divenire “coppia” di madre e figlio, con tutte le relative conseguenze (lo abbiamo visto in svariate occasioni). Ovvio che non è la relazione tra madre e figlio che sia patogena per definizione. Diviene patogeno l’attaccamento morboso e la incapacità di indipendenza: del figlio e della madre.
Succede poi che il padre sia “assente” per davvero e sorge così il problema dei cosiddetti “sostituti paterni”.
Secondo Françoise Dolto non esiste tanta differenza nella identificazione sessuale del bambino anche in assenza del padre reale. Scrive infatti in Come allevare un bambino felice :“Forse non in casa, ma il bambino ne conosce, vede gente, vede altri bambini che hanno padre, madre, fratelli, sorelle. E più tardi, a scuola, la popolazione infantile e adulta intorno al bambino rappresenterà la sessualità sotto la duplice forma maschile e femminile”.
E condivido quanto afferma Silvia Vegetti Finzi in Il bambino della notte in riferimento al “primo” pensiero del bambino sulla propria sessualità: “In quanto doppio narcisistico, la prima fantasia di generato è sempre monosessuale, ma sarebbe corretto dire presessuale perché viene prima del riconoscimento della eterosessualità”.
Il bambino, in altre parole, pensa che tutti al mondo abbiano il suo stesso sesso. E così delle bambine. Sarà il successivo (e auspicabile) intervento e lavoro del padre a mettere in ordine la questione della monosessualità.
Scrive Gustavo Pietropolli Charmet in Un nuovo padre. Il rapporto padre-figlio nell’adolescenza: “ La funzione essenziale del padre nei confronti di ogni figlio maschio adolescente, è quella di spingerlo a trovare la propria identità sessuale e ad esserne consapevole”.
Un uomo sogna che la propria madre gli dice: “Da te voglio il top“. Con questa frase la madre danneggia il figlio in quanto (da madre insoddisfacibile) lo esclude dal lavoro per arrivare alla soddisfazione e lo manda verso l’illusione che la soddisfazione del figlio sia strettamente legata a quella della madre: avviene qui la massima divaricazione tra volere e potere. Il figlio non potrà mai fare contenta la madre diventando quello che mai potrà essere, ovvero il top .
Il top diventa un feticcio al quale la madre inchioda il figlio (condizione già vista). Il feticcio non è mai il tutto ma sempre una parte, anche la crema magari, anche la ciliegina sopra la torta, ma sempre un posto irraggiungibile. Irraggiungibile perché relazionale. Ovvero, non è possibile che io affidi completamente la mia soddisfazione alla relazione con un altro, sia quella con la stessa mia madre.
Qui il padre “dovrebbe” intervenire, nel separare il pensiero illusorio del figlio che soddisfacendo la propria madre dovrebbe dare anche a se stesso soddisfazione. Il top esclude tutto quello che viene prima. E’ qui allora il tempo e il luogo della “madre totale” che vuole il totale, cioè l’irrealizzabile. Sembra questa la madre d’annunziana: “Mia madre… quasi ogni notte si levava per un’ansia subitanea e veniva alla mia stanza e indagava il mio sonno e mi imponeva una mano sul cuore”.
Ricordo un mio vecchio paziente che portava spesso questo ricordo d’infanzia: di notte si svegliava, tutto nelle stanze taceva, e questo lo mandava in angoscia. Allora andava nella camera da letto dei genitori, svegliava la madre perché “lo assistesse finchè lui dormiva”. La madre accondiscendeva a questa domanda malata, e così si creava “la coppia” madre-figlio che funzionava anche di notte: il bambino che aveva a sua completa disposizione la madre che rinunciava al proprio sonno per seguire l’illusione totalitaristica e narcisistica del figlio. Qualche psichiatra qui parlerebbe di “follia a due”. Poi in realtà, nel caso del mio paziente, di follia non si trattò, ma solo di una pur difficile nevrosi.
Dov’era il padre in quelle notti? Dov’era il padre nel momento in cui venivano fatte quelle domande? Dov’era il padre quando avrebbe dovuto rimettere a letto e calmare il bambino? Ovviamente il padre “dormiva”, sentiva, sapeva, ma dormiva.
Quel padre dormiente, quel padre “assente” aveva un vantaggio nella sua complice assenza: quello di dormire, ma soprattutto quello di non entrare in conflitto con il proprio figlio rimandandolo nel suo lettino (usare il “no” come giusta separazione dalla madre), e anche quello di non entrare in conflitto con la propria moglie, che a quella manfrina si era abituata e che le andava bene (forse per evitare proprio il sesso con lui).
Chiaro, per capirci, che quel padre non aveva “sesso” con la donna che dormiva nel suo letto se questa poteva essere svegliata in qualsiasi ora della notte (dal figlio) e costretta ad andare in un altro letto, anche se quello del figlio (che sesso non comprendeva). Ma in ogni caso il “sesso” era negato nella sede, nella relazione e nella istituzione deputata: quella del rapporto uomo-donna, prima che padre-madre (dove il sesso non avviene).
Per questo la questione dei posti è fondamentale, a partire dalla assegnazione dei letti, o lettini o culle.
Si tratta di “conflitti di competenze” in quanto il posto di padre, il posto di madre e il posto di figlio hanno a che fare con la competenza. Stare al proprio posto (se vogliamo, visto il caso a noi vicino) stare nel proprio letto non è una scelta logistica, tantomeno una scelta salutare con cui spesso ci si giustifica (“dormo meglio”), ma è un atto di regola, di legge del soggetto che si situa giuridicamente in quel posto (e non in altri non suoi) rispetto agli altri.
Purtroppo quasi sempre queste “occasioni” (dolose, ben s’intende) di “scambio di posti”, poggiano su di una condizione che qui mi verrebbe da definire “morale”: la morale è l’immoralità data dalla dipendenza di uno dall’altro componente della relazione: del figlio dal padre, del figlio dalla madre, della madre dal figlio, del padre dal figlio. Sappiamo bene che le dipendenze non sono univoche ma sempre biunivoche: ovvero ci si trova d’accordo e si spartisce tra dipendente e “colui dal cui si dipende”.
Il sesso è l’uscita dalla dipendenza nel senso che pone la questione dell’”ognuno sta al proprio posto”. Per questo si parla della “funziona paterna” nella determinazione della identità sessuale del figlio.
Figlio è un pensiero (ricordo che cura del padre è avere attenzione per il pensiero del figlio, per come il suo pensiero sul mondo, sulle relazioni, sulle cose, etc., si sviluppa).
Pensiero libero, in quanto altre forme di pensiero non esistono. Figlio è il prodotto, ottenuto con il fare delle mani, di quel soggetto che sta sveglio, che veglia, che si dà da fare ma soprattutto che accetta la finitezza del proprio posto, e che nello stesso tempo ne vede la potenzialità.
Portatore di desiderio, insomma. Il figlio è sempre colui che si industria e che lavora per la autonomia. Che significa la sovranità (essere libero e indipendente) sul proprio sesso. La attività sessuale è tutta un’altra cosa. Il pensiero di sesso, per il figlio/a è pensarsi capace di avere relazione nel senso di amare ed essere amato. Questo è sesso: un pensiero che il figlio ha nella propria testa, nel proprio cuore e nelle proprie gambe, il pensiero di scopo, senza essere un forzato della programmazione.
Sesso è il figlio che si stacca dalla dipendenza perché ha un suo scopo nella vita, o più scopi. In quanto soggetto dello scopo il figlio è il soggetto della salute. Senza scopo c’è la malinconia e la noia. Colui che ha pensiero di meritarsela la salute (il diritto di avere diritto), come di meritarsi il piacere e la salvezza. Il figlio è il soggetto dell’intraprendenza. Quello che si muove per primo verso l’avvenire e quello che ad esso è più disponibile. È il soggetto che non ci pensa sopra più di tanto in quanto ha “sentimento” di futuro, non programmazione di futuro.
Se io mi penso figlio, mi penso come “colui che inizia la sua strada da solo”. Il figlio è tale in quanto iniziatore, in quanto portatore di un pensiero di novità, anche quando il viaggio fosse già cominciato, anche strada facendo. Sempre pronto a cominciare qualcosa.
Il nostro amore per noi stessi è un pensiero di capacità, la capacità di essere capaci di iniziare qualcosa di nuovo, anche in corso d’opera. Ma figlio è anche colui che sa produrre un pensiero molto pratico: che “se ci va male da una parte… da un’altra ci andrà bene”. Il figlio è allora l’artefice della Speranza, in quanto sveglio nella sua esperienza di iniziatore e di continuatore (non soltanto dell’esperienza paterna), soprattutto nel momento in cui l’opera diviene difficile o non sortisce soddisfazione. Figlio in questo senso è produttore di alternativa laddove la soddisfazione al momento non è ottenibile.
L’amore di noi stessi, l’“egoismo maturo”, vive nel pensiero che c’è sempre la possibilità di ri-cominciare. Qui sta l’umanità dell’uomo e la forza del figlio: “posso iniziare in quanto ho saputo dimostrare che già ho iniziato una volta, che sono stato iniziato una volta”. Figlio è quel “tipo” che, per quanto esauribili, si dà sempre diritto a ulteriori opportunità.
Possiamo dire che noi figli abbiamo questo salvifico pensiero nel momento in cui abbiamo il pensiero di “essere contenuti” nella volontà di un padre, un padre che vuole la nostra soddisfazione e in quanto tale ci libera dalla malattia della inibizione. Ci libera nella pensabilità del nostro posto sessuale (uomo o donna)
Figlio è pensiero in riferimento al padre che dice: “Porta avanti tu il mio desiderio verso di te perché questa è la mia volontà su di te”; e qui padre e figlio si ritrovano nella reciprocità del loro pensiero di desiderio, nel pensiero appunto del proprio posto sessuale, che non vuol dire “atto sessuale” ma soggetto che ha diritto ad essere soddisfatto nella propria sessualità.
Figlio è sempre pronto a cominciare qualcosa. O qualcuno. Anche se stesso; il figlio infatti è l’iniziatore di se stesso. Inizio che non è una esperienza una tantum ma, se si vuole, una ripetizione, come abbiamo avuto modo di vedere, di una esperienza che i nostri genitori hanno messo in atto su di noi.
“Sono nato attraverso il piacere” non è una frase fatta, ma un dato esperienziale. Se non c’è il piacere… non ci si mette! Non si nasce nemmeno! E le esperienze di piacere di Uomo/Donna non si verificherebbero se prima non fosse stata sgombrata la strada dal pensiero: il mio piacere piace a qualcun altro, a partire dal padre.
Allora l’”Ubi bene, ibi patria” può benissimo trasformarsi in “Ubi bene, ibi pater”.
E il posto del padre sappiamo che è il posto del sesso in quanto sancisce la differenza che, per l’appunto, prima di tutto è sessuale. La nostra Patria è una Patria di figli. Cioè di soggetti capaci di “concepire” il sesso come “strumento” della loro capacità tanto di unione quanto di separazione dall’altro.
E il sesso, quello che andiamo definendo come sesso (pensiero/divisione), viene ben prima dei rapporti sessuali proprio perché “si regola” sul corpo pulsionale e non sul corpo biologico. E pulsionale significa, freudianamente, “che sta a metà tra lo psichico e il somatico”. Ovvero desiderio. Noi siamo la nostra competenza a desiderare, il nostro “saperci fare” con il nostro stesso desiderio. Il sesso sta nel pensiero di esso.
Bella e nello stesso tempo inquietante cartina di tornasole della fragilità umana, sull’amore e sul sesso, sono queste riflessioni tratte dai Quaderni di Simone Weil sull’amare ed essere amata, sul desiderare ed essere desiderata:
“Amore. Vorrei che colui che amo mi ami. Ma se è interamente dedito a me, non esiste più. Io smetto di amarlo. Sazietà. E finché non è interamente dedito a me, non mi ama abbastanza. Oppure: io vorrei il suo bene. Ma quale bene? Quello che io mi raffiguro come il suo bene? Ma lui non lo vuole. Se invece è completamente docile non lo amo più”.
Simone Weil dimostra proprio come sia il pensiero di padre che non funziona in queste sue pur umanissime riflessioni. Manca il concetto di separazione e di limite nel chiedere amore all’altro: o troppo o troppo poco. Meglio, questi concetti vengono intesi solo razionalmente, ma evidentemente questo non basta per mettere a tacere l’angoscia della filosofa francese che vorrebbe il “tutto” dell’amore dell’altro e nello stesso tempo lo rifiuta. Quello che rifiuta in realtà è il sesso come sanzione della divisione dei due desideri, “quello che desidero io è sempre diverso da quello che l’altro mi dona”. Il desiderio del tutto è il contrario del desiderio sessuale, che recita che alla soddisfazione (umana) ce ne manca sempre un pezzo.
Un solo desiderio, il mio, significa niente sesso. In quanto destino del desiderio è una parziale insoddisfazione: l’altro non mi soddisferà mai del tutto, proprio perché il suo desiderio è diverso dal mio. E qui sta la separazione sana, la divisione del desiderio, la divisione operata dalla parola del padre. In quanto tale padre è sesso.
EREDITA’
“Ciò che hai ereditato dal padre… conquistalo”, scrive Goethe nel suo Faust.
Il concetto di padre si pone come “conciliatore” (“metaxy” di S. Weil) tra i sessi proprio perché ne pone la questione della possibilità (Cacciari) e della libertà del loro pensiero, della loro differenza e della loro pratica. Il padre è conciliatore in quanto consente l’appuntamento, proprio perché è conoscitore dell’inizio e nello stesso tempo “indicatore” della speranza, è conoscitore perché ha già fatto questa esperienza, ma non spinge nessuno ad incontrare qualcuno o qualcosa per forza.
Accedendo ad un linguaggio colloquiale potremmo intravedere un certo passaggio da bambino a figlio in questo scambio di battute tra bambino e padre.
Domanda del bambino: “Sono ancora privilegiato?”. Risposta del padre: “Ce n’è un po’ per ciascuno”. E tale risposta, la risposta della accettazione del proprio limite, è sempre una risposta paterna, e questo dimostra che il padre indicatore della regola, per il bambino, prima ancora dell’Edipo, ovvero ancora prima della comparsa nella scena dell’attaccamento del bambino o della bambina nei confronti della madre e del successivo e sanatore intervento del padre che rompe la patologia dell’attaccamento.
L’amore funziona solo se è tenuto lontano dalla presunzione e dal presupposto. Il pensiero d’“amore presupposto” (cioè quello che mi sarebbe dovuto per forza) è un pensiero poco intelligente in quanto è antieconomico. Pensare che esiste da qualche parte un amore che mi è dovuto, di certo non mi fa lavorare. Mentre il lavoro accende la categoria del merito, e dunque del sesso. Intendere l’altro come “partnership”, socio in affari: quelli reciproci che solo l’amore rende possibili.
Il figlio dovrebbe pensare al padre non come ad un “ente superiore”, ma come ad una partnership. Il padre come “ente” potrebbe anch’esso costituire una forma di elargizione, una forma di “amore garantito”, cioè quello che non comprende domanda. Invece nella salute, per avere salute… “basta chiedere”, “basta lavorare”. Ma non lavorare per me (per il mio egoismo immaturo), bensì, per il bene di chi amo; il mio bene lo faccio passare attraverso il tuo bene, passando attraverso il mio concetto di padre. È in questa espressione (“passare attraverso il padre”) che si può vedere quella che Freud, ma non solo lui, ha visto come la cosiddetta “uccisione” del padre, il parricidio. Oltrepassare il padre per essere se stessi, per la propria autonomia, per la indipendenza delle proprie scelte.
Per questo il pensiero di padre è un pensiero di sesso, perché il sesso libera dal pensiero onnipotente del bambino che volendo il massimo e tutto per sé, poi alla fine si trova incastrato nella dipendenza dalla madre, o dal suo stesso desiderio che da essa non si sa allontanare.
Nella mia esperienza mi sono imbattuto con maggiore frequenza in dipendenze del genitore dal figlio che non viceversa. Mi sono tante volte chiesto il motivo. Risposta certa non ne ho trovata, ma solo alcune riflessioni: il padre ha il posto di “altro”, ovvero di quello che deve dire e rispondere, un posto rischioso e ansiogeno: si può sempre sbagliare (poi esistono anche genitori che sbagliano sapendo di sbagliare e non gliene può interessare di meno). Il padre pone la questione del sesso, nel senso che abbiamo visto: mandare il figlio da qualche altra parte che non sia la stanza dell’alloggio.
Certo, anche il “posto” di lavoro, ma soprattutto il pensiero di lavoro, il lavoro come istituto e valore, il lavoro come salute. Il padre è chiamato a rispondere al figlio in merito alla sua domanda più importante (anche se questa domanda non venisse pronunciata a parole nella relazione). La domanda è “insegnami a lavorare in modo che dal mio lavorare io possa trarre salute e soddisfazione”: è una questione, anche questa volta, strettamente morale.
Nel rispondere a questa domanda il padre non può servirsi di “massime” più o meno paternalistiche, bensì di “regole” paterne, sapendo noi che l’unica regola paterna che funzioni è quando il padre sottostà alla stessa regola: in termini più semplici ma forse semplicistici si potrebbe parlare di quando il padre da l’ “esempio”.
Un figlio unico mi racconta in analisi del suo lavoro nella ditta paterna. Lavoro che, a dire il vero, aveva fatto da sempre, quasi da quando era bambino, prima con cosucce manuali, poi con compiti di maggiore respiro e responsabilità. Il padre non lo aveva mai “retribuito”, proprio nel senso che non gli aveva nemmeno detto mai grazie per le sue prestazioni.
Questa era una questione che tornava spesso in analisi: il padre che “non riconosce” il lavoro del figlio e nello stesso tempo sfrutta l’incapacità del figlio di porre al padre quella domanda di cui si parlava prima: “insegnami a lavorare in modo che dal mio lavorare io possa trarre salute e soddisfazione prima di tutto per me stesso”.
Questo giovane uomo era alquanto amareggiato dal comportamento paterno, ma molto di più dalla sua stessa “mollezza” nei confronti del padre, per cui si era spinto, per qualche periodo della terapia, anche a concepire pensieri di omosessualità, vedendo la sua incapacità di fronte al padre come una passività patologica.
Dopo la laurea (ovvero solo dopo il riconoscimento di un diritto esterno) il padre decide di retribuire il lavoro del figlio, senza tuttavia redigere un contratto. La motivazione portata dal padre era quella antica quanto il mondo: “A che cosa serve? Tanto morto io tutto questo sarà tuo”. E il padre era sincero nel dire questo, tuttavia la domanda di autonomia del figlio veniva ulteriormente frustrata.
In quel periodo il figlio cominciò a manifestare un sintomo particolare: annotava in modo ossessivo e coatto nella pagina destra di un quaderno tutte le spese che suo padre considerava “inutili” che il figlio faceva “con i soldi di suo padre”, mentre nella pagina sinistra annotava quelle che secondo lui erano le spese “inutili” che il padre faceva in ditta, per poi confrontarle alla ricerca del disavanzo, che quindi sarebbe stata la sua “giusta” retribuzione. Il sintomo del figlio si articolava sul pensiero di “desiderio di uccisione” nei confronti del padre, ma anche sul pensiero della sua debolezza davanti a lui. Debolezza che questo figlio chiamava “mollezza”.
In altre parole il figlio indagava sul padre in merito ad una “eventuale” propria omosessualità (pensata solamente come “mollezza contrattuale” nei confronti del padre) che lui poteva desumere dalla differenza tra le“spese” che era sempre a favore del genitore. La classica ambivalenza: desiderio verso il padre e necessità di “ucciderlo”.
Messo di fronte, nel lavoro analitico, a questa realtà ambivalente, il figlio riconobbe sia l’attacco al padre, sia anche l’”attaccamento” al padre nel senso della identificazione (almeno tentata) su parametri omosessuali, e in breve tempo smise le sue annotazioni.
Questa esperienza appena narrata mette in evidenza quale possa essere la “reazione” di un figlio nei confronti del padre che non gli insegna a lavorare, soprattutto che non gli insegna a vivere autonomamente la soddisfazione del lavoro e a sentirsi protagonista delle proprie azioni. Il padre di questa esperienza non può essere assolutamente considerato come un padre che aiuta il figlio nella ricerca della propria identità sessuale, anzi, rilanciandogli sempre la questione della “passività” gli ha fatto fare pensieri omosessuali che non avevano motivo di esistere.
Il lavoro serve per avere soddisfazione (e la soddisfazione la si ha se si sa bene occupare il proprio posto di essere sessuato) non come affermava l’insegnamento del padre-padrone di cui abbiamo appena parlato.
Un signore è venuto a parlare con me per tanti anni, eppure la sua “regola interna”, che in realtà era una dis-regola, non era cambiata più di tanto. Certo, è riuscito a stabilizzarsi nel lavoro, ad avere tre figli, ad approfondire la sua vocazione nel lavoro per il sociale, e tante altre buone cose. Quindi quella che si potrebbe dire una analisi riuscita. Eppure sentivo dentro di me, e anche i fatti lo confermavano, che quella “regola interna” inizialmente patologica (da cui la richiesta del trattamento analitico) in fondo in fondo non era cambiata.
Questa “regola” recitava più o meno così: “Se io mi do da fare per un altro (lavoro per lui), costui la intende come una mia debolezza, e mi frega. Se l’altro lavora per me, lo fa alla fine della fiera, per raggirarmi. Non mi fido dell’altro che si muove per me. Non mi fido dell’altro che vuole il mio bene”.
Ora è anche difficile capire come una persona che si attesta e si arresta su di una legge così negativa, abbia potuto raddrizzare la sua vita nel modo che abbiamo visto. Ma questi sono i misteri dell’animo umano: i comportamenti possono variare, senza che il nocciolo si sposti più di tanto.
Quello che mi ha sempre colpito in questo signore è stata la sua sottomissione ad ogni mio attacco alla sua “regola interna” patologica, ad ogni mia “sgridata” per redarguirlo del suo comportamento. Egli quasi andava in cerca delle mie “lavate di capo, ma poi continuava nel suo menefreghismo. Il capire la negatività del proprio comportamento, il suo non volersi mai “calare” dentro la realtà era una cosa alquanto palese perché non solo l’analista, ma tutte le persone che frequentava avevano capito l’antifona, eppure egli continuava ad essere convinto della sua teoria.
In tanti anni di lavoro come analista non sono arrivato a molte certezze, tuttavia questa è una delle poche. Molte persone continuano a soffrire e a fare soffrire gli altri, pur di mantenere la propria ragione sulla propria “regola interna (che poi altro non è che una teoria patologica)”. Si sacrifica una vita intera (propria e degli altri) pur di non ammettere di avere torto.
Un inciso sulla diagnosi in terapia: non guardare tanto quanto il soggetto soffre ma quanto fa soffrire coloro che vivono accanto a lui.
In questo caso la “regola interna” riguardava il lavoro: è inutile – diceva questa regola – fare più di tanto (e farsi fare più di tanto) tanto alla fine c’è la fregatura.
Per questo mi sento di dire che la “buona regola” in merito a questa questione, è quasi quella regola kantiana che recita: “agisci in modo che bene/beneficio/profitto/guadagno/vantaggio si produca dal rapporto con un altro: che l’altro tragga dal tuo lavoro e tu dal suo.” Questa è la regola che il padre può dare al figlio come massimo asse ereditario. I talenti si trasmettono (non le soluzioni), e i talenti vanno usati.
Due parole sulla parte finale della parabola dei talenti, quella che maggiormente interessa il nostro discorso della regola che porta alla soddisfazione: “Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha dieci talenti. Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti (Matteo 25, 35).
Il padre è qui allora una esperienza comune di mezzo, di traslazione, di trasporto dalla condizione patologica del pensiero di penuria delle risorse (“Non ce n’è per tutti, dunque neanche mi ci metto”) al pensiero guarito che afferma che del beneficio esiste diritto. Esiste diritto ad arricchire se stessi e chi ci ha dato i talenti.
Quale è l’effettivo peccato del servo fannullone? Lo dice chiaramente Matteo: la paura, paura di abbandonare per un po’ quello che ha (il talento), paura che, se vinta gli farebbe poi ottenere un vantaggio maggiore. La logica della crescita, e dunque del lavoro, è quella della operosità, quella del saper rischiare su quello che si possiede per dirigersi (con relativa certezza di riuscita) verso quello che si desidera.
Per questo il principale insegnamento del padre in merito al lavoro (e non solo) dovrebbe essere quello del non avere paura, di superare la noia (anche comprensibile) insita nel figlio, e di prospettargli una realtà che al momento è ancora tutta da disegnare. Allora l’economia di padre e figlio sarà una economia che funziona per mezzo di un lavoro che porti a un vantaggio soggettivo e a un vantaggio reciproco.
Si dice spesso al proprio figlio: “Ma dove hai la testa?”, e ci si accorge che il pensiero, in questo caso, è lontano dalla condizione fondamentale dell’essere presente alla situazione, al momento, in pratica il figlio è “via con il pensiero”. Ma dove è? Spesso da nessuna parte, spesso nella noia, spesso nella sua (anche legittima) nebbia. Ed è qui che il padre dovrebbe “fare nascere” il pensiero, svegliare il pensiero. Il pensiero infatti corrisponde, nella sua formulazione di salute (dare a sè e all’altro il beneficio) alla parola passione, trasporto, superamento della paura, altruismo, investimento, rischio, se si vuole.
Si potrebbe qui allora commentare l’espressione “fare una cosa con passione”. Non si tratta di un lavoro da fare con passione, come se la passione fosse uno strumento che si tira fuori nel momento in cui io sono chiamato a fare una certa azione o una certa impresa. Si tratta di fare un lavoro come passione. In tutto ciò che si chiama psicopatologia non c’è il pensiero come passione, ossia il pensiero come lavoro. Nella psicopatologia il pensiero è sempre deficitario. Ovvero si pensa sempre alla mancanza, alla penuria, al difetto, al mezzo bicchiere vuoto, alla parte che non c’è e lì ci si ficca, di cui abbiamo visto un ottimo rappresentante nel servo fannullone della parabola dei talenti.
Molti nostri figli si fissano invece, in un mix di noia e di disillusione, ad una teoria alquanto pericolosa, la teoria della penuria delle risorse (termine tratto dalle “teorie economiche”).
Quante volte noi genitori “imputiamo” ai nostri figli, oppure direttamente li accusiamo, di non essere stati capaci di vivere (alla stessa età) le stesse “esperienze” che noi abbiamo vissuto?
Come se nostro figlio dovesse essere un clone che si misura su di una strada già percorsa da altri, che gli dicono di percorrerla, con il vantaggio reale di averla già percorsa.
E’ questa una delle maggiori scorrettezze, a mio modo di vedere, di tutti noi genitori nei confronti dei nostri figli quando vogliamo “chiamarli” al lavoro e alla produzione (di vita e dunque di soddisfazione).
Eppure i tempi sono cambiati, e noi lo sappiamo. Ma tralasciamo qui la facile sociologia.
Per i nostri figli è più facile pensare che “non ce n’è” piuttosto che “ce n’è tanta” e loro devono darsi da fare per usufruirne. Pensare che “non ce n’è”, li libera dalla tensione, dal pericolo di frustrazione, dal lavorare troppo, dal sudore della fronte. Eppure quanti sono i nostri figli che non temono la fatica! Più di quello che noi pensiamo o le statistiche dicono. Più di quello che noi del nostro figlio pensiamo. Eppure molti si fermano sul pensiero che “non ce n’è”.
La patologia del pensiero di penuria delle risorse (“Per me non ce n’è abbastanza di possibilità di soddisfazione”) avviene dalla crisi del concetto di padre. Il pensiero di padre ha le proprie leggi: la prima è che la “ricchezza esiste”, ed è a disposizione di chi voglia arrivarci: questo potrebbe essere il primo articolo della legge del padre.
Ho letto tempo fa un articolo di un quotidiano che suonava così: “Non occorre più un padre per fare un bambino”. E’ questo certo un titolo di un articolo di giornale ma anche l’idea generale del nevrotico, il quale, se deve ammettere il padre biologico lo ammette pure, ma se deve ammettere il padre del pensiero, il padre che gli sveglia il pensiero, il padre che gli dà la spinta verso il lavoro per raggiungere la “ricchezza”, si tira indietro, retrocede. Gli psicologi direbbero “regredisce “ ad uno stadio precedente (molti dicono duale, materno) in cui il lavoro, lo sforzo, l’inventiva, il capire il fine e lo scopo di quello che si va a fare, vengono ovattati, obnubilati. Manca la continuità che è effettivamente l’antidoto alla paura: più io continuo nella costruzione di me stesso, meno ho paura del fallimento del mio lavoro.
La patologia di tale pensiero si articola sul concetto non mai abbastanza elaborato di eredità (di cui parleremo più diffusamente nell’ultimo capitolo).
Anche la vita la si ottiene in eredità. E questo potrebbe essere un ulteriore articolo della legge paterna.
Allora il pensiero sano di padre, il buon padre tradizionale che trasmette l’eredità, in nome del quale si acquisiscono dei beni, è un’occasione per chiamare paterna quella legge per cui c’è un rapporto tra persone e cose non come già mie, ma come divenienti tali attraverso un cambiamento imposto ad esse (“chi mi tratta come sua eredità mi ama”).
Il figlio non può pensare già propria l’eredità paterna, già “pronta” per lui, pronta per essere usata al momento debito. L’eredità non è un costrutto già definito ma un atto in divenire: ovvero tutta la storia che passa tra padre e figlio. Il figlio deve capire, dall’esempio del padre, che l’eredità la sta costruendo lui con il proprio lavoro. Lavoro per stare bene lui e lavoro per fare stare bene gli altri, per “trattare” bene gli altri.
Trattare e trattamento dell’altro sono, a mio modo di vedere, punti cardine della eredità che il padre (vivo) continua a lasciare al figlio. Il padre che insegna al figlio il saperci fare, “to know how”, con gli altri, è un ottimo padre in quanto allena il figlio alla intelligenza e alla competenza. Proprio nel senso di “sapere stare al mondo” che, come abbiamo visto, è il “posto” che il padre dovrebbe occupare nel mostrarsi al proprio figlio.
Il padre è sempre in piazza (senza che la madre sia per questo sempre in casa), e la piazza è il senso del mondo e dell’universale di cui il padre è rappresentante. Il figlio lo può “imitare”, ovviamente senza tanti risultati, oppure “ammirare” con risultati ottimi.
Il padre è sempre un modello e, in ogni caso, deve, per funzionare, godere della stima del figlio. Molti psicologi non si sorprendono di tutti i “perdoni”, lo abbiamo visto anche in precedenza, che il figlio piccolo è disposto a concedere al padre assente, incapace, timido, etc., pur di mantenere dentro di sé l’idea di avere un “buon padre” e soprattutto di poter dire altrettanto ai propri amici. Il bambino piccolo “abbandonato” dal padre non se ne fa una ragione, lotta per negare la realtà, moltiplica all’infinito le briciole di affetto e di stima che il padre concede.
Il figlio piccolo, in altre parole, necessita della stima di qualcuno. Necessita di qualcuno che gli attribuisca valore (in quanto lui, da piccolo, non ne è capace).
Stigmatizza molto bene la situazione Gustavo Pietropolli Charmet nel suo Un nuovo padre quando scrive: “Lo sanno bene i fondatori delle comunità terapeutiche e degli istituti di riabilitazione, i quali indossano i panni del padre con un enfasi magari caricaturale ma efficace: ‘I nostri ragazzi’, come li chiamano, non hanno trovato il genitore all’appuntamento con il loro desiderio e si sono abbandonati a se stessi. Ne hanno combinate di tutti i colori finchè alla fine, esausti, hanno sentito il bisogno di fermarsi in qualche posto, e sono capitati lì. E lì sono stati trattati malissimo da adulti che di mestiere raccolgono figli ‘orfani’ e somministrano loro grandi dosi di valori paterni. Una volta inoculati questi principi – proprio come un ‘vaccino antirabbico’ – i giovani sbandati rifioriscono. Così funziona l’adolescenza: senza la stima del padre, vero o putativo, non si cresce”.
Proprio così. Il figlio necessita della stima di qualcuno. Ogni succedaneo del padre che compie questa funzione…la stima è minore. Il figlio fa domande ad “un uomo” e da quell’uomo vuole sentire risposte. Ne ha pieno diritto per il semplice motivo, lo sappiamo tutti, (e lo sanno i ragazzi che lo sputano in faccia ai loro genitori insolventi) che non sono stati loro a chiedere di venire al mondo. La questione tanto dibattuta del “nome del padre”, vista in precedenza, si riduce a questo: la domanda di stima che il figlio fa a “quell’uomo”, da quell’uomo non deve essere evasa. Altrimenti comincia un percorso di dolore.
Ultimamente ho notato una cosa nei giovani che vengono a parlare con me: si vede, meglio, si “sente” in essi quasi un dato biologico pronto a riconoscere un eventuale figlio anche prima che nasca. Si legge nei loro occhi la maggiore o minore o assente disponibilità a diventare padre. E questi saranno i futuri padri che avranno in bocca la risposta (giusta o sbagliata che sia) alla domanda del figlio.
Come scrive Ancora Pietropolli Charmet: “Oggi non è più così, anzi, è ormai provato che il padre è biologicamente pronto a riconoscere il figlio prima che nasca”.
Dall’altro verso della medaglia è abbastanza semplice “sentire” quegli uomini in cui non esiste assolutamente l’idea di avere un bambino, non ne sentono la necessità, non sanno neppure cosa sia la rappresentazione di un figlio proprio. Questo perché non è bene definito il loro posto sessuale ma soprattutto perché non è stata sufficientemente elaborata la regola economica della reciprocità del bene: il padre fa bene al figlio come il figlio fa bene al padre. Essi si sentono ancora solisti, se così si potesse dire (con il rischio poi di rimanere solitari a vita). Essi hanno paura di mettere al mondo qualcuno e portano la scusa che non vogliono farlo soffrire.
Il padre può “cadere” di fronte agli occhi del figlio, certo. E quanto è facile per un figlio (che lo vuole) fare “cadere” il proprio padre sull’altare del proprio “insindacabile giudizio”. Questo avviene di solito nella adolescenza, (non nell’infanzia quando il padre lo si difende, come visto, a spada tratta) quando la salvaguardia dei valori morali è considerata dal figlio una strada maestra per la conservazione del rapporto. Il bambino piccolo, lo abbiamo visto in precedenza, “difende” e giustifica tanti peccati paterni. Dalla adolescenza in poi le cose cambiano e anche l’occhio del figlio è molto più critico (a volte anche cinico) nei confronti del padre.
Un ricordo di un giovane uomo. Viveva il proprio padre come un idolo, il classico eroe senza macchia e senza paura, lo sentiva un uomo onesto, dedito alla famiglia, virtuoso nel lavoro e anche buon cristiano: il massimo dunque, forse il massimo della idealizzazione, e si sa che quando si viene portati tanto in alto, poi, quando si cade, sono dolori maggiori. Certamente a livello inconscio, in questa persona, questo eccesso di idealizzazione della figura paterna nascondeva (neanche più di tanto) una aggressività molto accentuata e una invidia altrettanto potente.
Sta di fatto che il figlio, a quel tempo quindicenne, si reca allo stadio con il padre e alcuni suoi amici per assistere ad una partita. Il padre si sente “libero” tra i suoi coetanei, il linguaggio è “sciolto”, come il mio paziente non aveva mai ascoltato, gli argomenti vari, non escluso ovviamente sesso e donne . Già il mio paziente comincia a sentirsi a disagio vedendo e sentendo il proprio padre in una veste che prima gli era sconosciuta: troppo “spregiudicato”, troppo sopra alle righe rispetto al modello che lui si era creato. Ma la goccia che fece traboccare il vaso sgorgò in un momento preciso: il centravanti della squadra del cuore, solo davanti alla porta, manca clamorosamente il gol. Il padre lo manda a quel paese, accompagnando l’invito con una sonora bestemmia.
Il mio paziente ricorda tutti i secondi successivi all’episodio fatidico: si sente la testa confusa, comincia a sudare, sente nausea, si sente barcollare con il timore di cadere giù dai gradoni degli spalti, quasi spinto da quella bestemmia. Riavutosi dalla sintomatologia che non fu difficile definire “panico”, voleva subito tornare a casa, ma da solo, senza il padre e i suoi amici che glielo avevano “traviato”, voleva tornare dalla madre “tradita” anche lei da quella bestemmia, e forse anche da altri discorsi. Il padre non era affatto come lui lo aveva idealizzato, ma era (diciamo noi) un uomo qualunque che di fronte alla “cappella” del centravanti tira giù un “sacramento”, come (forse) qualsiasi altro avrebbe fatto.
Il figlio entra in un mutacismo isterico, il padre gli chiede spiegazione ma lui non parla, il figlio non sa se il padre si sia accorto della “gravità” del suo gesto e sente una repulsione “fisica” rispetto alla vicinanza con il padre, quasi volesse farlo scomparire, o scomparire lui: i due corpi non erano più compatibili su quegli spalti.
Il mio paziente a tutt’oggi non ricorda il risultato finale della partita né come egli sia giunto a casa, se accompagnato dal padre e dai suoi amici, oppure, in qualche modo da solo. Ricorda invece il suo incontro con la madre a casa, che lo disgustò altrettanto, come vedesse nella madre poco prima “tradita” pur sempre una “complice” del padre. Ricorda che si ficcò sotto le coperte mentre entrambi i genitori gli chiedevano se stesse poco bene. E lui muto. Ricorda che il lunedì successivo non andò a scuola e rimase a letto fino a tardo pomeriggio.
Che cosa era realmente successo? Era successo che la ammirazione-idealizzazione del padre era banalmente caduta al primo inciampo perché appunto era eccessiva e mascherava una non accettazione della realtà da parte del figlio che aveva troppo elevato il padre, lo aveva messo su di un piedistallo impraticabile proprio perché lui stesso (il soggetto figlio) mancava di “basi” su cui costruire la propria identità e autonomia. Si era spostato a peso morto sul corpo del padre e quando il corpo del padre aveva naturalmente mostrato la propria “umanità” era crollato il corpo del figlio (si veda appunto la particolarità del sintomo fobico).
Quello che il mio paziente non aveva capito è che i padri, bene o male, stanno tutti sulla stessa barca: tutti hanno le loro pecche e le loro debolezze. Per proprio vantaggio lui aveva negato quelle del padre (ovviamente per non riconoscere le sue) e quindi è bastato un flatus vocis un po’ (forse anche un po’ tanto) blasfemo per fare cadere il castello di sabbia.
Passò del tempo prima che il figlio riconoscesse da sé questo discorso (infatti quando venne da me lo aveva già bene digerito) ma un segno restò: la difficoltà di vedere tranquillamente partite di calcio di un certo livello, non perché vi incombesse lo spettro paterno, ma perché il ricordo e il dolore del sintomo non erano ancora del tutto passati.
Il figlio, in qualche modo era uscito dalla dipendenza dal padre, anche se si trattava di una dipendenza da “idealizzazione”, che forse è una delle peggiori.
LA PAROLA (DATA)
Il parlare tra figlio e padre è la strada della salute.
La miglior parola che possa “correre” tra padre e figlio è quella del corpo : corpo a corpo (nel bene e nel male lo abbiamo visto nell’episodio precedente).
L’astenersi da questa “pratica”, sia da parte del padre che da parte del figlio, comporta numerosi pericoli.
Guai se il figlio smette di domandare. Guai se il padre non risponde (anche se la risposta, come si dice, nessuno ce l’ha in tasca).
Molti studi infatti affermano che esiste una notevole ricerca da parte di figli “difficili” (giovani senza amici, ragazzi che vanno male a scuola, ragazzi che faticano a trovare una partner, ragazzi che perdono motivazioni, etc.) nei confronti della parola paterna. Parola paterna che possiamo benissimo intendere come giudizio, come “stima” della realtà oggettiva che il figlio non si sente ancora in grado di formulare da solo, anche se è adulto e vaccinato.
La parola non è solo un sistema di comunicazione ma è soprattutto un sistema per pesare i fenomeni, la realtà, le persone, i sentimenti, e al tempo stesso un sistema giuridico attraverso il quale figlio e padre affermano l’uno nei confronti dell’altro quello che è il loro “posto”, dove ognuno dei due sta di casa. Per cui al figlio spetta la domanda e al padre la risposta (e anche viceversa). Parola è “avere voce in capitolo”.
I figli annoiati sono quelli che maggiormente hanno bisogno di questo tipo di parola. I figli che “a parole” rifiutano il padre e la sua autorità sono quelli che maggiormente ne necessitano la presenza perché sono in difficoltà con la loro capacità di esprimere giudizi, su di sé e sul mondo. Succede poi che questi figli, sempre a parole, rifiutino la stessa risposta paterna che hanno chiesto. Succede anche che questi figli, per orgoglio e vanagloria non sappiano trarre vantaggio dallo stesso aiuto che la parola paterna ha portato.
Molti ragazzi, ad esempio, smettono volontariamente (abbiamo visto) di studiare per affermare un “qualche cosa” di proprio e avverso nei confronti del padre senza “ricorrere” alla parola; evitano il contatto verbale e discorsivo con il padre usando una scelta che poi si rivela dannosa anche per sé. Interrompere gli studi, o fallire negli studi, più spesso di quanto si possa pensare, è una “scelta” sostitutiva del figlio al fatto di “parlare” con il padre, o con altri. Il figlio parla in un altro modo (tace il suo impegno scolastico): facendosi del male.
Senza parola i pensieri diventano fantasmi e dunque i due corpi (quello del padre e quello del figlio) possono entrare in una logica di diffidenza e di precarietà fiduciaria: ci si crede reciprocamente sempre meno. Il parlarsi invece, ovviamente, ci rende leggibili prima da noi stessi e poi dall’altro.
La parola che il figlio fa al padre e che il padre fa al figlio, fa parte del corpo di entrambi e psicopatologia o salute dipendono da come si usa la lingua e il pensiero, anch’esso facente parte del corpo.
Il figlio che “parla” è uno che comincia a “fare da sé”: in effetti nel momento in cui il figlio comincia a parlare al padre, anche il padre fa altrettanto. Nella mia esperienza clinica ho sempre riscontrato questa reciprocità. Se comincia l’uno, l’altro lo segue. Poi sappiamo come problemi di narcisismo e di amore proprio (tra padre e figlio) facciano in modo che l’uno aspetti il movimento dell’altro (prima di muoversi). Ma questa è storia di tutte le relazioni umane: nulla da meravigliarci.
Assai di frequente mi è capitato ancora di verificare come il rapporto figlio/padre sia sminuito e ridotto nella sua portata giuridica (giudizio), dalla sì presenza fisica del padre, ma dalla sua altrettanta assenza di parola. Per dirla in breve, si tratta di quel padre che non ha “voce in capitolo”.
Avere voce in capitolo significa avere peso in quello che si dice in un preciso contesto, poichè le conseguenze del ”detto” ricadono su altri. Ho visto come molti padri non si assumano la responsabilità della “ricaduta” delle loro parole.
Ora, il padre non è quello che ha la verità in tasca (ci mancherebbe!), non è quello che la dice sempre giusta, non è nemmeno quello che può pretendere ascolto e obbedienza dall’altro (figlio) se non se lo merita. La questione del merito è fondamentale: perché la propria parola venga ascoltata…bisogna meritarselo.
Un giovane uomo che ho ascoltato per molto tempo mi riportava abbastanza frequentemente questo ricordo d’infanzia: il padre era un soggetto “poco affidabile”, nella vita, nelle relazioni, nel rapporto di coppia, tuttavia questa scarsa affidabilità “funzionava” nel bambino in questione come una forte calamita. Ovviamente il bambino discerneva solo fino a un certo punto la questione morale, ed era fortemente attratto da un padre “ragazzo, sbarazzino, gaudente e sempre pronto all’avventura”.
E’ abbastanza facile dire come il figlio crescesse come un “sosia paterno”, sia per istigazione paterna, sia per spinta imitativa sua interna. C’era poco da fare: la “vita spericolata” del padre lo attraeva fuor di misura e lui spesso si trovava nella ambascia di dover perdonare il padre per le sue malefatte e contemporaneamente difendere la sua nascente coscienza morale . La parola del padre, o meglio, la frase del padre su cui questo giovane uomo si “fissò” e dopo la quale nulla fu più come prima fu: “Della mia vita faccio il c… che voglio”. Il figlio si trovò d’improvviso di fronte al vero padre: uno che della sua vita faceva quello che voleva, compreso l’escludere il figlio stesso. Questa realizzazione su chi fosse realmente il padre fu tanto chiarificatrice quanto imperdonabile.
Su questa frase saltarono alcune alleanze, il figlio non fu più “d’accordo” con il padre sulla conduzione della sua esistenza e piano piano si staccò sia dalla ammirazione verso il padre sia dalla dipendenza.
Io penso che sia stata la parola sguaiata, la frase volgare ad avere determinato il distacco (salutare per il figlio, non so quanto per il padre).
Il ricordo d’infanzia, dapprima favorevole e positivo, poi si stigmatizzò su quella (brutta) frase del padre, e da qui il salutare distacco del figlio.
Da quello che ne so ora i due stanno bene lontani, forse si ignorano, forse è il figlio che ignorando la “morale” del padre, è diventato un uomo.
Il padre senza voce in capitolo, dunque, non è affatto una rarità, anzi. Come ha modo di affermare Françoise Dolto nel suo Come allevare un bambino felice, il padre “vuole restare” tagliato fuori dal rapporto duale tra madre e figlio e dunque evita letteralmente di parlare, di metterci lingua, come se fosse in parte impaurito dalla nascita del figlio, e in parte temesse di entrare in un rapporto, quello tra madre e figlio, che naturalmente gli sembra quasi ‘sacro’”.
Questo padre è un padre che non ha voce in capitolo e dunque non sa (o non vuole) esprimere giudizio. E un padre senza giudizio è un padre senza peso. Un soggetto di questo tipo lo possiamo trovare in letteratura.
Allora in Peer Gynt di Ibsen non è che Solveig cerca il padre del giudizio, anzi lei stessa continua ingiustificatamente e perdonare il padre realmente colpevole. “Il padre di Solveig è colui che viene perdonato per le preghiere della madre” senza però averne merito. Vedasi anche la figura della Madonna che sempre intercede.
Ovvero questo padre è senza giudizio, è il padre che non ha giudizio sui suoi peccati, è il padre che conduce la sua “vita spericolata” e spera sempre nel perdono della donna (madre). Il padre che ne fa di tutti i colori perché ha il pensiero garantito di un perdono assicurato.
La parola del padre ovviamente è un “organo” di legge, non sensu strictu, si fa così o si fa colà, ma organo perche continua a funzionare nella relazione: “Parlando si fa regola, tacendo la si tace”.
Questo fin dalle prime esperienze di relazione del padre con il figlio-bambino.
Il pensiero di padre dovrebbe essere un pensiero che tende alla verità proprio in quanto il padre non fa tutt’uno con se stesso, non è pieno di se stesso (che poi sarebbe il padre degli psicotici, o meglio, il pensiero che gli psicotici hanno di padre).
Il padre è quella persona che insegna al figlio con il proprio corpo, che il desiderio non è assoluto ma relativo: lo si può amministrare solo nel rapporto tra me e te: in cui io sono io e tu sei tu. E tutti e due stiamo assieme nel volere il nostro bene proprio perché non siamo pieni di noi stessi e abbiamo spazio dentro di noi per ricevere l’altro. Capendone (tenendo entro di sé) il limite. Il padre che sa stare a braccetto con l’errore avendo posto questa possibilità nell’ambito della sua legge. Si sa perdonare il proprio errore, e non va in cerca di mediazioni o di sconti materni.
Non esistono “grandi discorsi” nella vita: esiste un spola tra persone, nel nostro caso tra figlio e padre, che tiene unita una trama che, se troppo larga, potrebbe dara spazio a eccessive interpretazioni e fantasie.
Quindi parsimonia e temperanza nella parola. Che ovviamente non è possibile pretendere come pratica comune nelle controversie tra padre e figlio. Tuttavia quello che è importante rilevare è come la “parola”, per quanto gridata, lanciata come un coltello, sentita come un pugno, assorbita come un dovere, etc., sia l’unica strada per due persone (padre e figlio) per dire all’uno chi è l’altro. E all’altro chi è l’uno. Per inciso: se il padre perde il senso della reciprocità della comunicazione, dovrà poi sentirsi responsabile dell’eventuale fallimento del rapporto. Ma questo capita in tutti i rapporti.
PENSARE CON LA PROPRIA TESTA
“Certo il padre d’oggi, nel suo inconscio, non coltiva il mito del Padre primordiale di freudiana memoria o del vecchio Crono, che i figli li sottomettevano o li divoravano – scrive Francesco Stoppa in La restituzione – Li custodisce invece con somma cura, come preziosi, inestimabili gioielli; salvo sminuirli quando li rimprovera di non saper ragionare con la propria testa, di non essere in grado di reggere le frustrazioni, di disinteressarsi di politica, di non competere con la sua generazione quanto a coraggio delle idee”.
La sovranità dei nostri figli sta proprio nella appropriazione di un diritto, quello di ragionare con la propria testa e di saper reggere le conseguenze del proprio agire (frustrazione compresa).
Il figlio acquisisce effettivamente una propria sovranità nel rapporto con il proprio padre nel momento in cui inizia ad usare la propria testa per giudizi, strutturazione di pensieri, risoluzione di problemi, effettuazione di scelte. Il figlio legge se stesso e il mondo con occhiali diversi da quelli paterni.
Quella fase di autonomia dunque che potrebbe passare sotto la condizione (che dice tutto e che non dice niente) dell’ “essere se stessi”.
Credo sia inutile qui addentrarci nella disanima della questione della autenticità, dell’essere se stessi, del comportarsi in modo naturale, etc, in quanto ognuno di noi ha una propria e originale modalità di esserlo (filosofi stoici, epicurei, ellenisti compresi).
Spesso tuttavia i genitori compiono una vera e propria operazione di “forzatura” nei confronti del figlio affinché appunto sia se stesso. Come giustamente annota Francesco Stoppa nel già citato La restituzione – perché si è rotto il patto tra le generazioni : “In sostanza, più che a ereditare valori comuni o modelli etici di comportamento, e a riconoscersi come il derivato di ciò che c’era prima di lui, il giovane è spesso istigato dai suoi genitori a essere veramente se stesso, e questa sollecitazione non ha nemmeno bisogno di concretizzarsi in seguito a una serie di confronti con l’autorità genitoriale o scolastica, con il partner dell’amicizia, e dell’amore o con la comunità”.
Vale a dire che questa forzatura ad “essere se stesso” può portare a un misconoscere il luogo da cui si proviene, a inseguire una astrazione. Invece il “pensare con la propria testa è il marchio della concretezza, è il dirigersi verso un obiettivo reale. E’ sperimentare la soddisfazione offerta dalla relazione con l’altro e dal superamento dei problemi che eventualmente si fossero interposti.
Un giovane uomo mi racconta questo spezzone di sogno (anche se il sogno è legato ad un ricordo d’infanzia, e a una immagine che certamente molti di noi ricorderanno): lui è Gatto Silvestro ed è rincorso dal cane con il collare con le borchie. La sua fuga si protrae per strade, orti, viottoli, finche lui-Gatto Silvestro, riesce ad arrampicarsi su di un grattacielo e raggiungere la terrazza. Sperando di essere finalmente al sicuro, tira un sospiro di sollievo, ma in quel preciso istante riappare dalla porta che dà sul terrazzo il cane con il collare pieno di borchie. Silvestro riprende la sua corsa disperata fino a passare, senza accorgersi, la balaustra e in questo modo corre nel vuoto. Continua, proprio come nei fumetti, a correre nel vuoto, con la testa rivolta all’indietro in cerca dell’inseguitore. Ma è proprio nel momento in cui lui “si accorge” che sta correndo nel vuoto che si ferma, “guarda in macchina”, come faceva Silvestro in quelle occasioni, e precipita giù. Ovviamente prima di toccare terra si sveglia sudato e in preda all’angoscia.
Perché metto questo sogno a questo punto del mio discorso? Perché a molti giovani accade di correre letteralmente nel vuoto, e nel momento in cui se ne accorgono, cadono, non prima. Camminano o corrono nel vuoto perché sono portati alla astrazione, al pensare ai pensieri, all’avvitarsi su progetti irrealizzabili pensati da altri, al perdere tempo in forzature del proprio essere per un miglioramento tanto impellente quanto impossibile. Giovani che si sentono richiamati da mille sirene…
“Ma torniamo – scrive ancora Francesco Stoppa – all’invito a essere se stessi. Forse chiunque si sentirebbe attratto dalla possibilità di fondarsi in se stesso, e di risparmiarsi la fatica di sottostare alle regole e alla esigenze provenienti dall’esterno. Ma se crescere significa, entro certi limiti, riuscire a fare senza l’altro, è pur vero che si tratta dell’esito di un percorso, complesso e non indolore, che passa per l’elaborazione della eredità che ognuno si è trovato sulla spalle”.
Nel corso della mia esperienza ho avuto modo di verificare poi come questo “essere se stessi”, da parte del padre che da parte del figlio, altro non sia che la capacità di governare un reciproco aiuto e di accettare un normale conflitto.
Proprio così stanno le cose: la sovranità del figlio, il suo pensare con la propria testa, poggia sulla sua capacità di essere solo, si stare da solo, di vivere senza l’altro (pur capendo che tout court, senza l’altro non si può vivere).
Talis pater, talis filius: se le cose stessero per davvero così saremmo costretti in un mondo invivibile, dove la legge del determinismo castrerebbe soddisfazione e piacere della differenza, dell’imprevisto, della irrazionalità e del frutto incerto che alla fine di tutti i giorni ci aspetta.
Un giudizio di causa-effetto è una verità, una verità liberante. Oppure una verità costringente fino alla morte. A seconda di come noi prendiamo la legge della causa-effetto, talis pater, talis filius . Non si tratta qui di scomodare Kelsen nella sua distinzione tra principio di causalità e principio di imputazione, che vedremo in seguito, ( H. Kelsen, La Dottrina Pura del Diritto) ma solo di porre la questione che l’eventuale fallimento della relazione figlio/padre è il non vedere dentro a questa questione.
Il padre porta sempre con sé un dono: a tutti e per tutti i figli di questo mondo. Questo dono è il proprio peccato. Che noi possiamo benissimo “laicizzare” nel termine di errore. L’ ammissione di errore del padre per il figlio è un viatico all’essere davvero se stesso, appunto senza timore dell’errore (ritorniamo a Kafka).
Se il padre non sbaglia nascondendo la propria mancanza diventa come Crono, Zeus, il Padre antropofago di Freud, etc., ovvero uno che pensa a se stesso e si fa cibo degli altri, a partire dai suoi stessi figli. E’ il padre pieno di se stesso. Non è questo un particolare da poco: che il comportamento delittuoso del padre principia dai figli e si estende negli atti che egli compirà nella società. Il padre cattivo comincia a fare ricadere la propria cattiveria sui figli, poi sul resto del mondo che lo circonda.
Con la propria testa e con la propria esperienza il figlio invece è chiamato a riconoscere ed accettare la mancanza da parte del padre, se vorrà poi accettare la propria.
Ma torniamo alla clinica. E’ sotto gli occhi di tutti, è nelle parole di molti padri in analisi che (mi) si chiedono: “Ho due figli (o tre, o quattro). Perché uno è diverso dall’altro? Perché uno è il giusto contrario dall’altro?
Io mi sono fatto una idea: bene o male tutti i figli, tutti noi figli, prima o poi, ci ammaliamo, ovvero abbiamo la nostra crisi, i nostri problemi, le nostre angosce.
Se mai dovesse esserci una differenza tra i figli di una stessa coppia, questa è data dalla capacità individuale di affrontare e risolvere i propri problemi. E sappiamo che i problemi si risolvono avendo un buon pensiero di se stessi, un pensiero di fede nelle proprie capacità e nei propri talenti, sapendo stare da soli.
Il figlio “in regola” è quello che si assume le proprie responsabilità : dico “in regola” perché ha capito la regola paterna che lo invita (non lo costringe) a usare il proprio giudizio, più presto che può, per dirimere le proprie questioni. Poi è ovvio che il buon padre c’è, è presente, anche con indicazioni e aiuti. Ma importante è che la regola sia il figlio a vederla in se stesso, nel padre e nel mondo: un lavoro di giudizio.
Il figlio impara più dagli errori del padre reale che dalle soluzioni azzeccate. Il padre non è l’autorità e il figlio che si scaglia contro l’autorità paterna (vedi la Lettera al padre di Kafka) prende un abbaglio. Semmai il padre è l’errore nella sua accettazione di accettarlo, il padre è il mancante senza vergogna, l’esente senza rossore che dal suo stato di non assolutezza prende la propria forza. La forza del padre è spesso quella che dal figlio viene letta come debolezza. Aveva in parte ragione Ferrarotti quando affermava che “il ’68 si è scagliato contro le figure esplicite e formali dei padri, ossia dei detentori della autorità…, senza rendersi conto che si trattava spesso di ruoli ormai svuotati e privi di forza reattiva”.
Il sociologo vede della negatività nella perdita di autorità (ma forse qui sarebbe meglio parlare di autoritarismo) dei padri reali, noi prenderemmo per positivi quei padri che dallo svuotamento del loro potere autoritario hanno saputo trarre motivo di relazione con i propri figli, nonchè ruolo nella società in cui sono chiamati a essere se stessi.
GUIDO SAVIO