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GUIDO SAVIO: FIGLIO E PADRE – L’AMOR PROPRIO DEL PADRE E QUELLO DEL FIGLIO – L’IMPEDIMENTO – (TERZA PARTE)

 

 

GUIDO SAVIO:

L’AMOR PROPRIO DEL PADRE E L’AMOR PROPRIO DEL FIGLIO: L’IMPEDIMENTO

 

Il padre è il soggetto che manda il figlio in giro per il mondo, lo manda a fare le proprie esperienze. Il cosiddetto “distacco” tra padre e figlio non è tanto dato dal figlio che “lascia” il padre nel posto dove era prima e lui se ne va da un’altra parte, bensì quello del figlio che riesce a staccarsi dal padre proprio per il fatto che il padre continua il proprio cammino (di soddisfazione) o ne inizia uno di nuovo. E’ il figlio che abbandona il padre, e non viceversa. Quello che voglio dire è che la relazione tra padre e figlio diviene una relazione tra uomo e uomo nel momento in cui i due pensano che l’altro sia sufficientemente libero di stare in piedi con le proprie gambe e di andare in cerca della soddisfazione per conto proprio.

E tanto più questo rapporto si liberalizza nel momento in cui i rispettivi e reciproci “narcisismi” di padre e figlio si risolvono: il figlio si vede per quello che è, e vede che quel padre lì gli è capitato, e non altri, non quello idealizzato, non quello biondo con gli occhi azzurri e il più coraggioso di tutti quelli dei suoi compagni di classe. Il padre, dal canto suo compie la stessa operazione: finalmente si risolve che il proprio figlio è “quello lì” e non quello che lui avrebbe voluto avere.

Narcisismo è, sempre e inequivocabilmente, guardare troppo se stessi.

Padre e figlio si distaccano se mettono apposto la questione dell’accettazione del dato di realtà, rinunciando a inutili, pericolosi e dannose “osservazioni reciproche”. Qualcuno li chiama “confronti”.

Potremmo dire che esiste un “narcisismo paterno” legato all’attaccamento del genitore al figlio (fino ad arrivare alla dipendenza). Anche la cultura contemporanea, che è narcisistica e fondata sulla legge del desiderio, riconosce un unico valore: l’imperativo della realizzazione personale del padre, magari con il figlio “incorporato”. Come se per il padre l’insuccesso del figlio fosse un proprio insuccesso, un pezzo di carne che gli è stato portato via.

Scrive Caroline Thompson in Genitori che amano troppo: “Il figlio viene ormai esibito come un attributo narcisistico. Quello che conta non è tanto che stia bene, ma piuttosto che faccia di noi dei ‘buoni’ genitori”.

Potremmo dire poi che esiste un “narcisismo filiale”, legato ad una preservazione del proprio Io di fronte alle intemperie del mondo, di fronte alla frustrazione, di fronte alla parola paterna stessa. Un narcisismo del figlio che trova le sue radici nella cosiddetta “ferita narcisistica”, che non sa accettare il confronto con la realtà e soprattutto la frustrazione, che non sa regolarsi nei confronti con gli altri figli, e tutte queste cose che bene conosciamo.

In ogni caso il narcisismo tende ad una eccessiva “protezione” del proprio piacere a discapito del confronto fruttuoso con l’altro.

A mio modo di vedere sia il narcisismo paterno che quello filiale poggiano su di un pensiero, il pensiero di “voler essere/dover essere al posto dove non si è, o non si è capaci di essere”.

Scrive ancora la Thompson nel libro appena citato: “Il fantasma del figlio perfetto ci costringe a essere a nostra volta genitori perfetti. Ed è difficile rinunciarvi, perché ne va del nostro stesso narcisismo”.

Chiaro che anche qui torna la questione del limite, dell’ accettazione di quelle che sono le proprie caratteristiche e potenzialità: il padre non può vedere nel proprio figlio una propaggine della soddisfazione che lui non ha avuto. Tantomeno il figlio può intendersi come quel soggetto “al quale non si può dire niente”, che dovrebbe essere preservato da critica e giudizio, nel nome che egli, per l’appunto, è figlio. Come se figlio fosse una garanzia di intoccabilità.

Ho seguito per parecchio tempo un giovane uomo che portava un sintomo abbastanza comune: il timore dello sporco (la misofobia), il timore che qualcuno, in un modo o nell’altro, potesse contaminarlo: con la stretta di mano, con l’alito, con lo scambio di biancheria, con la saliva sui bicchieri, con la scarsa igiene nel bagno pubblico, etc.

Come difesa per questi sintomi egli aveva eretto barriere che sostanzialmente si riducevano ad “atteggiamenti”, a escamotages per nascondere il proprio imbarazzo, le proprie fughe da luoghi in cui doveva rimanere, le proprie docce interminabili, e apparire “normale” davanti agli altri (e anche davanti a se stesso). Del tipo: “Sto male, ma faccio come se niente fosse”. Il cosiddetto “atteggiamento” è sempre un comportamento narcisistico che tende a “negare” la realtà per offrire di se stessi una immagine “migliore”.

L’atteggiamento è un po’ come la “prestazione”, come scrive Johann Nestroy in Giuditta e Oloferne: “Ora vedremo chi è più forte, io o pur io”.

Questo giovane uomo ricorreva dunque a continue “prestazioni” (chiamiamole anche performances) con se stesso e con gli altri: una finzione per nascondere la propria sofferenza che dunque non gli permetteva di prenderne effettivamente coscienza, e dunque la questione veniva procrastinata nel tempo, senza che si venisse a capo di nulla.

Un giorno questo giovane uomo mi riportò una frase del padre che, per quanto crudele e detestabile, non è del tutto rara. Ricordò che durante l’anno scolastico della prima media il padre continuava a dirgli: “Sei una merda” (per inciso poi questo giovane uomo si è laureato in una disciplina tecnica molto difficile e foriera di grandi opportunità di lavoro).

Ecco il punto di partenza. Per evitare il ripetersi della contaminazione dalla offesa paterna ( la merda stessa), il nostro giovane uomo aveva elaborato una teoria e un comportamento che lo portavano a…non volerne sapere della offesa paterna, opponendo un proprio narcisismo ad una reale ferita: alle feste (per compensazione) agli amici raccontava le proprie avventure (vere ed inventate), la bugia con le donne era diventato il suo pane quotidiano, non accettava critiche da amici o da amiche, non voleva saperne di essere in qualche modo “toccato”.

Resosi conto nel lavoro di analisi di questa sua “sovrastruttura” costruita per opporsi alla “offesa paterna”, le sue “prestazioni” difensive diminuirono: smise quasi del tutto di negare la sua paura dello sporco da un lato, e si limitò molto nel “voler dimostrare” agli altri (raccontando le sue “avventure”) quello che non era. Cominciò dunque a confrontarsi con donne reali (e non solo con quelle dei siti porno), con gli amici reali, con il padre reale, che oltre a dirgli che era una “merda” gli aveva detto (la memoria gli era tornata) molte altre cose più confortanti e lusinghiere.

Per farla breve, dal contatto reale con il contenuto della offesa paterna egli riuscì a “perdonare” il padre, cioè ad ammetterlo come uno dei padri possibili, quello che a lui gli era capitato. Questo giovane uomo chiuse l’analisi senza che io sapessi se i sintomi si fossero poi risolti del tutto, ma questo importava poco dato che mi scrisse una mail dopo parecchio tempo nella quale mi diceva con giusto orgoglio che lavorava come ricercatore in una prestigiosa Università inglese.

Questo giovane aveva accettato se stesso, aveva accettato la realtà con il suo odore e con il suo sapore e non aveva più cercato di celarla a se stesso e agli altri. Si era verificata la vittoria sul suo narcisismo, a partire dal pensiero di perdono nei confronti della offesa originaria.

Una breve digressione sulla performance come una delle forme più coriacee del narcisismo.

Io penso che all’interno del discorso della libertà ci sia quello della naturalità: è normale che sia facile, purchè io scenda dallo sgabello, mi abbassi al livello che sono, diventi la mia natura e accetti di fare quello che sono: nulla di più e nulla di meno. Le moderne patologie sono determinate sempre dalla ricerca dell’”in più”.

Penso mi conforti in questa teoria una riflessione che ora vado ad esporre. Io pongo come opposta alla parola facilità la parola performaticità.

La performance secondo me è la disgrazia dell’uomo moderno. Performance è giusto il contrario di facilità, in quanto chi si sente chiamato alla performance è inevitabile che si senta anche preso per il collo. Performance significa che io “devo” dare dimostrazione della mia potenza. Ma se la potenza la “devo” dimostrare mi accorgerò ben presto che la mia sarà solo impotenza di fronte ad una fatica immane.

Noi sappiamo che le performances sono destinate a fallire: non i cento metri, non il lancio del disco o del giavellotto, ma la performance che io metto nella relazione, la performance tra me e te è sempre destinata al fallimento (leggasi frustrazione e impotenza per me).

Nella performance non c’è relazione se non con me stesso. Io voglio esprimere la mia potenza ma non per farne ricchezza per me e per l’altro, bensì per dimostrare qualcosa a me stesso: qui io scivolo e cado per terra, qui io divento performatico e… antipatico! Se io voglio per forza un riconoscimento o una approvazione o una lode o un consenso da parte dell’altro (per esempio dal padre), rinuncio ad una limpida relazione con l’altro, in quanto mi servo dell’altro per un mio interesse, un vantaggio privatistico. Nella performance non esiste mai uno stop: si tira sempre avanti alla ricerca di quello che non c’è.

Il figlio che “fa” per essere visto dagli occhi del proprio padre (trascurando i suoi), in qualche maniera esibisce le proprie virtù senza trarne il giusto vantaggio, si sbilancia verso l’altro perché lo vede arbitro insindacabile del bene e del male.

Alcuni giovani che vengono a parlarmi delle loro cose per definire certi loro stati d’animo, certi loro pensieri, certe loro impasses le chiamano “seghe mentali”. Nulla di più esatto: la mente che gode di se stessa. Performance non è il corpo che gode del giusto nel rapporto con l’altro, ma il pensiero che gode di se stesso nel rapporto con se stesso: l’altro non esiste.

Fine della digressione.

Allora il narcisismo è “non raccontarla giusta”, per questo nella relazione tra padre e figlio questa questione può procurare dolore, a volte molto dolore. La relazione padre/figlio ha come finalità, non può essere diversamente, la soddisfazione reciproca, lo abbiamo visto. Ma questo non può accadere al di fuori delle coordinate della libertà e della naturalità: senza essere liberi e soprattutto se stessi, padre e figlio possono raccontarsi bugie, avere atteggiamenti, adire a performances, esibire il proprio narcisismo. Fuori dalla accettazione del limite tutto è possibile. Tutto è possibile tranne il dare reciproco, tranne l’esperienza di stima, la valutazione del coraggio.

Questo rapporto è fondamentale perché è il rapporto dell’ordine, il luogo dove le cose trovano una loro giusta dimensione e dislocazione. Tra figlio e padre è fondamentale e fondante l’etica stessa del rapporto.

La correzione o guarigione della componente narcisistica, sia per il padre che per il figlio, allora può avvenire nel fare funzionare una frase di questo tipo: “Parla come mangi!”.

Il figlio è amato nel momento in cui manifesta la sua spontaneità e supera la difesa nei confronti dell’apparire all’altro (vedi il caso appena riportato). Voler ben apparire all’altro è retrocessione al narcisismo e all’amor proprio dannoso perché egoistico. Accettare il proprio corpo per quello che è, è avanzare nel percorso di accettazione del limite e dunque della possibilità, nella vita, di trovare soddisfazione.

Il figlio che riesce a fare funzionare il proprio corpo significa che sa riconoscere epistemiologicamente in modo corretto il fatto che parlare è un qualsiasi atto del corpo, tanto quanto mangiare.

Questo significa “Parla come mangi”. Si parla con il corpo, e il corpo parla per noi: questo significa il riconoscere la rappresentanza del corpo. Se noi padri riconosciamo che il parlare è un moto del corpo, si è comes del figlio quando con il figlio si mangia bene assieme: è la salute del mio moto a farmi compagno di qualcuno che mi è compagno. E qui la compagnia è quella del principio di piacere, ovvero che a mangiare ci si trova gusto (prima ancora di pensare che il mangiare possa fare bene).

 

 

 

 

IL FIGLIO E LA NOIA

 

“Il padre è fondamentale per aiutare il figlio a uscire dalla noia. – scrive Gustavo Pietropolli Charmet nel suo Un nuovo padre . Il rapporto padre-figlio nell’adolescenza – Suo è il compito di essere il tramite con la società, proponendosi come modello da imitare direttamente o indirettamente. Senza padre i figli restano legati al sogno infantile di essere onnipotenti, e, così facendo, rifiutano di crescere e di vivere”.

Vorrei trattare la questione della noia attraverso due percorsi, in due modalità.

 

La prima. Il concetto di figlio, il pensiero di figlio è il prodotto di quel soggetto che si dà da fare, che accetta il proprio ruolo, la propria finitezza, un portatore di desiderio insomma, come in più occasioni abbiamo avuto modo di vedere. Il figlio che ha nella propria testa e nel proprio cuore e nelle proprie gambe la parola scopo. Senza essere un forzato della programmazione.

In quanto soggetto dello scopo il figlio è il soggetto della salute, quello che ha un pensiero di meritarsela, come di meritarsi il piacere e la salvezza. Il figlio è il soggetto dell’intraprendenza, quello che si muove per primo e non aspetta che sia l’altro ad aprire la bocca o a prendere in mano la cornetta del telefono. E’ colui che non ci pensa tanto ma fa perché ha un fine. E vedremo più avanti che il figlio è il soggetto della produzione di un fine ma anche della accettazione della fine. E sto parlando di un figlio che può avere dai nove ai novant’anni!

La seconda. La noia è il contrario del concetto di figlio. E’ il contrario di tutto quello che s’è detto finora del figlio. Mi riprometto di parlare estesamente della noia e porterò l’esempio di due soggetti (tratti dal mondo della letteratura) per così dire…annoiati. Due che da annoiati poi diventeranno noiosi, almeno nelle cose che prenderemo in considerazione, non certo nella loro produzione letteraria tout court.

Entrambi rispondono al nome di Francesco: il primo è Francesco Petrarca dal Secretum e il secondo è Franz Kafka, dalla Lettera al Padre. Vedremo nelle pagine di Kafka che prenderò in considerazione come egli non “faccia” assolutamente il figlio proprio nel momento in cui sputa addosso al padre tutte le sue accuse e lo pone come causa prima dei suoi mali.

Kafka non sa che vedersi vittima passiva del padre e non riesce in quell’atto di emancipazione e di liberazione che poi è quello che mette in moto ogni processo di guarigione, il perdono. Il figlio non potrà mai dire al padre, anche se ha avuto un padre disgraziato e debosciato: “Sei stato tu a rovinarmi”. Anche se questa potesse essere una parte della verità.

Il figlio, fissandosi su questo pensiero… non troverà mai se stesso, non troverà mai la propria responsabilità, ovvero la propria parte attiva. In questo senso il perdono è l’uscire dalla fissazione che blocca il figlio a pensare che il padre (ma potrebbe anche essere la madre, lo zio, l’allenatore di calcio, il prete in chiesa, lo Stato, l’altro, il mondo, la diversità… e chi più ne ha più ne metta) ha determinato il suo destino senza che egli fosse presente, e forse anche consenziente.

Ricordo qui che Nietzsche in Umano, troppo umano, afferma: “Chi non ha un padre degno di esserlo ha il diritto di cercarsene un altro”. Ma non prima di essersi assunto la responsabilità di riconoscerlo, il padre, e di riconoscere se stesso.

Il figlio è il soggetto che si assume la responsabilità dopo essere passato attraverso il perdono del padre, che significa avere vinto la fissazione del pensiero che lo inchiodava a vederlo causa prima delle proprie disgrazie. Si vede benissimo nella clinica. Quando uno o una la smette di dire male dei propri genitori e li “perdona”, comincia a guarire nel senso che comincia a perdonare anche se stesso/a. La correzione non è una prerogativa del padre ma del rapporto padre-figlio.

Noi siamo dunque, e dobbiamo pensarci, tutti figli, proprio in quanto c’è un unico Padre. Uomini vuol dire pensarci figli. Anche noi padri naturali, nel momento in cui ci pensiamo padri e non figli verso i nostri figli stessi, andiamo a complicare la faccenda.

Pensarci figli significa pensarci capaci dell’errore (e anche abilitati ad essere perdonati in questo errore). Se io mi presento a mio figlio come uno che può sbagliare… anche mio figlio avrà meno paura dell’errore e sarà più libero nel suo fare e pensare. Nel momento in cui io mi presento come padre infallibile (o almeno uno che ci tenta, cercando in tutti i modi di non farsi prendere in castagna) inoculerò a mio figlio la paura di sbagliare. Lo inibirò. Lo renderò meno libero. Pensiero elementare, banale, dunque… buona psicologia.

Pensarci figli significa pensarci anche naturalmente (non volontaristicamente) destinati all’errore, ma è proprio in questo modo che noi possiamo avere quel giusto amore per noi stessi che è dato dalla accettazione dell’errore e del limite (a partire da quello del padre).

Matteo: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt. 8,27).

Queste parole di Cristo chiamano a riflettere che la questione del figlio nella sua realtà e nella sua logica di fare, agire, muovere i muscoli, avere uno scopo, è la stessa questione del padre: chi è l’uno… l’altro è. Ma non tanto nella somiglianza reale delle relative esperienze di vita, quanto nel pensiero reciproco: se favorevole è il pensiero… favorevole sarà anche la relazione. Il figlio fa conoscere agli altri il proprio pensiero di padre, che è un pensiero di ricchezza, di eredità, di amore e di perdono, di speranza e fiducia nella vita, anche se (e soprattutto se) ciò fosse il frutto del superamento del padre reale stesso.

E’ vero. Tutti noi nella vita, forse per tutta la vita, andiamo alla ricerca del padre (lo abbiamo visto nella premessa). Ma la ricerca sarà meno angusta se ci portiamo dietro questo pensiero: l’errore, la mancanza, la contraddizione, il limite… fanno parte del percorso del padre e anche del figlio.

Ma ecco il punto, su cui vorrei soffermarmi. Il pensiero, il nostro pensiero di essere figli è il pensiero di…chi inizia. Il figlio è tale in quanto iniziatore, in quanto portatore di un pensiero di inizio. Sempre pronto a cominciare qualcosa.

Ma anche molto semplicemente è il pensiero che se ci va male da una parte noi riusciremo a farla andare bene da una nuova parte che andremo a cominciare. S’è detto spesso qui che “ce n’è sempre anche per domani”. Ecco il pensiero di inizio, di rilancio, come Rossella O’Hara nella famosa frase finale di Via col vento.

L’amore di se stessi e l’ ”egoismo maturo”, sono infilati per lo spago del pensiero che c’è sempre la possibilità di cominciare, e se si vuole (dopo l’errore) di ricominciare. Qui sta la mia umanità: posso iniziare in quanto di me ho un pensiero di figlio. Vogliamo intendere l’inizio come nascita? Mi sta bene anche questo… ma solo allora sarò figlio, quando saprò rinascere tutte le volte che la vita mi chiamerà a farlo.

Ricordo qui una parte di sogno di una signora quarantenne in cui si vedeva in sala parto e l’ostetrica, applicandole una flebo al braccio le diceva: “Suo figlio non è nato da un uomo ma da una flebo”. Si tratta di un sogno molto vicino a quello che abbiamo visto in precedenza.

La più smaccata contraddizione di quanto andiamo dicendo, in quanto c’è figlio solo in quanto c’è padre e c’è padre in quanto c’è figlio. Padre e figlio vivono l’uno in quanto vive l’altro. Sono imprescindibili. Se non c’è il padre (ma una flebo) non ci può nemmeno essere il figlio. Senza padre non si può dire figlio e senza figlio non si può dire padre. Anche se il padre del “generare”, quello che mette al mondo con il proprio seme, è solo una parte del padre di cui andiamo parlando.

Continuando con il sogno, questa signora vede un nastro trasportatore su cui scorrono dei neonati ben pasciuti e chiede curiosissima all’ ostetrica: “Da dove vengono e dove vanno quei bambini?” E si sente rispondere lapidariamente: “Quei bambini non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte”.

Ecco qui il senso del sogno: non c’è inizio, non c’è stato un iniziale pensiero d’amore che ha generato questi bambini e non c’è neppure uno scopo nella loro esistenza, non vanno da nessuna parte. Dramma, rappresentazione dolorosa, sorda e muta della assenza del pensiero di inizio, anche nel senso che il figlio inizia dal padre. I bambini del nastro trasportatore non sono stati amati come “venenti” da qualche parte, non sono stati colti come inizio di una vita ma come la perpetuazione di una omologazione… ecco, questi bambini sono il contrario del pensiero di figlio di cui andiamo parlando.

Se ci pensiamo figli abbiamo la possibilità di salvezza in quanto pensiamo ad un unico padre, che è quello dell’amore e non quello della flebo o del nastro trasportatore. Il padre ci dà la garanzia dell’inizio e della fine, nonché del fine della nostra esistenza.

La noia, come la definiscono Maggini e Dalle Luche in una loro raccolta di saggi dal titolo Il paradiso e la noia, altro non è che “l’assenza del desiderio”, ovvero la assenza di un punto di partenza e di un punto di arrivo. I reali nostri figli annoiati proprio non sanno lavorare sul loro desiderio, fanno fatica a dare un significato alla propria esperienza.

In quasi trent’anni di lavoro ho ormai imparato che chi vuole guarire è il soggetto tipo Archimede Pitagorico al quale si accende la lampadina del voler darsi da fare per… salvarsi. Non ci si salva se si porta la noia come vessillo.

Sostiene Franco Rella in Le figure del male : “Ecco, di fronte a questa “aegritudo”, di fronte a questa passione “acerbissima”, Leopardi dirà che anche la disperazione è meglio. La noia, la malinconia, è il sentimento del “nulla ad ogni istante”, e contro il sentimento del nulla pare non esserci difesa possibile”. Diversamente non avviene nulla.

Il pensiero di essere figli (non annoiati) recita che c’è sempre da qualche parte uno che prova piacere per il piacere che provo io. La legge è quella del piacere. E qui mi permetto di insistere. La legge del piacere è la legge che mi sorregge sia la condizione del lavoro, sia del senso che do alla vita. E’ impensabile per la legge del piacere (dunque la legge del padre e del figlio) che io viva 60, 70, 80, 90 anni, che semini, che lavori, che raccolga senza che questo non comporti per me un piacere. Se io non sono sorretto da un Principio di Piacere è impensabile che io, da figlio, inizi qualcosa. Io inizio se quella cosa mi piace, altrimenti lo faccio per forza e lo faccio male. Poi esistono anche le cose che per forza bisogna fare, ma anche là io sono chiamato a introdurvi la mia questione del piacere.

“Quello che faccio da figlio lo faccio per piacere, per piacere mio e per piacere all’altro”. In quanto io sono figlio di due che per piacere (attraverso il reciproco piacere, il reciproco amore) mi hanno messo al mondo. L’atto sessuale è secondario rispetto al piacere come principio. Padre e madre si sono amati nello spirito prima, e questo ha permesso che si amassero nel corpo, dopo. Per questo il piacere dell’atto sessuale è secondario.

 

 

E mi viene da dire che, quando due si amano, anche quando due fanno l’amore, non sono due ma sono tre: il padre è presente e loro due fanno del loro atto di amore una legge tra loro due in quanto si richiamano entrambi alla “legge del padre”, al pensiero di padre che dice: “Riceverai il piacere da un altro”.

“Tu piaci a me e io piaccio a te”, prima di essere una esperienza reale (anche estetica) è un pensiero sperimentato verso il padre… “a qualcuno piace che…” (e i puntini li riempie la mia competenza). Lì trovo il mio piacere e la attrazione verso tutti gli altri che incontrerò nella vita.

Voglio dire che le nostre esperienze di piacere non si verificherebbero se non avessero avuto la strada sgombrata, come da uno spartineve, da un pensiero precedente, quello che il mio piacere piace a qualcun altro, a partire da quello del padre. Il piacere come esperienza è cominciato dagli albori della nostra vita, se abbiamo avuto esperienza simile e pensiero, di tale esperienza… allora tutto è possibile.Tutto qui.

 

E se vogliamo restare nella questione del sesso, penso che tutte le persone che hanno i cosiddetti “problemi sessuali” ce li hanno perché pensano che quello che stanno facendo all’altro o con l’altro… all’altro non piaccia. Cioè hanno mandato a fallire la legge del padre che dice che il piacere viene dall’altro, e del mio piacere qualcuno ha piacere. Ed ecco qui la questione dell’essere “contenuto”.

Del corpus recipientis. Il pensiero è che io sono contenuto nel piacere di un’altra persona, sono dentro all’altro all’insegna della reciprocità del piacere. Ma attenzione, reciprocità non è uguaglianza. “Il rapporto tra due amanti è sempre asimmetrico” scrive Levinas. In amore non è pretendibile la parità. In amore c’è chi è e ha più dell’altro. Reciprocità non vuol dire “se io ti do tanto… allora tu mi devi altrettanto”. Questa diverrebbe la follia recriminativa del rapporto.

Tornando brevemente alla questione dell’”onora il padre”.

“Onora il padre” significa allora rivolgersi al proprio padre e affermare con i fatti che io ho seguito la regola del piacere a partire dal pensiero che il mio piacere piacesse a qualcuno. “Papà, lo provo anche con te questo piacere? Bene, altrimenti pazienza!!”.

Quando faccio qualcosa che io stimo discreto, corro immediatamente con il pensiero al fatto che ciò piace a qualcuno, e poi cerco anche di individuare questo qualcuno in persone reali. Vado in cerca di qualcuno a cui “raccontare” la mia esperienza di soddisfazione. Non ci trovo niente di male. Vedo rappresentazioni, vedo pezzi della mia storia, può anche essere mio padre reale quello a cui corro incontro nel momento in cui, come un bambino, penso di avere fatto qualcosa di buono. Non ci trovo niente di male. A quello lì piaccio, piacciono le mie cose. Non ci trovo niente di male. Se poi vedo che ai miei altri reali non piaccio più di tanto… corro in fondo al viale e vedo Dio e dico: “A lui sì almeno piacerò!”. Pur non essendo del tutto sicuro di questo!

Dio lavora per me. Mio padre reale ha lavorato per me. Otto Rank nel suo Il Sacro parlando del figlio parla di “senso creaturale” che “presuppone la presenza di qualcosa di numinoso, di sacrale di cui ci si sente creatura”. E sta parlando di un pensiero, un pensiero che il figlio deve avere. Sono creatura di qualcuno che in questo momento si sta dando da fare per me. Corpus recipientis.

E faccio questo perché sono stato abituato a vedermi, da figlio sano, un lavoratore. Scopo, senso, lavoro, relazione, Arbeit. E quindi proietto nell’altro questo mio pensiero. Se io non ho il pensiero che chi mi sta vicino sta facendo qualcosa per me, si dà da fare per il mio bene… sono fregato. Peggio. Se io non ho il pensiero di piacere all’altro, gli altri reali quando mi vedono faranno lo slalom, mi eviteranno perché hanno già capito che da me non potranno trarre nessun vantaggio. Se l’altro non lo convinco io della mia bontà… non sarà certo lui a fare il lavoro per me. L’altro lavora per me se io lo metto nelle condizioni di trovarne anche lui un vantaggio, un piacere. Questo è l’inizio. Sta a me sempre iniziare l’altro. E così il cerchio si chiude.

Troppo facile pensare che è legge quello che il padre comanda. Ma se anche esistono i padri-padroni di Gavino Ledda, sta al figlio capire che padrone non è sinonimo di legge. Troppo comodo per te figlio pensare che la regola sia quello che ordina il padre. Troppo comodo perché questo ti mette al riparo dallo sforzo del lavoro, ti rende uno scansafatiche, ti evita di creartela tu la legge e di assumertene le responsabilità.

 

La noia. E’ la diabolica antiteticità di quello che ho appena espresso sul figlio. Diabolico, dal greco dià-ballo, “metto di traverso”, metto il palo tra le ruote. Il diavolo è uno che mette il palo tra le ruote.

Per parlare della noia mi servo di questo testo di Carlo Maggini e Riccardo dalle Luche che sono rispettivamente uno psichiatra e uno psicologo. Libro che ho citato in precedenza. Vado avanti per pezzettini. Scrive Maggini: “ Alfa e Omega, la noia sarà anche per Nietzsche in ‘Umano, troppo umano’, il movente della creazione e lo stato in cui Dio ripiomba nel settimo giorno”.

Nietzsche afferma che la noia era tutto ciò che esisteva prima della Creazione e tutto ciò che ci sarà dopo il settimo giorno. Un Dio faber è anticipato e posticipato dalla condizione della noia.

La noia che viene definita da Heidegger: “Il tempo morto del sempre uguale”. Per questo il figlio è antitetico alla noia. Il figlio allora è il soggetto dell’inizio, quello che parte, quello che fa e che falla, che si muove, il soggetto della variegazione, della creatività che non è mai uguale a se stessa, della contraddizione se vogliamo.

Panta rei “ insomma diceva Eraclito, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, non si dicono mai le stesse parole anche se si recita la poesia a memoria un milione di volte. Sarò sempre diverso e sarò sempre diviso, giustamente diviso da me stesso e sarò sempre in contraddizione (eccola di nuovo!). Allora il fatto che io sia contraddittorio significa che non sono un noioso, che non vivo nella noia, che cambio come il figlio sa cambiare.

 

Continua Heidegger: “Il tempo morto del sempre uguale, privo di accadimenti…” io direi qui… privo di inizi. Ed invece qualcosa mi dice, se voglio stare bene, di affrontare il caffè del mattino con il pensiero di inizio, inizia una nuova giornata, inizia una nuova esperienza. Inizio e nuovo vanno assieme. Non parlo di “cose nuove” ma parlo di un…“parlo nuovo”. Novum cantum canamus (Agostino). Vedo negli occhi la persona che vedo ogni santo giorno da trent’anni e mi dico… adesso la guardo in modo differente, inizio con lei qualcosa di nuovo, mi sono stancato del vecchiume.

Continua Maggini commentando Heidegger…”anche perché fare il morto, preservando all’eccesso il divenire, garantisce all’individuo una parvenza di immortalità”. Eccola qua. Si torna sempre al peccato capitale. La superbia. La superbia che chiama la immortalità. Io ho incontrato non poche persone nella mia vita che non si spostano di un millimetro oggi da quello che sono stati ieri: nel fare, nel dire, nel mangiare, nel relazionarsi con gli altri… il “principio di costanza” fatto Dio.

A me questa sembra una specie di delirio . In questo modo questa gente pensa di garantirsi l’immortalità, spostando il mondo e spostando se stessi il meno possibile. Vivono l’illusione di non consumarsi, vivono l’illusione della immortalità. “Sono immortale- sembrano dire queste persone- perché non sono contraddittorio”, “Vado via dritto sul mio filo del rasoio, stretto ma conosciuto”.

A me viene da fare questo pensiero: chi non consuma, chi non si contraddice, chi non commette errore lo fa perché pensa di aver bevuto l’elisir di lunga vita. Alcune persone annoiate quasi pensano di deificarsi perché non si spostano più di tanto nel loro andare. Meglio. Ecco il punto. Il desiderio li farebbe spostare, ma il… resistere al desiderio li porta ad una paralisi mistica per cui… sempre avanti (cioè sempre fermi), fino all’infinito.

La moglie di una persona che conosco una sera a cena ha detto che il fare le stesse cose tutti i giorni la avrebbe resa immortale. Cuoca divina (e per questo io ero favorevole che facesse le stesse cose tutti i giorni), ma per il resto poi… non so adesso come stia di testa!

E cerchiamo di vedere adesso come sta il nostro figlio annoiato. Scrive Maggini: “L’accidioso è bloccato sulla richiesta del tipo tutto o niente”. E sappiamo benissimo noi, genitori o no, che la domanda-fregatuta per i nostri ragazzi è quella… “o tutto o niente”. Visto che la domanda intelligente del figlio al padre è quella dimensionata nel desiderio.

Temperanza allora, parsimonia, perchè la mia domanda deve essere calibrata. Lo squilibrio del noioso è dato dalla sua ignoranza in fatto di economia e vuole tutto e subito. E non è un modo di dire. Mentre per Green la noia è “attesa da cui non si attende niente”.

Mi viene in mente qui che l’ “ora et labora” di Benedetto da Norcia (e l’ora qui potremmo tradurlo non solo come “prega” ma anche come “parla”) è la questione dell’iniziare la questione dell’avere uno scopo e un tragitto nel proprio senso. E labora è l’atto che dà più senso a tutta la nostra vita. Io non concepisco vita senza lavoro.

 

Esquirol, uno dei padri della psichiatria moderna, qui parla nel 1838 e parla dell’ ennui du vivre , la “noia di vivere” che egli vede come “la malattia di vita di chi ha abusato di ogni piacere ed è sprofondato nella impossibilità di desiderare”: la noia come sanzione della propria impotenza a desiderare. Perché troppo e troppo male si è desiderato. Le spine sono quelle che anche la Enciclopedia, per così dire psichiatrica, vede la noia come “assenza di interessi, coscienza e presenza di un vuoto interiore, la penosità dei sentimenti, etc, etc.”.

Allora dunque, il Petrarca del Secretum, secondo me, è il soggetto dell’ indisposizione. Secretum, che è appunto l’opera da cui prendiamo spunto per fare le nostre riflessioni sulla noia. Noia patologica, aegritudo.

Dico solo qualche parola sul Secretum. Si tratta di un testo latino del Petrarca, un dialogo tipo platonico ma con la accezione medioevale del sogno (cioè come se i contenuti di quanto si va discutendo venissero fuori da un sogno). I personaggi sono tre: lo stesso Petrarca, Agostino e un terzo personaggio che non parla mai ma che fa sentire bene la sua presenza; si tratta della Verità. Il tema della discussione è l’accidia, o che dir si voglia la noia, o che dir si voglia la voglia di fare niente.

Dalla quale noia, come vedremo, si guarisce solamente attraverso la abilitazione del proprio Principio di Piacere.

E la definizione più bella, più precisa, più, se vogliamo, poetica della noia (malattia, accidia, aegritudo) la dà proprio Petrarca però in un’altra sua opera, quella più famosa, nel Canzoniere. Afferma il Petrarca appunto: “Conosco il meglio e al peggior m’appiglio”. Come Paolo di Tarso : “Non faccio il bene che voglio ma il male che non voglio” (Lettera ai Romani).

Petrarca, nei passi che leggeremo tra poco del Secretum ha una specie di sdoppiamento: fa il padre e anche il figlio (Agostino e lui stesso), ma anche analista e analizzato, maestro e allievo. Sembra che Agostino gli dica… “ma dai, sbranati fuori, non vedi che la tua noia (aegritudo) altro non è che un piangerti addosso (e magari tu la spacci per “ispirazione”), coraggio, se vuoi ce la fai a rinunciare ai vantaggi che la malattia ti offre e diventare finalmente un uomo”.

 

 

Ed invece Francesco niente, cincischia, fa il nesci direbbe il caro Giusti di Sant’Ambrogio (che poi era il maestro vero di Agostino).

L’accidia consiste nella divisione della volontà, nella incapacità del desiderio di desiderare il desiderabile. Nella incapacità del desiderio di sapere se stesso.

L’intelligenza dell’essere figli invece è data dalla “contezza” nella proposizione del proprio desiderio. Se si vuole troppo, se il figlio vuole troppo è un ingenuo! Non tutto e subito, non tutto e gratis ma passo dopo passo (la “contezza”). Anche se Lèvinas, parla della assoluta solitudine dell’uomo che desidera visto che non potrà mai “essere” l’altro desiderato.

Petrarca è il soggetto dell’inconciliabilità del proprio desiderio: si immaginava tutti i giorni in Campidoglio con la corona d’alloro in testa, acclamato poeta poetarum e nello stesso tempo sentiva dentro di sè, umano e puro, il desiderio di amare umanamente la sua Laura e amare, per quello che poteva, oltre che se stesso, anche il suo Dio. Amor sacro e amor profano. Non riusciva a conciliare. Questo l’inghippo del Petrarca. Inghippo acuito dal fatto che Petrarca si dichiarava apertamente attratto dal dolore.

Certo che c’è maggiore interesse là dove c’è il dolore, Dante docet. Il male costituisce una grande attrattiva per tutta la produzione artistica, letteraria, filosofica, teologica, mediatica, etc. La sofferenza, si è detto, inchioda l’Io al corpo, ne fa un non-oltre. “Andare oltre” è invece il tentativo, a volte anche riuscito, di tanta letteratura. Petrarca non è che ci abbia provato tanto.

Petrarca, di fronte alle accuse di Agostino di essere uno che si piange addosso, ha il coraggio di affermare che il suo male non dipende da lui. Coraggio perverso. Agostino gli dimostrerà che invece il suo male altro non è che una colpa, o per lo meno una sua responsabilità. Agostino non dice direttamente a Francesco che a causa di questo vago e non ben precisato senso di colpa, di questa aegritudo, di questo”annoiarsi” insomma, non riesce ad avvicinarsi nè a Dio nè alla sua donna.

Agostino taglia la testa al toro. Taglia la parola “senso”, non parla di “senso” di colpa ma di colpa reale. La psicoanalisi è nata secoli prima di Freud. Il “senso” di colpa è il modo migliore per fare della propria colpa reale una ideologia su cui giocarci o piangerci sopra.

Differenza tra senso di colpa e colpa è appunto il “senso” che fanno certi discorsi di autocommiserazione (“non ho fatto abbastanza per mio figlio, non sono stato abbastanza buono con mia moglie, non ho dato quello che potevo dare agli altri, non ho amato abbastanza, etc.), questi sono i discorsi che fanno “senso” perché ne mascherano altri, o meglio, un altro: la non volontà di correzione.

Persone che dicono le frasi scritte sopra continueranno a dirle senza correggersi, senza rimediare il peccato. Continueranno ad andarsi a confessare proprio per avere qualcosa da confessare senza affrontare seriamente la questione della contrizione e della redenzione, che noi chiamiamo correzione.

Il riconoscimento della storicità della propria colpa è il momento in cui il soggetto diventa figlio, cioè un essere in moto verso qualcosa, mosso dal proprio desiderio, spinto verso la salvezza…

In quel momento lì la colpa sarà passata dal suo stato patologico di “senso” di colpa e si starà già dirigendo verso il perdono, il perdono di se stessi, dopo essere passati attraverso la correzione, dunque verso la vera redenzione. Noi sdoganiamo la colpa rinunciando al “senso” e cogliendone la storicità, cioè la verità. Abbiamo commesso delle colpe reali. La colpa richiede anche una punizione. Il bambino quando sbaglia richiede una punizione (che qualcuno gli dica che ha sbagliato, vedi Freud in Un bambino viene picchiato) . Tutti i guariti poi sono quelle persone che hanno avuto qualcuno nella loro esistenza che ha detto loro: “Ehi, così non si fa, cambia registro!!”.

Agostino dice a Petrarca la stessa cosa: sta bene attento che finchè tu ti crogioli nel tuo senso di colpa farai fatica a lasciarti dietro le tue “pare” (proprio così, da slang giovanile).

Parla Petrarca: “Ma non posso dirlo senza lacrimare. Finora è stato invano e questa è l’ultima possibilità che mi spinge a contrastare la tua tesi (quella della responsabilità di Francesco sulla sua noia) con la quale affermi che nessuno è precipitato nella infelicità se non volontariamente e che è infelice solo chi vuole, del che tristemente faccio contraria esperienza in me”.

Petrarca insomma non ci sta ad ammettere la sua responsabilità nella eziologia del proprio male. Agostino gli ha appena detto che chi è precipitato nella infelicità lo ha fatto volontariamente: Francesco nega. Nega dunque di essere figlio, cioè responsabile.

Dunque Petrarca confuta Agostino, ma Agostino gli risponde per le rime. “Questo è un vecchio lamento che non ha mai fine. Eppure benchè finora abbia tentato invano non cesserò di inculcarti che non diventa né infelice né triste chi non voglia. E’ negli animi umani una tale perversa e pestifera voluttà posta a ingannare se stessi che nulla di più funesto è compreso nella vita”.

Negli animi umani esiste innegabilmente la perversa volontà e voluttà di ingannare se stessi. Questo è il punto. Non ce la raccontiamo giusta. Il malato (ma anche il sano) non se la racconta sempre giusta, non vuole leggere sempre correttamente la propria realtà. Quando comincia a leggerla giusta comincia anche a guarire. Ovvero c’è principio diresponsabilità. Non rimestiamo più le carte a nostro favore. Responsabilità. Poi nella responsabilità, su quella che siamo e facciamo, ci sono le misure, ci sono le spanne, ma il principio che… io c’ero è inconfutabile.

Sta attento, dice Agostino a Francesco Petrarca perché il soggetto, l’Io, che qui noi trattiamo come il principale benefattore di se stessi, può diventare il principale nemico di se stessi, solo che ci si metta di mezzo la menzogna nel non voler riconoscere la propria parte, la propria responsabilità. In questo senso figlio è responsabilità, è cioè verità, quella umana, quella a cui da modesti esseri umani ci si arriva vicini.

Chi si difende dal partecipare alla propria limitatezza diviene il peggiore nemico di se stesso.

 

E lo diventa perché non ha più la capacità di curarsi, di prendersi cura di sé in quanto egli stesso ha tradito se stesso divenendo menzognero sulla propria limitatezza. Non si prende cura di sé chi non si “piace” abbastanza. La guarigione è una questione morale. Non è la soluzione dei sintomi ma l’abbraccio della sincerità del soggetto presso se stesso.

Incalza Agostino: “Tutto ciò che è caratteristico di quella che ho chiamato accidia… tutte le cose tue ti dispiacciono… la accidia è il male del desiderio in quanto illusione (tuae omnia tibi displicet)”.

L’accidia è una colpa che è identica ad una malattia. La malattia di non saper dare senso e fine. Il bambino dà senso alla scopa che cavalca e la vive come un cavallo, un pony magari, ma ci galoppa sopra, e in questo modo prova piacere. Ha creato una trasformazione. Ha lavorato. Ha prodotto una soluzione e tutto ciò fa sì che egli abbia un buon pensiero di se stesso. Il bambino per questo percorso si piace. Ha cominciato a prendersi cura di se stesso.

Ancora il Secretum: il famoso passo de Le Catene d’oro” : Agostino afferma che la malattia è “catene d’oro”. Dunque dolore in quanto malattia ma anche vantaggio in quanto oggetto prezioso. Disfarsi dunque è difficile: si tratta di acquisire la libertà, però gettando via le catene d’oro (quello che Freud chiama il “tornaconto della malattia”).

Dice Agostino della responsabilità: “Temo assai che questo raggiante splendore delle catene, allettando gli occhi lo impedisca (l’oro non ti fa capire che sei prigioniero)… come un avaro fosse in prigione avvinto da catene d’oro: vorrebbe sì sciogliersi ma senza perderle.”

Le catene d’oro sono un impedimento, però se le molli perdi anche la bellezza e il valore dell’oro. La psicologia ha un solo contenuto da dimostrare, anche nella terapia: quello che nello star male c’è un vantaggio.

“Ahimè – risponde Petrarca – ero più infelice di quanto credessi. Mi allacciano due catene che non conosco”.

Riprende Agostino: “Le conosci benissimo, senonchè, conquiso dalla loro bellezza, non catene ma tesoro le giudichi”.

Il male, come la malattia, non è un non sapere ma un non voler sapere.

E lasciamo qui i due amici a discorrere sulla aegritudo per passare all’altro passo annunciato: quello della Lettera al Padre di Kafka.

Io non ho mai sentito in vita mia un attacco così forte, pesante, indiscriminato rivolto da un figlio al proprio padre. La Lettera al Padre, a mio modo di vedere, è quanto di più ruvido, unilaterale ed antieconomico un figlio possa dire non del proprio padre naturale soltanto, ma del pensiero di Padre (ed in questo senso la antieconomicità del gesto). Kafka attaccando il padre rende impotente se stesso.

Cito i passi più significativi e forse più conosciuti.

Scrive Kafka: “Quando bambino mi trovavo con Te (da notare sempre la lettera maiuscola) specialmente durante i pasti. Mi istruivi soprattutto sul modo di comportarsi a tavola. Quello che compariva sulla mensa doveva essere mangiato. Non era permesso parlare della bontà dei cibi; tu però li trovavi sovente immangiabili e li chiamavi ‘buoni per le bestie’. ‘La cretina’, cioè la cuoca, aveva rovinato tutto. Mentre tu, grazie al tuo gagliardo appetito e al tuo amore per la rapidità, mangiavi tutto bollente e a grossi bocconi. Il bambino doveva affrettarsi e intanto sulla tavola incombeva un tetro silenzio. ‘Prima mangia, parlerai dopo’, ‘Più presto, più presto. Guarda, io ho già finito da un pezzo. Non era permesso rosicchiare le ossa ma tu lo facevi, l’aceto non si doveva assaggiare ma a te era consentito. La cosa più importante era tagliare il pane diritto, ma che tu lo facessi poi con un coltello sporco di sugo era indifferente. Bisognava badare di non lasciare cadere briciole sul pavimento ma sotto il tuo posto ce n’era una infinità. A tavola bisognava badare solo a nutrirsi, mentre invece tu ti tagliavi, ti pulivi le unghie, temperavi le matite, ti frugavi nelle orecchie con uno stuzzicadenti. Ti prego papà, cerca di capirmi. Per me sarebbero state tutte cosette insignificanti, ma diventavano opprimenti per il fatto che tu, l’uomo per me così autorevole (eccola qui l’accusa) non ti attenevi ai precetti che tu stesso imponevi”.

Se questo descritto da Kafka fosse stato il vero suo padre (sarebbe il tremendum della sua categoria!), sarebbe stato un soggetto che non è mai stato figlio nemmeno lui nella propria vita in quanto si era preso la briga non di essere un rappresentante o, meglio, un servitore della legge, ma un incarnatore, un Dio della legge familiare. Incarnare la legge senza rispettare la legge. Ma qui sentiamo solo la campana del figlio.

 

Il padre di Kafka, secondo il figlio, è uno che predica bene ma razzola male. Uno che commette l’errore e non lo riconosce. In questo senso un peccatore.

Il padre di cui parliamo noi invece è il padre che non si vergogna dell’errore, che lo riconosce quando è ora e in questo modo si rende… disponibile per i figli. Questo concetto lo abbiamo già visto in svariate occasioni.

Un altro passaggio della Lettera: “Fra te e me non ci fu una vera battaglia”. Ecco. Noi sappiamo che il rapporto tra padre e figlio può essere semmai un rapporto tra avversari ma non tra nemici.

La sana conflittualità generazionale è innegabile, e quanto bene porta nelle tasche sia del padre che del figlio (per chi vuole intendere). Ma conflittualità sana prevede il mantenimento in vita dell’avversario, perché dalla relazione, anche conflittuale, nascono i frutti. L’uccisione, quella che si auspica o si pratica verso il nemico, è una catastrofe in tutti i sensi. Come la guerra è sempre una catastrofe, da qualsiasi parte la si prenda. Il nemico implica l’odio. L’avversario no.

“Fui ben presto sconfitto, non mi rimaneva che la amarezza, la fuga, la angustia, una lotta interiore continua…”.

Kafka si lamenta dell’”in-lamentabile”, si lamenta del fatto che il padre, con la sua educazione, gli ha reso impossibile il rapporto con le donne, il matrimonio: “Se io voglio liberarmi dal particolare legame che mi unisce a te devo fare una cosa che non abbia con te la minima relazione. Il matrimonio sarebbe la massima e la più onorevole indipendenza ma nello stesso tempo essa è strettissimamente collegata a te”.

Più chiaro di così. Kafka mette il padre alle corde con la sua logica aristotelica, come se il padre avesse colpa di essersi sposato e non aver pensato che il figlio avrebbe scelto come modo di emanciparsi da lui il matrimonio stesso. Il figlio ha anticipato sul tempo il padre attraverso una logica perversa. Dunque strada sbarrata anche per di là. Ma perché? Perché Kafka non vede se stesso. Non si sente parte attiva di tutta la faccenda. Punta il dito e basta. Kafka fa un giochetto. Si imbroglia da solo volendo imbrogliare chi lo ascolta.

Kafka vede più un padre totemico, quello di Freud in Totem e Tabù, che ha il possesso dei figli, delle figlie e dei figli dei figli, piuttosto che un padre reale. Reale nel senso che… quello lì gli è toccato, e da lì si comincia, non lì si finisce. Amen, ancora una volta.

Termino con questo ultimo passo: “Talvolta mi par di vedere spiegata una carta della terra mentre tu vi sei disteso sopra trasversalmente. Ho l’impressione che a me rimangano da viverci solo due regioni, quelle che tu non copri e che sono fuori dalla tua portata… il matrimonio è una delle due”. Come il bambino che è disinteressato al giocattolo, ma se il giocattolo lo prende in mano il compagno di giochi… sono dolori!!

Ho riportato questi esempi, questi brani per dire come i due figli, Petrarca e Kafka, non abbiano assolutamente praticato il lavoro di figlio: ammissione del limite (a partire dal limite del padre), perdono del padre, responsabilizzazione, individuazione dello scopo e del fine.

Il concetto di padre è pensabile già dal bambino a partire dall’esperienza già infantile che i propri desideri gli vengono da fuori di lui.

Mi viene in mente una signora che riportava spesso il ricordo di se stessa bambina quando diceva al padre (anche senza averne bisogno): “Papà, aiutami a mangiare”. Quella bambina in realtà non aveva bisogno della mano del babbo che le portasse il cucchiaio alla bocca, ma aveva bisogno del “corpo” del padre, aveva bisogno della relazione, del rapporto che dimostrasse che il piacere, anche quello di mangiare, le veniva da fuori, da un altro. Regola che la anoressica drammaticamente e tragicamente non rispetta.

Il concetto di padre è sempre un lavoro di pensiero. Non è il padre reale il pensiero. Senza padre (senza giudizio) non può esserci oggetto del pensiero. Ora i quattro processi di pensiero di Freud ( a- pratico, b- conoscitivo, c- mnemonico, d- critico) diventano impossibili in quanto manca la loro stessa garanzia nonchè sussistenza giuridica, se manca il concetto di padre.

A lavorare è chiamato il figlio ma anche il padre. Il padre che funziona è colui che meno pensa a fare il padre, colui che meno pensa a fare la legge e che più accetta di errare. E non di meno la madre. “A sbagliare c’è posto per tutti” potrebbe essere il primo articolo di legge che il padre, prima di applicare presso il figlio, potrebbe applicare presso se stesso. E il figlio potrà avvicinare il padre solo nella logica dell’errore, ovvero accettando il padre che sbaglia.

 

 

Quello di padre non è un ruolo, è un posto dal quale si può sbagliare (meglio se limitatamente). Il figlio maggiormente si avvicina al padre, più ha occasione di vederlo sbagliare, come abbiamo visto in precedenza.

Ricordo un ragazzo studente dell’ultimo anno di scuola superiore che raccontava spesso di come il padre lo portasse nel vitigno a potare le viti. Ovviamente il lavoro è complicato, richiede perizia, manualità e soprattutto una buona dose di conoscenza della faccenda.

Il padre, paziente, guidava con le sue mani le mani del figlio nelle operazioni, se si vuole una immagine bella e poetica, ma accompagnava tutto ciò con commenti per niente lusinghieri, del tipo: “Senti che mani di ricotta che hai!”, oppure: “Ma dove la usi la forza di queste mani? (con allusione palese alla attività masturbatoria del figlio). Il figlio non spiccicava parola ma bolliva dentro. Ovviamente il figlio si allontanava sempre di più dal desiderio di potare le viti e dal seguire suo padre in quella attività.

Finchè un giorno, un amico del padre, giunto lì per caso, e vedendo il lavoro dell’uomo disse: “Lascia un po’ fare a me, che di questo passo tu termini l’anno prossimo” e spostò il corpo del padre dalla vite sostituendolo, con accettazione da parte del padre. E’ bastata questa frase, una frase di indicazione di errore nei confronti del padre, è bastato questo gesto da parte di una persona terza, perché il figlio si rasserenasse, e cominciasse a vedere il padre molto ma molto più… umano. Ora non ricordo se la attività con le viti continuò, ma ricordo di certo come il figlio avesse imparato a stare vicino al padre, ai limiti del padre, anche a farli presenti. Il figlio che sbagliava si sentiva alleggerito della presenza del padre perché “capace” anche lui di sbagliare.

Questo è il modo in cui funziona la regola. Non è l’imposizione del padre ma la conquista del figlio sentendosi più vicino ai limiti paterni, lasciando la idealizzazione (in questo caso negativa) del padre per assumere su di lui un giudizio concreto e corretto.

Un uomo pronuncia, parlando del proprio padre, la seguente frase: “Faccio quello che faccio (a mio padre) per rispetto”. Significa che se non ci fosse il rispetto di mezzo, io per mio padre non muoverei nemmeno un dito. Significa che il rispetto viene usato come intercapedine per non …toccare dal vivo la relazione con il proprio padre.

Quest’uomo usa i guanti per non sporcarsi, usa il rispetto per illudersi che ha partnership con il proprio genitore, ma in realtà lo vorrebbe lontano mille miglia, fuori dai suoi pensieri e desideri. Allora c’è da pensare come il “fare” del figlio poi approdi al “ben-essere” del padre. Non credo che questo pertenga alla azione in sé e per sé del figlio, quanto alla capacità del padre di vedere in quello che il figlio fa, non tanto un lavoro per soddisfare lui, quanto un tema per il figlio di soddisfare se stesso attraverso il pensiero del padre, attraverso il pensare alla legge del padre, che prima di tutto dice: “Sii soddisfatto di te stesso”.

Non si fa per “rispetto” ma si fa per l’altro come “conduttore (elettrico) della soddisfazione per noi stessi, figli o padri. Non si fa per l’altro citando un valore esterno (morale, bon-ton, educazione, rispetto per l’appunto), si fa per l’altro perché si capisce il vantaggio relazionale: “io per lui/lui per me”.

La regola è la regola, ma non è l’imposizione di un dato costrittivo. Si fa del bene all’altro…senza pensarci, senza mettere obbligo e costrizione nella nostra azione. La regola è regola nella misura in cui comprende l’eccezione, il disarmo, la pausa, la mancanza, l’ humanum che tutti ci caratterizza (figli e padri).

 

GUIDO SAVIO

 

 

 

 

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