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GUIDO SAVIO: FIGLIO E PADRE – “PIACERE DI CONOSCERSI” (PRIMA PARTE)

FIGLIO E PADRE

 

 

INTRODUZIONE

Quanti anni può durare la relazione tra padre e figlio? Certo molti, moltissimi. E anche quando il figlio è cresciuto e il padre invecchiato, quando, negli anni, tra i due si pone la distanza fisica e quella del tempo, dei pensieri, delle ideologie, dei prodotti maturativi di ognuno, certo la relazione rimane una relazione forte. Si tratta di una strada sempre percorribile.

A volte, come i casi della vita contemplano, questa relazione può essere negata, rifiutata, dimenticata, rimossa. Altre volte voluta, ricercata , fruttuosa e ricca di soddisfazioni reciproche. Quella del padre con il figlio, dunque, e quella del figlio con il padre “rimane” la relazione più importante. Anche nell’eventuale silenzio “continua” a segnare i due uomini, continua a cambiarli.

E poi come sarebbe spiegabile che la cosiddetta “ricerca della figura paterna” duri in noi tutti, umanamente, per tutta la vita?

Non è mio intento qui disquisire se sia più importante la relazione tra madre e figlio o quella tra padre e figlio. Ognuno ha la propria esperienza in merito e può rispondere da solo alla domanda. La domanda se sia più importante una relazione o l’altra mi fa sempre pensare a quel quesito irrispondibile che una volta (spero ora sempre meno), l’estraneo di turno, fermando il passeggio di padre-madre-figlio poneva al pargolo: “Ma vuoi più bene alla mamma o al papà?” ed è ovvio che qui dobbiamo stendere il più pietoso dei veli sulla stupidità umana nel momento in cui rivolge una domanda cosi “irrispondibile” ad un bambino al quale non basterà tutta la vita per rispondere. E con questo non vorrei dire altro sul tema se è più importante il papà o la mamma.

Padre e madre lasciano “segni”, a volte indelebili, a volte digeribili, a volte correggibili, a volte risolutori… “segni” in ogni caso vitali. Senza paura, perché la relazione con il figlio, se deve avere un codice e una regola, è quella di bandire per quanto possibile la paura, la paura di sbagliare, la paura di fare “danni”, la paura di offendere, la paura di non essere perdonati, la paura del senso di colpa, la paura appunto che i “segni” diventino ferite.

Potrei qui rimandare al “classico” di Caroline Thompson, Genitori che amano troppo (e figli che non riescono a crescere) il cui leit-motiv è per l’appunto la vera sostanza dell’amore genitoriale (ricordo che il titolo francese è La violence de l’amour), di come questo amore possa essere confuso con la dipendenza, di come questo “troppo” non nasconda che paura di dire di “no”, paura di separazione, paura dei genitori di essere abbandonati dal giudizio dei figli e dunque l’eccesso, il “troppo”; ma torneremo più avanti su questo testo e sui suoi temi portanti.

Si diceva dei segni. A mio modo di vedere è importante capire come questi segni evidenti, non siano solo opera di padre e madre sul figlio, ma anche viceversa. I figli vengono “segnati” ma anche “segnano”, e come segnano.

Cambia il figlio nella relazione, ma cambiano padre e madre vivendo (o anche separandosi) dalle loro “creature”, incidono i figli, a volte determinano la vita dei loro “genitori”, anche se non è intento di questo lavoro parlare del rapporto “genitori /figli”, bensì del rapporto umano diretto e indiretto che il padre (lo ha anche la madre) conserva nei confronti del figlio, e il figlio nei confronti del padre. Del rapporto tra soggetti di diritto, di soggetti che strutturano la loro persona nella “vicinanza” (di corpo e pensiero) l’uno con l’altro.

Tanto per capirci l’intento di questo lavoro è quello di provare a vedere, in svariate sfaccettature, il rapporto tra uomini, che nella fattispecie si chiamano “padre” e “figlio”. Per questo il mio desiderio è quello di vedere all’interno della “relazione” figlio padre come campo del cambiamento, della influenza reciproca, dell’imparare reciproco, del passaggio continuo, della chiusura dolorosa, della noia stagnante, del percorso di crescita. Quando si dice che i figli sono un dono si intende che permettono a padre e madre di “rivedere” la loro vita in quella dei figli e, se dotati di buona volontà, correggersi.

I nostri figli ci danno l’occasione di vivere noi stessi una seconda volta: questo è il dono che portano, un dono non da poco. Poi, in che cosa consista il dono che padre e madre fanno ai loro figli, è materia di questo libro.

La relazione del figlio con il padre pone sostanzialmente due questioni.

La prima è quella del passaggio di un capitale (se ne vedranno in seguito le caratteristiche) dal padre al figlio.

La seconda è quella della strutturazione da parte del figlio di un buon pensiero di sé, di un pensiero di diritto, la cui meta è la soddisfazione.

Ecco, per dire in due parole il contenuto di questo libro: qui si parlerà della relazione tra due soggetti (non tanto la relazione “genitore/figlio”) nella logica della trasmissione di un sapere e di un valore (da parte del padre) e della maturazione (da parte del figlio) di un pensiero fiduciario su se stesso, un pensiero produttivo, che egli ha avuto come”insegnamento” dal padre, il quale insegnamento che gli permetterà di farsi una propria strada verso la soddisfazione, la cui assenza, come ben si sa, comporta dolore e malattia.

Una breve parentesi: mi sono accorto scrivendo queste cose iniziali di come questi parametri relazionali tra padre e figlio io li abbia presi come l’optimum del funzionamento, il massimo di quanto si potrebbe tirare fuori da un rapporto. E si sa che un conto sono le parole (scritte in questo caso) e un altro conto è la realtà, dove l’optimum è inesistente, dove l’errore è sempre dietro l’angolo che aspetta, dove la tensione di fare bene a volte procura danni.

In questo senso allora questo non è un libro in cui si danno consigli o vademecum: si dice solamente come potrebbe essere il “dover essere” della questione, come le cose dovrebbero funzionare, come…sarebbe bello avvenisse così. Nulla di più. E questo, lo riconosco fin d’ora, è il limite di questo lavoro. Perché ognuno di noi sa ovviamente che la realtà quotidiana è altra cosa: ognuno si regola sulla propria debolezza, sulla propria mancanza e anche sulla scarsezza della propria volontà, ognuno si regola sui propri atti (di figlio e di padre).

Detto questo. Il padre, in primis, è quel soggetto che presta attenzione all’evoluzione del pensiero del proprio figlio.

Salute dunque nella relazione significa rispetto reciproco prima di tutto del pensiero dell’altro, valutazione della diversità dell’altro, accettazione della diversità del bene dell’altro, reciprocità, disponibilità alla rinuncia, messa in atto del desiderio di “fare” il bene dell’altro, etc.

Ovvero la salute della relazione figlio/a e padre è quella sperimentata nelle “regole”del rapporto, in quelle che sarebbero le regole di qualsiasi rapporto. Il rapporto con il padre, per il figlio, è la cifra del rapporto con il mondo.

Questo libro intende soffermarsi sul pensiero di figlio, ossia figlio/a che pensa a se stesso in quanto soggetto di diritto, diritto ad avere una propria soddisfazione in base a come è stato pensato dal padre e a come si è “sentito” pensato dal padre.

Allora salute della relazione e diritto alla soddisfazione diverranno i due binari, di una unica strada attraverso i quali il discorso cercherà di svilupparsi.

Una brevissima nota di carattere storico-sociale.

Se il padre è stato per tempo imputato di scarsa presenza, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, lo è stato più per quello che non ha fatto piuttosto che per quello che ha fatto. Per quello che ha taciuto piuttosto che per quello che ha detto. Se il padre è assente non è perché come Ulisse è andato a combattere una guerra, o in cerca della conoscenza, ma perché non ha voluto misurarsi nei rapporti, a partire da quello con la donna, a seguire quello con il figlio. Senza volere per forza generalizzare.

Di questa duplice”assenza” di rapporto la soddisfazione è la prima a soffrirne: se il padre non si “butta” a vivere con il corpo le relazioni con le persone che gli sono più vicine, deroga o proroga il suo principale compito, che è quello di indicare al figlio dove sta la soddisfazione del rapporto.

 

Figlio e padre alla fine significa essere se stessi. Realtà della pratica non facile ma neppure impossibile.

 

 

1 – FIGLIO E SODDISFAZIONE

 

E dunque partendo dalla soddisfazione, la domanda prima è: da dove può imparare un figlio a stare al mondo? Da dove può imparare un figlio a trarre dal mondo la soddisfazione che in questo mondo gli è consentita? Gli è dovuta?

Perché senza la soddisfazione è assai difficile “procedere” nel percorso, nella strada, è assai difficile conservarsi in salute in questo mondo. Noia e angoscia sono sempre dietro l’angolo se la bussola della soddisfazione si appanna. E allora la domanda del figlio al padre si fa più che lecita: “Insegnami a stare al mondo, e nel mondo a provare la soddisfazione a cui ho diritto”. Se voglio salvarmi.

Ma che cosa è poi la soddisfazione?

Io penso che la soddisfazione sia tante esperienze e tanti pensieri assieme, ma che fondamentalmente si riduca ad un atto: quello di dare senso alla propria esistenza.

Da parte del figlio è l’atto di pensare che quello che sta facendo.. piace, piace a qualcuno. Magari a qualcuno più grande di lui (leggasi “padre”) ma soprattutto che piace a se stesso, in piena (o limitata) autonomia di giudizio, nel dire a se stesso che le cose fatte… vanno bene, che certo ce ne sono di sbagliate, ma certo correggibili. Se ne potrebbero anche fare di migliori, ma intanto queste…vanno bene.

E dalla parte del padre lo stesso: il pensiero che il suo essere al mondo sta dando soddisfazione a qualcun altro, al proprio figlio nonché a tanti altri figli che sono i figli del mondo. Che l’essere al mondo del padre abbia senso non perché ha un figlio, ma perché egli è un padre, soggetto primo del discorso della soddisfazione.

Non dimentichiamo che il figlio vive soddisfazione se si pensa un soggetto capace di darne agli altri e meritevole che gli altri a lui la diano.

La soddisfazione è trovare un senso nelle proprie azioni a favore dell’altro e nelle azioni (nel nostro caso quelle del padre) che l’altro destina a noi.

Senso significa che si sta andando da qualche parte, per l’appunto che si “procede” un giorno dopo l’altro verso “un” qualche cosa di diverso dall’oggi, a volte auspicabilmente migliore, ma anche malauguratamente peggiore.

Tra padre e figlio c’è sempre rapporto, un rapporto particolare, ma non diverso da quello che intercorre tra “soggetto” e “altro”, ovvero tra due persone qualsiasi prese nel mondo reale (e forse anche dei mondi “possibili”).

Rapporto è rispetto, accettazione della diversità dell’altro, giusta rinuncia, capacità di compromesso, insomma tutte le “regole” che fanno funzionare il mondo: queste regole relazionali trovano la loro “culla”, se così si potesse dire, nel rapporto tra figlio e padre.

Vita è accettazione della soddisfazione (e soprattutto il lavoro per cercarla), ma è anche accettazione della frustrazione e della mancanza. Ascoltando molti figli e padri mi sono fatto il pensiero che la grande “lezione” che il padre può dare al figlio è quella della ricerca della soddisfazione e della sopportazione del dolore. Dolore come atto non del castigo ma della inevitabilità, della maturazione, della crescita. Poi il dolore è dolore, e non ci sono tanti discorsi da fare. Anche questo il padre insegna.

E il figlio allora da dove impara questo “atto”? Da dove impara a prendere e dare soddisfazione?

Io penso che la prenda dal padre: il figlio “prende” e “apprende” dal padre, proprio come si dice…”ha preso da suo padre”, se è alto, ha i capelli neri o la fossetta sul mento. A vedere il padre soddisfatto è molto probabile che il figlio poi ci assomigli, come a vederne uno malinconico o ansioso è altrettanto facile, per lui figlio, seguirne le orme. Certo, lo stesso può avvenire nel rapporto con la madre, tuttavia non è intento di questo lavoro la precisazione continua della differenza tra il posto che occupa il padre nella relazione con il figlio e quello occupato dalla madre. Si intenda allora che molti padri fanno da “mamma” ai loro figli e molte madri ne fanno da “padre”.

Non è qui la distinzione di sesso tra i genitori che interessa, ma è il rapporto preciso che il figlio ha con uno dei genitori: il padre. La madre è sempre presente (se è presente) in questo percorso. Come se il padre è assente, diremo della sua assenza e magari della sua sostituzione da parte della madre.

Se il figlio vede che il padre riesce a dare un senso, e anche un ordine, alla propria vita, capisce che lo può fare anche lui per la sua. Il padre è quello che “ apre” una strada. Lui padre ha aperto la sua, sta a me figlio, di aprire la mia non certo per imitazione o scimiotteria, ma per attivazione di libero pensiero. E su questo libero pensiero ovviamente torneremo più avanti.

Teniamo presente noi genitori, per il momento, che questo libero pensiero non è una acquisizione tanto tarda nei nostri figli, anzi; se noi, padri e madri, osserviamo bene, ne troviamo traccia fin dalla prima infanzia.

Riassumendo quanto finora visto: il padre soddisfatto è un padre che lascia continuamente (da vivo) una buona eredità al figlio, lo indirizza verso un mondo che chiede di essere riempito di senso, sta alla intelligenza del figlio “aguzzare la vista” sul proprio padre, mettere in risalto le forme produttive di soddisfazione e di “abbassare lo sguardo” sugli inevitabili errori, sulle mancanze, sulle ovvie innumerevoli cadute. Le mancanze del padre certo possono essere dolore per il figlio, ma anche a questo egli si deve adattare.

 

 

2 – LAVORO E AMORE

 

Due sono i punti di appoggio attraverso i quali una persona può mantenersi sana. Questi due appoggi erano già stati individuati da Freud nel suo Inibizione, sintomo e angoscia, ma credo che nei secoli precedenti nessun soggetto, pensante in proprio, avesse avuto dubbi in merito: lavoro e amore.

Lavoro e amore sono le “condizioni” (conditio sine qua non) la salute è possibile. E da qui il proposito del mio lavoro: vedere, se possibile, come il lavoro e l’amore possano essere garanzia della salute psichica, e dunque della salute tout court, come prodotti dal rapporto tra figlio e padre.

Allora vediamo che il padre è prima di tutto il soggetto che non deve fare soffrire il proprio figlio, e lo farebbe se non gli indicasse, il quanto prima possibile, i termini del discorso della soddisfazione e della salute: ovvero avere un lavoro e avere una donna.

Questi pilastri della salute (il giusto amore e la giusta legge del lavoro) è il padre che li presenta al figlio, li offre poi come indicazione. Ma come avviene il passaggio? Come il padre “trasmette”? Come “insegna”? Come “tramanda” il padre la regola per la salute?

In un unico modo, in un unico modo: vivendola. Il padre dovrebbe essere tale in quanto uomo soddisfatto da lavoro e amore , che il figlio può vedere davanti a sé. Sottolineo il concetto di “vedere” in quanto il padre non può nascondersi in questioni così basilari davanti agli occhi del figlio. Proprio nel senso della vulgata che “l’occhio vuole la sua parte”.

Il padre si lascerà vedere gaudente della sua realtà soddisfacente, o dolorante dalla sua situazione penosa dagli occhi del figlio: non nasconderà in ogni caso se stesso e solo in questo modo “trasmetterà, insegnerà, tramanderà” il senso della vita, il tentativo della sua vita (più o meno riuscito) verso la soddisfazione. Il padre che è se stesso è il padre che non (si) nasconde.

Poi se il figlio, da questa visione, da tutto il “buono” che il padre gli fa vedere e sentire, non saprà trarre beneficio o salute… sono, come si dice, problemi suoi. E questo pensiero (ovvero: “sono problemi suoi”) non è una tentazione di noi genitori quando avvertiamo che qualcosa non funziona nei nostri figli, non è lo scaricare, ma è un dato di realtà che recita semplicemente che “ognuno fa la sua parte” (e sulla responsabilità del proprio agire si dirà diffusamente più avanti).

Il padre è un indicatore della salute, non un costrittore. I figli costretti infatti sono i maggiori ritardatari nel ritagliarsi il loro campo di soddisfazione. I padri che costringono sono i peggiori frustrati e sgusciano via dalla vita per non farsi vedere deboli o mancanti. Ma vedremo più avanti che il padre “forte” sarà soprattutto quello che ha il coraggio di farsi vedere “debole” dal figlio.

Il padre non deve “fare vedere” niente, si lascia semplicemente vedere dal figlio.

Se il padre dice “ti faccio vedere” non vuol dire “te la faccio vedere io” (cioè la mia realtà, il mio modo di risolvere i problemi, il mio stile di vita che tu figlio dovresti imitare ) ma vuol dire invece “io mi metto davanti agli occhi tuoi in modo che tu pensi”. Ovviamente in modo che tu pensi alla soddisfazione. Ti faccio vedere come si fa non per insegnarti come si fa a scuola, ma nel senso… come avviene nella vita, come si fa a pensare alla propria soddisfazione.

Il padre, in sostanza, offre la possibilità al figlio, non lo lega alla sedia perché impari per forza.

In breve: dall’amore e dal lavoro il padre trae gli strumenti del proprio insegnamento. Fa vedere questi strumenti al figlio. Il figlio non li può usare “subito”, e dunque sta al padre tenere viva l’attesa. L’attesa, per il figlio, può anche essere una “passione” che dura molto tempo.

  

 

3 – PASSIONE RECIPROCA

 

E allora il padre “insegna” la passione, la propria passione al figlio. La storia della propria passione come la storia della propria vita. Meglio ancora, il padre insegna come un uomo coltiva la propria passione (per la vita) e le particolari passioni (lo sport, la lettura, la montagna, la barca, il cinema, la moto, i funghi, la bici, i francobolli, le farfalle, etc.). Il padre è sia il particolare dal quale il figlio può prendere (la singola passione), sia l’universale di riferimento (il valore morale).

Se la passione è un bene che si trasmette di regola da padre a figlio, io nel mio ormai lungo lavoro clinico, ho visto tantissimi padri che si sono “fatti attrarre” dalle passioni dei figli (e potremmo indicare anche quelle sopra citate). E figli che si sono fatti attrarre dalla passione del padre.

La passione è la comunicazione tra figlio e padre, tra padre e figlio.

Ma questo come può accadere? Accade se il padre si pensa anche lui “ragazzo”, cioè non ancora “finito” ma ancora malleabile, ancora spendibile, non ancor consumato dalla routine e dalla ripetizione di lavori e di pensieri. E’ il padre “libero” che si lascia ancora entusiasmare dalle “novità”.

E’ il padre che non sta svolgendo il “ruolo”, o il “compito” paterno quello che sa dare maggior retta al figlio. Lui è il padre “incompiuto” (che si pensa “incompiuto”) che dà ascolto alla passione dell’altro. E’ il padre giovane che ha ancora voglia di fare e di imparare, quello che non si vergogna a smanettare al computer, a smanettare sulla moto, a smanettare e basta. Se il padre non si difende (da se stesso, dalle proprie paure) è un padre sempre pronto al nuovo, un padre che fa relazione “forte” con il figlio e non va tanto in cerca di supporti o suggerimenti esterni. E qui sta la trasmissione della passione.

Afferma Bruno Bettelheim a proposito nel suo Un genitore quasi perfetto: “E’ raro sentirsi davvero contenti di noi stessi e di nostro figlio quando nei nostri rapporti applichiamo consigli pensati da qualcun altro; questo toglie al rapporto quella spontaneità che lo rende un’esperienza umanamente significativa e quindi realmente soddisfacente”.

Proprio così, la soddisfazione è data dalla “gestione in proprio” della relazione, è data dal fatto che padre e figlio hanno deciso con la loro testa le regole che dovrebbero portare avanti la relazione e darli diritto alla soddisfazione.

La relazione figlio/padre in fin dei conti è un patto (vedremo nei capitoli finali) in parte naturale, ma principalmente culturale tra due che si mettono d’accordo per godere in qualche modo della reciproca presenza e della vita in generale. Non è detto che la cosa funzioni per forza, ma altre strade sono difficili da battere.

A mio modo di vedere la “trasmissione” reciproca della passione tra genitore e figlio e figlio e genitore si regge su tre cardini:

Il primo è il “buon pensiero” che ogni soggetto dovrebbe avere di se stesso, amarsi, darsi credito, fede, coraggio, anche e soprattutto quando le situazioni oggettive non depongono tanto a favore.

Il secondo è il buon “desiderio” dell’oggetto. Mi spiego: se le passioni che prima abbiamo citato sono passioni “oggettuali”, bene, è fondamentale che il padre e il figlio “amino” profondamente l’oggetto moto, l’oggetto collezione di farfalle, l’oggetto film, l’oggetto disco, e via dicendo. L’amore per l’oggetto è tutt’altro che un dato negativo quando serve per fare transitare dei valori all’interno della relazione.

Il terzo è il buon pensiero per il lavoro, in quanto per coltivare una passione è necessario il lavoro, altrimenti la passione diviene ben presto sregolata e non consente nessuna soddisfazione. Padre e figlio lavorano assieme sugli sci, sui dischi, sui film, etc. Lavoro di conoscenza che permette un arricchimento reciproco.

Certo, mi accorgo benissimo (come annotato in precedenza) di come questi parametri relazionali tra genitore e figlio che ho fin qui esposto siano l’optimum, del funzionamento, il “massimo” di quanto si potrebbe tirare fuori da un rapporto, forse una idealizzazione.

Essere padre è avere la possibilità di una seconda esperienza di essere figlio (noi padri, nei nostri figli, vediamo noi stessi), una rivisitazione del proprio stato di figlio, della propria esperienza di figlio, con il vantaggio che dalla nostra parte c’è stato storicamente esercizio di giudizio, di memoria, di responsabilità. Molti padri “guariscono” con i figli, stando con i loro figli. Molti altri non colgono questa opportunità. Questa opportunità, a mio modo di vedere, passa per la capacità di gestire una passione, a partire da quella del pensiero di soddisfazione.

In altre parole, la passione non ci viene perché abbiamo visto in strada due che correvano in bicicletta. Ci viene dal fatto che dentro di noi esiste una “disponibilità” intima a privata ad essere chiamati, motivati, incuriositi dal fatto che due passano per strada in bicicletta.

Winnicott in Il bambino, la famiglia e il mondo esterno sottolineava come “…il padre sia necessario per le sue qualità positive, la vitalità della sua personalità, e le caratteristiche che lo distinguono dagli altri individui”.

Il padre della passione è quello che non può che avere un buon pensiero per se stesso e per il futuro del proprio figlio. Il figlio della passione è quello che (anche dal padre, ma non solo) ha tratto indicazione di come la soddisfazione possa essere raggiunta, nella conoscenza dell’”oggetto” e nella relazione con l’altro.

Perchè nella relazione padre figlio è sempre aperta e costantemente sperimentata la questione della causa/effetto. Non è paradossale, ma possiamo benissimo chiederci, nella relazione figlio/padre, chi è la causa e chi è l’effetto. Essendo ovviamente la risposta che il posto è intercambiabile. E solo in questo modo si capisce come il figlio “tragga” dal padre, ma soprattutto come il padre “tragga” dal figlio. Insomma, la crescita, quando funziona, è biunivoca.

Ricordo una persona, un giovane uomo, che veniva da me parecchi anni fa. Quando, dopo non poche beghe con suo padre, giunse ad iscriversi ai corsi universitari, mi parlava della soddisfazione che aveva provato nel momento in cui il padre gli disse: “Ah, ma allora mi vuoi impegnare a starti dietro per i prossimi cinquant’anni!”.

Ovviamente, si spera bene che il padre non faccia il tifoso dei propri figli (troppo amore), prima di tutto. In secondo luogo poi questo specifico padre davvero parteciperà al “cursus honorum” del figlio in modo affatto asettico. Senza interferire, senza intrusioni, senza paternalismi, lui si fece, per conto suo (e sottolineo “per conto suo”) una discreta cultura giuridica, quasi indipendentemente dal fatto che poi il suo figliolo divenne un discreto avvocato.

Reciprocità dunque: “io do a te e tu dai a me” senza pretese di rendiconto. La passione, infatti, se funziona, funziona solo nella accezione che non ci si fanno “conti” sopra.

La questione della causa/effetto è dunque presente in tutti i rapporti, a maggior ragione in quello tra figlio e padre: se si muove uno, si muove anche l’altro, a partire dal muoversi dell’uno si muove anche l’altro. Non certo però all’insegna di meccanicismo o determinismo, che invece affermano la staticità e la ineludibilità del rapporto causa/ effetto, nel senso che “da tanto, viene per forza fuori tanto”.

In proposito mi vengono in mente molte preoccupazioni di madre di “sbagliare” nella cura del proprio figlio. Preoccupazione che ogni loro parola, ogni comportamento, ogni gesto, ogni sospiro potesse determinare nel pargolo questo o quel dramma, questa o quella disgrazia. Devo dire in più, che le madri che si infilano in questi ragionamenti perniciosi sono in grande misura quelle madri che, libro alla mano, ti dimostrano appunto che… “tanto mi dà tanto”, che ad ogni comportamento ne consegue necessariamente quell’effetto, e non altri, con particolare privilegio per i comportamenti patogeni. Molte di queste madri si rovinano i propri giorni (è ahimè anche quelli dei loro figli) pensando al fatto che quello che avevano detto o fatto avesse lasciato segni più o meno indelebili sulla pelle dei figli.

E’ ovvio che quello che noi facciamo all’altro gli lascia un segno, lo abbiamo visto all’inizio. Ma è altrettanto ovvio che noi dobbiamo considerare l’altro (anche il bamboccio) un soggetto autonomo capace di fare i conti e di coordinare i segni che l’altro lascia su di lui, e anche di usare il proprio pensiero. Altrimenti il nostro mondo sarebbe meramente un mondo di replicanti, il determinismo regnerebbe sovrano e noi saremmo condannati alle fiamme dell’inferno del senso di colpa per avere danneggiato i nostri figli in uno modo (o in un altro) così irreparabile.

Per fortuna esiste il caso e una certa irrazionalità imperscrutabile che ci fa sentire (se vogliamo) liberi dalle conseguenze e dal peso di quello che noi all’altro facciamo. Noi siamo noi e l’altro è l’altro: ognuno fa la sua parte. Tanto per dire, a quelle madri in apprensione profonda, ricordavo e ricordo il fatto che dagli stessi genitori, “vengono fuori” figli completamente diversi. E questo come si spiega? Si spiega con la semplice considerazione che ognuno, nella relazione, soprattutto nella relazione figlio/padre, fa la sua parte, non è carnefice o vittima di un destino avverso e doloroso.

 

 

4 – AIUTO RECIPROCO (AMARE E ESSERE AMATI)

 

Il padre, prima di diventare padre, era un uomo e un uomo rimane. Mi sembra questo il pensiero benefico che padre e figlio dovrebbero introdurre nella loro relazione.

La reciprocità della relazione tra padre e figlio e la questione della causa/effetto poi si riducono alla pratica dell’aiuto. Come possono padre e figlio aiutarsi reciprocamente? Lo possono se lo vogliono e lo possono se lo pensano.

Ho sentito molti padri raccontare storie interessanti a proposito. Ad esempio un padre perde il lavoro. Si crea ovviamente in lui una condizione nuova, imprevista e inaspettata, e si crea una condizione nuova anche nella relazione con il figlio. Il padre improduttivo male accetta il confronto con il figlio, in questo caso studente universitario modello.

Il padre non fa parola della sua sofferenza che però è visibilissima nella aggressività che egli destina al figlio, e anche in una malcelata invidia, mentre prima il rapporto era scevro da sentimenti di questo tipo. Soprattutto l’invidia che è un sentimento che tra padri e figli ci sembrerebbe assurdo esistesse. Una vera e propria Shadenfreude: la gioia maligna per il male e la sconfitta altrui.

In un primo momento il figlio non si accorge della reale invidia “maligna” che il padre sta provando nei suoi confronti (e della quale il padre stesso soffre enormemente). Poi realizza la cosa, ma, anziché passare al contrattacco, il figlio vira e imbocca la strada dell’aiuto (potremmo anche dire la strada del “perdono”).

Autoironizza sui suoi successi, cerca di incidere sul morale del padre, lo fa sentire ancora soggetto produttivo, si interessa della sua vita passata… e altre belle cose di questo genere, ma soprattutto lavora di corpo: proprio così, tocca il corpo del padre, lo stimola, lo fa partecipe della palestra, vanno tutti e due in montagna, da soli, loro due, lo porta perfino a fare rafting (senza che il padre sia trattato in questo frangente come un “pacco postale”).

Insomma, il figlio entra a diretto contatto con il corpo del padre e gli fa provare “soddisfazioni” che prima non esistevano. Non è che il padre poi avesse perso la testa per queste proposte del figlio, ma gli sono servite per toccare ancora una volta quella soddisfazione che la perdita del lavoro gli avevano sottratto. Certo, una scalata non dà tanta soddisfazione quanto la riacquisizione del posto di lavoro, ma in ogni caso incide nel registro della soddisfazione come diritto.

Ora la questione lavorativa del padre non si è ancora risolta, ma è certo che dopo il “trattamento” del figlio, il suo modo di approcciare il futuro (lavorativo e non) è ben diverso rispetto al tempo in cui suo figlio non si era preso “cura” di lui.

E questi non sono casi sporadici, casi in cui la particolare intelligenza e sensibilità del figlio cavano il padre dalle peste, o in ogni caso gli indicano la strada.

Quale può essere la morale di questa storia? Che se noi sentiamo l’altro che ci “ama” per quello che in quel preciso momento della nostra vita siamo, sia esso figlio o essa figlia, la nostra prospettiva di vita si allarga (non voglio dire si allunga). Se mio figlio o mia figlia mi aiutano “pensando” a me, non “preoccupandosi” per me, allora io padre posso cogliere dentro di me quelle motivazioni e quelle spinte che evidentemente si erano assopite.

Nessuno ti risolve i problemi, ma c’è sempre qualcuno che ti indica una strada. Se poi la strada te la indica il sangue del tuo sangue…tanto meglio (tutto ciò fuor di retorica, anche perché sulla questione del “sangue” tornerò più avanti con riflessioni più dettagliate di queste).

Essere amati oltre che la condizione di fondo del desiderio umano, è la condizione del rapporto (e di tutti i rapporti). Pensare che io sono nel pensiero dell’altro è il primo passo per prendere per mano il mio pensiero di “cura” di me stesso.

E infatti l’aiuto che il figlio ha dato al padre, nell’esempio che ho riportato prima, è stato un pensiero “di corpo”: quello di sentirsi amato. Il pensiero è diverso dall’esperienza. Essere amato non è l’esperienza che qualcuno mi ama, ma è la opportunità che qualcuno mi dà per ri-credere in me stesso, ristabilire la fiducia in me e fare ri-funzionare la mia sovranità.

Questo ha funzionato nella breve storia che ho appena riportato. In fin dei conti, con il suo comportamento il figlio ha detto al padre: “Guarda che hai ancora diritto alla soddisfazione”, e questo pensiero è poi proprio il pensiero che il padre dovrebbe trasmettere al figlio: “tu sei uno che merita la soddisfazione”. Per questo funziona la reciprocità tra padre e figlio: entrambi parlano lo stesso linguaggio in merito alla soddisfazione: si capiscono: e tanto basta (se le cose funzionano).

Per quanto riguarda la posizione del padre poi, sta nel pieno diritto oggettivo del figlio quello di essere amato (da padre e madre). Ma sta nel suo diritto soggettivo il pensiero di avere diritto ad “avere diritto”. E se il figlio riesce ad esercitare questo pensiero con il padre, lo eserciterà anche con il resto del mondo. Abbiamo sempre detto che il padre è l’apertura al mondo, è il segnale del mondo, è il segno del mondo. Il padre non deve “tenere” o “trattenere” il figlio, ma lo deve allontanare da sé e anche dalla sua ideologia se vuole indicargli la strada della regola e del diritto. Da troppo vicini (padre e figlio) difficile che succeda qualcosa di buono.

L’essere amato del figlio, ivi compreso l’essere aiutato, non può tuttavia stare fuori dal la categoria del merito, proprio nel senso che “ognuno ha quello che si merita”. Più semplice comprendere che il padre ha i figli che si merita, ma non impossibile è intendere che anche il figlio ha il padre che si merita.

Dunque l’amore è sempre un amore meritato, mai un amore garantito dal sangue o dal conto in banca.

In riferimento al merito, qualche tempo fa mi è avvenuto di ascoltare un ragionamento di un giovane uomo, il quale affermava che “lui non aveva meritato il disinteresse del proprio padre”, interessamento che invece si era depositato sul fratello minore (la storia più antica del mondo). Ma visto che proprio questo giovane uomo aveva tirato in ballo la parola merito gli ho chiesto quale fosse mai stato il suo reale “meritare” l’interesse, aiuto, amore, etc. del proprio padre. E come accade di solito in questi frangenti il discorso è scivolato sul sangue.

Ovvero, mi merito l’interessamento di mio padre per statuto, per patto “dienneatico”, insomma perche “è mio padre e basta”. Solo quando questo giovane uomo ha capito che il fratello minore dell’interesse del padre se ne andava in cerca, mentre lui lo aspettava sul trespolo, ha cominciato a muovere il sedere e a “chiedere”, chiedere realmente al padre l’interesse, la stima e l’apprezzamento. La domanda è vita. Alla fin fine, ma senza entrare in competizione con il fratello, lo ha ottenuto, facendo la “felicità” del padre, forse tanto quanto il padre evangelico del figliol prodigo (che vedremo più avanti), che se lo è visto tornare a retta via. La retta via è sempre quella di pensare alla propria soddisfazione. Senza invidie, pianti o lamentele.

Poi ancora un ragazzo mi riportava spesso la frase pronunciata dai genitori che tuonava in modo così perentorio: “Con te abbiamo sbagliato” (sottintendendo che con il fratello tre anni più giovane, avevano fatto “giusto” visto che più di tanti problemi non ne dava).

Ora è qui evidente la scorrettezza della lettura di una frase, di un concetto, di un pensiero: questo primo figlio si era servito di una frase dei genitori per giustificare le sue rogne. Ovvero “sono così perché voi avete detto che sono sbagliato” e dunque da “sbagliato” mi comporto.

A volte desta ancora sorpresa come figli “etichettati” dai loro genitori in un certo modo, anche a costo di fare del male a se stessi, vogliano confermare il giudizio negativo espresso sulla loro pelle. Infatti questo ragazzo aveva dismesso la scuola, non voleva prendere la patente e lavorava nella ditta paterna un giorno sì e un giorno no.

E’ bastato (ma a lui il grande merito) fargli capire che lui non doveva rispettare o disconoscere nessun giudizio dei genitori, doveva anzi farsene uno di proprio perché si svegliasse dal suo sonno e procedesse avanti nella sua vita senza il peso negativo del giudizio dei genitori che gli avevano dato dello sbagliato.

Quanto spesso noi figli siamo “presi” dal giudizio”, anche portatore di dolore, dei nostri genitori, e non sappiamo emanciparci. Sentiamo dolore perché padre e madre sono addolorati per noi, e difficilmente capiamo che potrebbe anche essere che il loro dolore è un problema “loro”. Quanto ci è difficile staccare la spina dai nostri genitori é fin troppo noto a tutti.

 

 

5 – PENSIERO POSITIVO

 

Il padre, lo abbiamo visto in precedenza, è il soggetto, nella relazione con il figlio, che dovrebbe essere portatore di uno specifico pensiero di se stesso ma soprattutto “su se stesso”: un pensiero positivo, che recita che i problemi si possono risolvere, che bisogna avere fede e coraggio, che se anche qualcosa va male, esiste sempre una soluzione: insomma il soggetto che non ha paura della vita (anche se la vita è strapiena di eventi che possono fare paura).

Come afferma Winnicott sempre in Il bambino, la famiglia e il mondo esterno: “In terzo luogo, il padre è necessario per le sue qualità positive, la vitalità della sua personalità e le caratteristiche che lo distinguono dagli altri individui. Ritengo che un bambino dovrebbe cominciare a conoscere il proprio padre nel corso delle prime fasi dell’esistenza, quando le sensazioni sono particolarmente vivide”.

Da questa vividezza paterna il figlio può disegnare la propria disponibilità al mondo, ne prende le misure, lo affronta, lo rispetta, se può ci sta bene, ma se non può non ne fa una tragedia (non dovrebbe farla, ma a volte la fa). Ecco, questo intendo per aiuto reciproco tra padre e figlio, questo intendo per comunione, per partecipazione.

Se di messaggio che passa tra padre e figlio si potesse parlare (anche se io starei sempre un po’ lontano da questo tipo di “parola”) quello che il padre passa al figlio, direi così: “Non avere paura: ce n’è anche per domani di vita”.

Ovviamente di possibilità, di opportunità, di strada da fare, è avanzata ancora ricchezza, è avanzato del cibo oggi che consumeremo domani, insomma: il domani non potrà essere più povero di oggi (anche se poi può realmente accadere che il domani ci possa riservare brutte sorprese, ma il figlio non lo può anticipare con il proprio pensiero).

Il messaggio del padre al figlio è che “c’è più tempo che vita”, che non è bene anticipare con pensieri quello che sarà un ineluttabile dolore del domani, ma aspettare sempre con il pensiero che ci sia un bene da prendere nelle prossime ventiquattrore che ci spettano.

E dunque al figlio spetta quello che gli spetta, che lui, più lo aspetta…più gli spetta. Ma se lui dispera a volte, preso da paura e angoscia (la desperatio salutis deprecata perfino dalla catechesi cristiana) del bene futuro, non ha un buon pensiero. Non sta al padre “decidere” quello che al figlio spetta, ma certo sta al padre “comprendere” lo stato del figlio e misurarsi in merito.

Per essere padri bisogna avere “perdonato” dentro noi stessi il male che abbiamo ricevuto (dal mondo, dagli altri, magari dai nostri stessi genitori).

Solo allora il viso di nostro figlio, il sorriso di nostra figlia potranno essere per noi genitori campi di lavoro su cui andare sufficientemente tranquilli. Ma perdono deve esserci stato. Come è fondamentale che i nostri figli “sentano” dentro di noi che questo atto è avvenuto, che non portiamo rancori, che non abbiamo conti in sospeso, che non siamo distratti da vecchie storie sospese con i nostri stessi genitori, che siamo attenti al presente. E i figli sono il nostro presente, e loro lo sanno.

Se io mi rivolgo ad una persona, e leggo nei suoi occhi la insoddisfazione per la propria vita, non posso nutrire grande fiducia in lui, ma soprattutto resterò dubbioso sul fatto che questa persona mi possa “dare” qualcosa, visto che non è riuscito a dare nulla, o poco, a se stesso.

In questo modo funziona il rapporto figlio/padre (come abbiamo già avuto modo di vedere): se il figlio legge negli occhi del proprio padre la delusione di se stesso, di quello che ha combinato nella vita, difficilmente il figlio (e qui sta il concetto di eredità che riprenderemo alla fine) potrà pensare che a lui, nella vita “gli” andrà meglio.

Poi esistono anche i figli che a partire dalla “delusione paterna” costruiscono un loro schema di vita, una loro architettura. Io ho sentito molti giovani parlare di questa questione e, se mi si passa la distinzione, li ho divisi in due gruppi.

Il primo gruppo è formato, se così si potesse dire, dai figli che sono rimasti “inibiti” dalla delusione paterna, cioè non si sono più ripresi da quella vista, hanno tirato i remi in barca perché il padre lo aveva fatto e hanno deciso che la loro vita non li avrebbe aspettati e a loro nulla sarebbe spettato. E della vita sono rimasti spettatori.

Il secondo gruppo certo potrebbe essere definito il gruppo degli “arrabbiati”. Intelligenti, coscienti della mancanza del padre nei loro confronti, non hanno perdonato e si sono messi all’opera per “recuperare il tempo perduto”. Purtroppo hanno sempre fatto riferimento al tempo perduto dal padre, come se loro fossero stati “chiamati” a compensare la mancanza paterna. Hanno apparentemente lavorato per se stessi, ma in realtà hanno sudato per rivalersi sul padre perdente. Nulla di più.

Pensiero positivo invece è da intendersi come la spinta o il coraggio che il figlio si dà per affrontare la vita. La sua vita, senza inibizione o rivalsa mutuati dal loro rapporto con il padre. Il pensiero positivo in questo senso è un pensiero che il figlio “ricava” dalla corretta lettura del padre.

Il figlio invece che è impoverito nel suo pensiero dal padre che non ha fede in lui è un figlio che fa fatica a produrre un pensiero positivo in quanto è “scoraggiato” nell’ affrontare l’esperienza, scoraggiato sulle proprie possibilità di riuscita. “Se il primo uomo della mia vita (mio padre) non ha fede in me, perché dovrei averla io che sono suo figlio?”

Esiste sempre nel figlio, in noi tutti figli, il pensiero che il pensiero sottostà a una gerarchia. Il pensiero (giudizio) del padre ha un peso maggiore, anche se il padre viene misconosciuto o contestato. Quante volte il figlio si ferma davanti ad una sua scelta pensando quale sarebbe la scelta del proprio padre nello stesso frangente? Quante volte il figlio si chiede se quello che “sta facendo” è gradito o sarebbe gradito dal padre? Quante volte il figlio non si lascia andare ad un proprio piacere perché “pensa” che questo potrebbe portare un dispiacere al padre?

“Cosa farebbe mio padre al mio posto?” è una domanda più frequente di quanto si pensi, ma è anche una domanda “più sana” di quanto si pensi in quanto noi tutti cerchiamo il “desiderio dell’altro” come affermava Lacan, cerchiamo uno che ha fatto la strada prima di noi. Quindi si tratta di fare i giusti distinguo tra la sudditanza al giudizio paterno e il sano servirsene per procedere nel proprio percorso di soddisfazione.

 

Se il figlio sano si fa la domanda e poi approda all’azione, il figlio inibito si ferma costantemente sulla domanda e non approda da nessuna parte. In questo senso l’importanza che il padre trasmetta al figlio il pensiero positivo, che può riassumersi in questi termini: “Fai, poi si vedrà”, ovvero prima viene l’azione e dopo il pensiero.

Se il pensiero ristagna troppo e inibisce l’azione non è un pensiero produttivo ma un pensiero nevrotico che ostacola non solo l’azione ma anche la appropriazione da parte del figlio di un proprio principio di soddisfazione e di piacere. Allora il figlio balbetta le proprie scelte, non esprime i propri giudizi, pensa mille volte a quello che deve dire e non dice niente, non si assume la responsabilità di decidere per se stesso e per altri, si nasconde dietro alibi di insicurezza e di timidezza…e la lista potrebbe essere infinita.

Per questo motivo io conferirei tanta importanza al fatto che il figlio abbia un pensiero di essere un soggetto che ha diritto alla soddisfazione, perché è l’unico modo per andarsela a cercare: sia che se la prenda di sua iniziativa, sia che provenga dal rapporto con il padre (il padre come “esterno”, mondo, alterità). E’ il pensiero che io ho diritto a qualche cosa che mi spinge in quella direzione.

Se il figlio riesce a maturare il pensiero che egli è “uno” per gli altri, ma anche lui è “altro” per gli uni (ovvero deve esserci, rispondere alla domanda dell’altro, aiutare l’altro che lo chiede, occuparsi non solo di se stesso ma del bene altrui, funzionare da “sponda” e da appoggio per chi ne chiede l’appoggio, etc.) allora le sue possibilità di soddisfazione saranno garantite da un diritto, il diritto del merito.

Il figlio può essere animato, anzi, deve sentirsi animato dal pensiero che il suo essere nel mondo, le cose che fa, gli impegni che si prende, i progetti che mette in cantiere… piacciono a qualcuno. Proprio così, la regola della soddisfazione si articola nel pensiero che quello che “io faccio, in qualche modo, a qualcuno piace, a partire dal padre, ma non necessariamente solo il padre”.

Molti ragazzi, specie quelli impegnati in attività di volontariato, mi hanno detto che quello che stavano facendo “per gli altri”, di sicuro sarebbe piaciuto a Dio (padre). Io, in ogni occasione, rispondevo che era già abbastanza che quello che facevano piacesse a loro.

E’ venuto in analisi, parecchio tempo fa, una persona, un uomo, un figlio, sposato, ma che non aveva figli. Non li poteva avere. Aveva intrapreso dunque la strada della adozione, che non è affatto una strada semplice, mosso anche da una certa insistenza della moglie, ma certamente condivisa. Il destino portò la coppia verso un’altra coppia, fratellini brasiliani di tre anni che in un orfanatrofio a Rio avevano già visto e vissuto abbastanza. Il colpo di fulmine (fu veramente un colpo di fulmine) tra la prima e la seconda coppia fu fatale e le pratiche del caso vennero celermente espletate.

Parlo di questo fatto perché il futuro padre adottivo, si è portato dietro per un sacco di tempo il pensiero che…quello che aveva fatto da giovane, a suo padre non fosse piaciuto per niente. Dunque la domanda su quello che ora stava facendo (adottare due bambini) era particolarmente spinosa e anche dolorosa. Per molti anni non trovò, non trovarono lui e la moglie, un equilibrio.

Ma con calma e pazienza i risultati arrivarono. E quale fu il primo? Quello che padre e madre adottanti maturarono che “a qualcuno” piaceva quello che avevano fatto, l’onere che si erano assunto, il sudore che si erano cercati. Piaciuto a chi? A uno dei due figli che una mattina disse al padre: “Papi e mami, mi piacete tanto!” E a partire da questo “inizio”, dalla ingenuità di questo inizio, diventarono padre e madre attenti, soddisfatti, consci dei loro limiti e dei limiti dei bambini di cui erano divenuti genitori.

Il pensiero positivo alla fin fine aveva prevalso, contro i pregiudizi degli stessi genitori e anche contro i pregiudizi del mondo esterno. Il pensiero positivo è che…la scelta è fatta, e piace, per questo uomo, anche a mio padre (anche se morto da anni). Poi starà alla mia intelligenza, pazienza, volontà, etc. renderla una buona scelta. Sono rare le scelte che da subito hanno una buona etichetta.

E dunque la fede. La fede del padre è l’impianto costitutivo della sua funzione, proprio nel senso che se funziona lo deve alla fede che trasmette alle sue azioni e alle parole che destina al proprio figlio.

In un testo intitolato per l’appunto La funzione paterna di vari autori tra cui D. Rosenfeld, G. Rosolato, J. Kristeva e altri ancora, emerge un concetto forte: il padre, dopo essere stato messo storicamente in difficoltà negli anni sessanta-settanta, ora ha un proprio ritorno, appunto un ritorno di “funzione” pratica. Disceso da passate idealizzazioni e metaforizzazioni, ora il padre è colui al quale il figlio “piace”, ha pensiero di piacere. La “funzione paterna” è quella di permettere al figlio di formulare il pensiero che le proprie scelte piacciono.

Il padre è colui che svolge la funzione di.. lasciar fare il figlio, di lasciare libero il figlio che faccia tutti i suoi pensieri e i suoi percorsi su di lui. Ma come può accadere questo? Accade in quanto il padre attribuisce “fede” al fare del proprio figlio. Del tipo: “Fai pure, io ho fede in te”. Ho fede nel fatto che tu mi guardi, che mi giudichi, che mi critichi, che mi prenda le misure, che mi imiti, che mi invidi anche. Ho fede nel fatto che tu ti sai arrangiare nel trovare un tuo posto di uomo nel mondo “guardando” tuo padre: conferirti questa fede è la mia “funzione”, la funzione di padre appunto.

La fiducia paterna è un articolo fondamentale nella costituzione del patto tra figlio e padre. Agostino scrive: “Dilige, et quod vis fac (ama e fa ciò che vuoi)”. Pensiamo a quanto importante potrebbe essere questa frase come sanzione del patto tra padre e figlio. Forte è colui che sa reggere, che sa sopportare la frustrazione, che sa condurre a termine quello che ha intrapreso, e qui la fede del padre nel figlio che ha “iniziato “ la sua storia.

L’essere forti non consiste solo nel saper sopportare i mali, ma nel saper distribuire, spartire con l’altro il proprio sforzo: in questo consiste il patto. La forza che il padre può insegnare al figlio è nello stesso tempo potenza e pazienza. Chi è forte sopporta perché riconduce nell’ambito della propria iniziativa ciò che per altro verso è costretto a subire: il padre è certo il soggetto che fa di necessità virtù, e di questa propria regola ne fa una regola della relazione con il proprio figlio.

Una donna sogna che sta per diventare madre ma ha la certezza che per tal fine non c’è stato alcun apporto procreativo paterno, cioè niente sesso. Si sveglia dicendo: “Non ho bisogno di nessuno per fare le mie cose!”. Ecco, questa è la negazione completa del pensiero di figlio (in quanto sempre frutto di un rapporto) e di rappresentanza del corpo (che prova soddisfazione solo nel reciproco beneficio, in questo caso il rapporto sessuale).

Qui, nel sogno di questa donna, è negato il pensiero di figlio in quanto questa donna non ha pensiero del proprio corpo come rappresentanza in quanto non sa chiamare l’altro che gliela dà. Niente rapporto (qui sessuale), niente reciprocità e niente piacere.

Che cosa è allora la rappresentanza? E’ nient’altro che il mio diritto di stare in qualche posto dove io e gli altri mi riconoscono meritevole di starci. Essere un rappresentante è un titolo di merito, come il padre, per essere rappresentante della regola per il figlio: se il figlio non capisce il modo in cui il padre sostiene la regola, non lo riconosce. Non lo riconosce rappresentante in quanto il padre, prima di tutti, non ha avuto fede nella sua rappresentanza.

Noi tutti abbiamo bisogno dell’altro “per fare le nostre cose”: saremmo irrimediabilmente monchi se pretendessimo di arrangiarci da soli. Qualcuno la chiama, questa pratica infruttuosa e vergognosa, onanismo.

Il figlio è sempre un soggetto che si sente spinto al volere, a desiderare, a chiamare qualcuno (è questa la regola della salute), e volere è sempre espressione di una volontà “verso” qualcun altro.

Un figlio sogna il proprio padre che gli dice: “Comportati sempre al massimo”. Il figlio, nel sogno, ha il seguente pensiero: “Ci si può comportare bene da una parte o fare il massimo dall’altra. ‘Comportarsi al massimo’ non ha nessun senso”.

E il pensiero che il figlio ha nel sogno è un buon pensiero, è un pensiero critico nei confronti della ingiunzione paterna e nello stesso tempo costruttivo, costruttivo di un proprio diritto di giudizio, di un proprio diritto a dirigersi verso la soddisfazione malgrado e contro la pretesa, in questo caso, di strapotenza paterna. Il pensiero che il figlio ha nel sogno è un pensiero positivo.

In effetti il “massimo” non esiste, e il padre che chiede il massimo al proprio figlio è un padre che vota il figlio alla sofferenza, all’affanno, alla rincorsa continua, all’ansia, all’angoscia di arrivare da qualche parte che…non c’è. La “volontà” del padre non può essere confusa dal figlio come Potere o come Pretesa.

La volontà sana del padre invece, è un “invito” al figlio a prendere in mano la propria storia (e dunque la propria responsabilità) e viverla nella originalità e nella “diversità” dalla sua. La volontà del padre, sentita dal figlio, non può che tradursi in un progetto di dare senso alla propria vita attraverso la ricerca della soddisfazione, attraverso l’amore e il lavoro, come s’è visto in più di una occasione. Non di ricerca disperata del “massimo”.

Un altro figlio sogna che il padre sta correndo su per una scala, lui lo insegue sudando ma pensa: “Beh, sono sicuro che ‘poi’ lui mi aspetta”.

Il pensiero che si suda, si sta dietro, si è secondi a qualcuno è un buon pensiero in quanto, proprio per questo, proprio dalla accettazione della propria mancanza e del proprio limite ne deriva la “certezza” della riuscita.

Riassumendo: il senso del limite è lo stretto legame tra figlio e padre e tra padre èefiglio, in quanto la ammissione di limite il punto di partenza per la costruzione e la acquisizione di qualsiasi valore. E’ il partire con il piede giusto nella strada che porta alla soddisfazione in quanto la “volontà” paterna diviene motivo e incentivo per il figlio.

Se il figlio si trova a che fare con un padre che “ha sempre ragione”, un padre che esercita la forza, con un padre che non ammette le proprie debolezze, egli stesso non saprà come regolarsi con la propria di debolezza e la nasconderà a oltranza, a se stesso e agli altri, infilandosi in un vicolo tanto stretto da non permettergli nessuna spontaneità. Il figlio farà fatica a “trovare se stesso” se di fronte si trova un padre che non gli consente di vivere i propri errori e su di essi impostare una propria (unica e originale) regola di vita.

Il padre è sempre uno che è venuto prima di me e che dunque si pone prima del figlio.

Proprio come nel sogno del padre che corre su per la scala. Il padre ‘poi’ mi aspetta. Farei qualche riflessione su questo ‘poi’. Poi è un pensiero fiduciario del figlio. La fiducia è nel padre, ma soprattutto in se stesso, capace di fare la strada. Ma non quella di raggiungere necessariamente il padre, in quanto nella vita questo può accadere o anche no, bensì la fiducia in se stesso di essere uno “capace” di seguire, poi quel che sarà…sarà. Il futuro non lo si può ipotecare. Dunque il buon pensiero del figlio che fa questo sogno sta proprio nel ‘poi’, ovvero nel futuro che potrà essere in un modo o in un altro. In ogni caso io salgo su per la scala.

Sogno di marca opposta è quello di un cinquantenne che sogna di “accoccolarsi”, “addormentarsi” tra le ginocchia protettive del padre. Addormentarsi è sempre addormentarsi, cioè stare fermi nella consolazione o nella protezione della “coccola”. Non che il padre non protegga e non coccoli, ma no a cinquant’anni.

In questo sogno non esiste un ‘poi’, un futuro, ma un “adesso” anestetico che può certo appagare il momento, ma che non fa certo strutturare il proprio percorso autonomo e fattivo, indirizzato verso la propria soddisfazione.

 

GUIDO SAVIO

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