IL CORPO DELLA TRASPARENZA
GLASNOST POSTAVIT
Mi piacerebbe non dico arrivare a delle conclusioni, ma almeno segnare un percorso a seguire, lasciare una traccia su questi cinque aspetti del Corpo che ho tentato di trattare in questi scritti.
Non ho trovato un collante sufficientemente valido, un filo, una cucitura dialettica tra loro, ma ho trovato soltanto una parola che in qualche maniera mi sembra un buon contenitore, un contenitore delle riflessioni che ho provato a fare sul corpo. La parola infatti è questa: glasnost, parola che ha una sua connotazione storico- politica (noi sappiamo che significa per l’appunto trasparenza per la fine dell’ URSS).
Mi prendo tuttavia un attimo di tempo per spiegare che cosa intendo qui per trasparenza, trasparenza proprio applicata al corpo (allo stesso modo in cui esistono le arti applicate, e sappiamo che arte significa “capacità”, pratica, sapere usare le mani).
Di questi tempi in cui tutto si mette in mostra, la comunicazione personale e mediatica tende a esporre in vetrina tutto quanto, anche il massimo del privato. E dunque la parola trasparenza potrebbe essere fraintesa. Per questo la vorrei chiarire fin dall’inizio. Non è la trasparenza del “vedere tutto e di più” quella di cui vorrei parlare. Non è il “ci casca l’occhio” che è il tormentone di questi giorni difficili che di queste stupidaggini non avrebbero bisogno.
Il corpo della trasparenza dunque non è il corpo che io volutamente lascio invadere liberamente dagli occhi altrui, dalla curiosità altrui, dai pensamenti altrui, dal desiderio, dalla acquolina in bocca.
No. La trasparenza del mio corpo non è un millantare le mie parti interne (o intime) per offrirle al desiderio altrui. La trasparenza non è il cellophane che non offre alcuna resistenza agli sguardi e tanto meno alle mani. Non è il cellophane di certi abiti di Dolce e Gabbana. No.
Il termine trasparenza che io vorrei usare in questo scritto potrebbe essere declinato su questa ancora provvisoria definizione: “Non mi oppongo in maniera patologica (I nostri ragazzi direbbero “non mi faccio le pare”) al fatto che il mio corpo venga visto dall’altro. Lascio l’altro libero di vedere il mio corpo non avendo io nulla da nascondere”.
In pratica una trasparenza improntata su due punti.
Primo la mia libertà di vivere il mio corpo in presenza dell’altro.
Secondo il mio non difenderlo quando non è necessario.
Come se glas-nost fosse traducibile con occhio- libero: io lascio l’altro libero di guardare.
Mi lascio guardare essendo sicuro, relativamente sicuro, che dentro di me non esiste qualcosa di misterioso o peggio di orrido, o di libidinoso di cui l’altro potrebbe accorgersi e che invece è sfuggito alla mia attenzione. E che l’altro potrebbe sfruttare contro di me. Lasciarsi guardare dentro significa avere un buon pensiero di se stessi, del proprio interno.
Ancora. La trasparenza di cui sto parlando non è la trasparenza (tipo raggi X) che mi invoglia a rivolgere i miei occhi e dunque il mio pensiero dentro al mio corpo per osservarne il funzionamento, gli organi, i movimenti (come un moderno scanner), perchè abbiamo imparato come questo porti poi alla malattia. Chi si guarda troppo dentro si ammala.
Trasparenza significa, a mio modo di vedere, anche che io del mio corpo, proprio attraverso di essa, ho una visione generale di sè, una visione unitaria, io lo sento unito. Sapendo che lo spezzettare il mio corpo mi porterebbe ad ammalarlo. Il Corpo ha capacità autocurative solo se io non lo seziono. Allora le parti sane corrono da sole in soccorso delle eventuali parti malate. Ma lo devo vedere nella sua interezza, e lasciarlo vedere all’altro e a me (trasparenza) con le stesse modalità.
La trasparenza che qui intendo, io la vedo in questa situazione: “Io ti lascio vedere nel mio corpo e tu ci vedi tanto, tanto, tanto…. ma sappi che nel mio corpo c’è ancora tanto, tanto, tanto… che nè tu nè io potremo mai vedere ancora”.
Un pensiero di corpo dalle risorse inesauribili insomma. Io sono sano infatti se penso che non mi esaurisco, che le mie risorse si rigenerano. Il nostro corpo ha risorse infinite, non è come un vocabolario che ha un numero limitato di voci, lette quelle… fine della fiera.
No. Il corpo contiene sempre altro e dell’altro: qui sta la sua ricchezza (e non stiamo affatto parlando di onnipotenza, anzi, del contrario, parlo del limite nostro conoscitivo). Qui sta la vitalità che noi possiamo rilanciare di volta in volta nei nostri rapporti con gli altri. La vitalità è mossa dal pensiero di ricchezza del nostro corpo.
Il corpo è trasparenza al contrario di quello che si può intendere per “contenuto oscuro”. Nel nostro corpo non c’è niente di oscuro, di malefico, di horror, di gotico o più semplicemente di misterioso. Bugie, lo abbiamo già visto. Il nostro corpo è un libro più o meno aperto anche se tutto non lo si potrà mai leggere.
Guai se io penso che il mio corpo sia portatore di parti e offerte “incomprensibili”. Guai formulare il pensiero verso l’altro del tipo: “Mah, non so se mi capisci fino in fondo” oppure ” Mah, non so se le mie parole ti possano far capire quello che io davvero provo”, sarebbe un evitare la relazione. Certo che c’è qualcosa che non si capisce, c’è sempre qualcosa che non si capisce: embèh?, è poi tutto questo male il non capire qualcosa? Il pensiero che l’altro faccia fatica a vedere il mio corpo è un pensiero patologic? La trasparenza di cui parlo abbatte questa patologia. Abbatte il pensiero patologico di essere unici ed irripetibili. Certo che lo siamo, ma non nel senso di non poter essere capiti dall’altro. Non che l’altro capiscatutto di me, ma che lo si pretenda.
La trasparenza è il pensiero che dentro di me ci sia qualcosa di bello che interessa l’altro, dunque che l’altro può amare perché lo può vedere. Non ci stancheremo mai di ripetere che l’amore è non opporsi al fatto che l’altro veda qualcosa di bello e di buono dentro di noi. Bontà e bellezza che vanno a braccetto.
La trasparenza del nostro corpo è allora il “non mi oppongo” il “ti lascio fare” (intendendo bene che di questo altro io devo avere prova di dignità) considerando che il mio corpo è fatto dalla parte che tu vedi, ma che c’è poi una parte di storia, di esperienze, di emozioni, etc., di cui parleremo anche, ma che tuttavia, dobbiamo mettere nel beneficio dell’inventario, potranno anche non venire trasmesse, non passare dal mio corpo al tuo.
Ecco allora che salta fuori la parola che mi sento di abbinare a trasparenza. Si tratta di una parola che raramente si usa in psicologia, un po’ più frequentemente in filosofia, una parola di cui io sono innamorato. Il corpo trasparente è allora il corpo… “coraggioso”. Io amo la parola coraggio e amo le persone coraggiose.
Coraggio, applicato ai discorsi sulla trasparenza che sto facendo, significa ho fede, significa “di te mi fido, perché di me mi fido. Poi, lo sappiamo tutti, le fregature si prendono, ma ciò non fa parte di questo discorso che è un discorso che pretende di viaggiare sulla Legge.
E vicino al coraggio non possiamo che porre la virtù gemella, la temperanza, che potremmo intendere come il coraggio applicato al dolore. La temperanza, per tradizione, è la attivazione della forza rispetto ai pericoli e alle pressioni che ci giungono dall’esterno. E Tommaso afferma che l’atto principale della fortezza non è l’attaccare ma il sostenere.
Ancora sul coraggio mi viene in mente qui un passo dei Promessi Sposi quando il Cardinale Federigo, dopo la liberazione di Lucia e la conversione dell’Innominato, tira le orecchie, in modo a dire il vero brutale, al povero don Abbondio. Questi si difende, se così si può dire, piagnucolando: “Torno a dire, Monsignore, che avrò torto io… il coraggio uno non se lo può dare”. A questo punto il Cardinale infierisce tacciando di fallimento l’intera esistenza di don Abbobdio: “Per adempiere questo ministero v’è necessario il coraggio, e vi è chi ve lo avrebbe dato quando glielo aveste chiesto”. Ma noi, lontani dalla santità di Federigo, diciamo che nessuno e poi nessuno può richiedere ad un altro una prestazione di coraggio. Il coraggio non lo si impone a nessuno: o c’è o non c’è.
Passaggio ulteriore. Affinchè il mio corpo sia trasparente è necessario che in me ci sia la accettazione, chiave di volta di tutto il discorso. Accettazione qui non vuol dire accetto quello che passa il convento, non vuol dire passività per cui mi affido alla manna del cielo, “O Franza o Spagna, basta che se magna”, dicevano i contadini veneti, sempre maestri di fatalismo. Anzi. Io del mio corpo non devo avere una accettazione critica, parola fin troppo ideologicizzata, ma del mio corpo devo avere prima una accettazione amorosa. Se ho amore io per il mio corpo… gli altri , lo amano, io autorizzo gli altri ad amarlo, ma se io per primo lo vivo storcendo il naso, non posso pretendere che gli altri al mio corpo facciano i complimenti.
Ho scelto la parola glasnost perchè mi pareva che dalla sua storia linguistica e dall’etimo stesso potesse saltare fuori qualcosa di buono per noi. Ho scritto allora ad un mio esimio parente, germanista e slavista per chiedere lumi sulla trasparenza. Non voglio qui fare della linguistica, non ne sarei capace, tuttavia alcune indicazioni mi sembrano interessanti. Scrive il mio amato cugino linguista: “La parola glasnost (questa la trascrizione esatta, ma in italiano si lascia anche glasnost) da sola non esisterebbe in russo, ma andrebbe sempre accompagnata da un verbo, ad esempio postavit, che vuol dire più o meno mettere: allora postavit’ v glasnost significa rendere pubblico. L’etimo è abbastanza semplice: glas vuol dire occhio, nost è il suffisso che serve a rendere sostantivato un aggettivo. Con Gorbacev la parola glaznost è entrata a fare parte della lingua russa e dunque si tratta di un neologismo improprio o anomalo”.
Quello che si cala nel nostro discorso è appunto quel postavit glasnost come rendere pubblico, di pubblico dominio. Non certo mettere in pubblico le proprie lamentele o la esagerazione dei segni del proprio corpo, bensì il dare, come già detto, all’altro la possibilità di vederci dentro, di diventare noi visibili, atto giusto il contrario di tanti insabbiamenti di sovietica memoria, e non solo sovietica.
Significa poi, alla fin fine, l’accettare di mettersi nelle mani (giudizio, pensiero, relazione, etc.) di qualcun altro. La storia, la piccola e fragile storia di ognuno di noi, funziona solamente in questo modo: o ci si affida a qualcuno oppure è difficile andare da qualche parte. Quello che qui ci interessa è glas, l’occhio. L’occhio dell’altro, nella relazione che noi instauriamo, incontra la mia trasparenza, incontra in me un altro disponibile all’essere visto.
La “formula magica” della relazione Soggetto/Altro, che in più di una occasione abbiamo visto nel passato, trova qui la sua semplicissima applicazione. Se “l’occhio vuole la sua parte” possiamo dire che la parte che vuole l’occhio può avere a che fare con l’estetica ma solo in misura marginale; quello che l’occhio vuole è non avere ostacoli di mezzo per andare a parare dove lo porta la sua volontà, il suo desiderio (non a cadere). La trasparenza significa che il mio stesso corpo mi dà una consegna, visibile, ed io mi com-porto in base a questa consegna. Il corpo ha le sue leggi che solo la sua trasparenza mi rende leggibili.
Nel momento in cui noi abbiamo a che fare con qualcuno che si nasconde, che non ci parla del proprio corpo così com’è, che non ce la racconta giusta, come si dice, di certo saremmo degli stupidi se sprecassimo il nostro tempo in una relazione che si presenta filtrata, falsificata fin dall’inizio. Ora capiamo sempre meglio l’importanza della frase iniziale “Il corpo non mente”. E torno all’inizio di questi scritti.
La accettazione della trasparenza del nostro corpo equivale alla accettazione della sua desiderabilità, del fatto che qualcuno venga lì vicino a noi e allunghi una mano per toccarci, mi faccia la carezza, come affermava Roland Barthes.
Ancora dico sulla accettazione del nostro corpo. Essa consiste in un mio giudizio. Io ho giurisdizione su di esso ed emano una Legge che lo prevede desiderabile dall’altro. Nell’emanare tale legge, (che poi non è una legge che vale una volta per tutte) io devo avere, come si diceva in precedenza, un pensiero amorevole riguardo a ciò che il mio corpo contiene. Solo io posso dire, davanti allo specchio osservando il mio corpo: “Vali ad essere amato” o “Non vali ad essere amato”.
L’altro a sua volta capisce il lavoro fiduciario che io ho compiuto su di me e mi prende sulla parola, non occorre nemmeno che si facciano carte scritte davanti al notaio. E a questo punto si verifica quell’”Amo chi mi ama” di cui abbiamo parlato un paio di volte fa per cui l’altro segue l’indicazione sulla amabilità del mio corpo che io stesso gli ho fornito, anche se indirettamente, attraverso il buon pensiero su di me. Ci si può quindi ruzzolare giù assieme dal Monte Cervino. Si arriverà certamente in fondo, felici, magari un po’ ammaccati e rinfrescati, ma… se si tratta di un certo tipo di ammaccature… va splendidamente bene!
Se io mi rivolgo o entro in un certo tipo di Istituto, in una Struttura pubblica o privata di una certa consistenza, prima di tutto mi trovo davanti all’”Ufficio accettazione”. Che cosa accade (se accade!) all’Ufficio di accettazione?
Succede che chi è venuto lì per il motivo giusto, ha un motivo valido, ha le carte in regola gli si dice di sì. Chi invece è venuto senza le carte in regola per essere accettato gli si risponde picche. E l’impiegato che magno cum gaudio! sta seduto dall’altra parte del vetro che funzione è chiamato a compiere? E’ il rappresentante di una legge che in quel momento si declina in un giudizio, che non è il suo personale ma quello della legge stessa, che valuta se il richiedente ha le carte in regola. L’impiegato è nello stesso tempo referente e rappresentante di un Istituto che è quello della Legge.
Restiamo in questo … ufficio, la cui aria magari ci aiuta a fare qualche passo in avanti nei nostri ragionamenti. Allora… si tratta di avere le carte in regola. Ma in che cosa consistono le carte in regola? Sì, si tratta di fare delle domande. Ricordate adesso il figlio cretino, come noi abbiamo definito il figlio cretino? Bene, è colui che non sa fare le domande giuste al proprio padre. Il figlio cretino è colui che non sa quello che chiede, è colui che fa le domande impossibili a rispondersi. Abbiamo assodato che il figlio cretino non merita di accedere alla ricchezza del padre, se si vuole non merita di essere accettato dal padre. Così chi va all’Ufficio Accettazione con le carte sbagliate non merita di essere accettato perchè dimostra di non avere capito quali sono le regole del gioco, nel nostro caso le regole che regolano il mondo.
Mi viene in mente qui un inciso: il “figliol prodigo” del Vangelo non era un figlio cretino, sarà stato un debosciato, un filibustiere ma non un cretino in quanto la domanda giusta l’ha saputa fare: quella di presentarsi a chiedere perdono al padre… chiamatelo scemo!!! Scemo forse sarà stato il fratello maggiore che con il padre si era poi lamentato, scemo perchè, in fin dei conti, dal Padre non si era mai staccato.
Allora, affinchè il mio corpo sia desiderabile, amabile, io devo dire la verità, devo essere trasparente, non posso fare carte false altrimenti l’ufficio accettazione dell’altro mi risponde… “rifaccia la fila!”.
GIOBBE
Dobbiamo tuttavia dire che è facile accettare il nostro corpo nel momento della salute, nel momento in cui ci “sentiamo” belli, magari dopo una dieta, dopo 15 giorni al mare con una bella abbronzatura… più difficile accettare il proprio corpo nel momento della malattia, nel momento del dolore (lo abbiamo visto nello scritto precedente). Giobbe, a mio modo di vedere, non ci dà una gran mano nell’imparare ad accettare il nostro corpo nel momento del dolore. Cito Giobbe: “Me se io parlo il mio dolore non si lenisce e, se taccio, non se ne va da me”.
Addirittura, a volte, nel momento del dolore non solo noi non accettiamo il nostro corpo, ma vediamo i corpi degli altri come possibili nemici per il nostro corpo in difficoltà.
Scrive a proposito Salvatore Natoli: “Infine il dolore è debolezza, è intriso di timore per il sopravvento dell’odio e del disamore. Il sofferente ha paura che le discordie, le difformità, gli asti già esistenti rispetto agli altri e in generale rispetto al reale, si acuiscano nel dolore, che le debolezze e le incrinature che già erano in atto, si accrescano, che tutte le ragioni, che a diverso titolo rendono ognuno di noi bersaglio degli altri e della stessa sorte, nel dolore giungano a compimento e prendano definitivamente il sopravvento su quanto resta di noi”.
E’ vero, è sacrosanto quello che scrive Natoli. Nel momento in cui una persona sta male, non riesce a curare le proprie cose, i propri affari, la vita gli appare difficile, soffre di una sofferenza inabilitante e fa fatica a trasmettere fuori i contenuti del suo male, è allora possibile che gli venga questo tipo di pensiero: adesso che sono oggettivamente più debole, costituirò un bersaglio più facile per i miei “nemici”. Nessuno di noi è uno stinco di santo, ognuno di noi giustamente ha i propri nemici, e nel momento in cui io mi ammalo come Giobbe, pavento che tutti i miei nemici pregressi si scatenino contro di me, come gli avvoltoi sul disperso che sta tirando le cuoia in mezzo al deserto.
Cito ancora il libro di Giobbe: “E ora io sono la loro canzone, e sono diventato la loro favola. Essi mi aborrono e mi schivano, nè si trattengono dallo sputarmi in faccia”.
Non mi permetto qui di entrare come esegeta nel libro di Giobbe, ma solo di tirare fuori quello che a noi serve: la debolezza dove sta in questo passo? Dove qui Giobbe avrebbe potuto correggersi? Certo nel tentativo, almeno il tentativo, di vivere la propria debolezza (nel suo caso malattia) come la sua forza. Ed è vero, la malattia la si vince se, stancandosi di essa come malattia, la si intende come fonte di forza. Certo, prima cessa meglio è, ma finchè c’è meglio che io ne tragga tutti i frutti possibili. Vi garantisco che è possibile, se si vuole, trasformare il momento del dolore, il momento in cui il nostro corpo patisce, in un momento di forza strepitosa, in un pensiero di ricchezza enorme. Quello che è il proprio vivere il proprio corpo, se noi lo vogliamo, lo possiamo cambiare di segno (da negativo a positivo) in un battibaleno.
Questo significa che io posso attraversare il dolore, ma solo se io ho il pensiero che dal mio soffrire ne può venire fuori una forza, solo se il mio corpo lo amo anche quando soffre, solo se dal mio soffrire viene fuori quel coraggio di cui si parlava prima nel presentare come trasparente il proprio corpo. Questa è la accettazione, una accettazione moderna mi verrebbe da dire, in quanto l’uomo moderno sarà sempre più destinato ad affrontare forme diversificate e via via più sofisticate di dolore. La dignità di cui abbiamo parlato la ritroviamo qui, quella che ci consente di trasformare la debolezza in forza.
Pensiamo invece che nel passato, anche nelle religioni e nelle filosofie, il dolore era visto esclusivamente come una esperienza oggettiva e veniva identificato con il Male. Il dolore era diventato il male, come scrive ancora Natoli: “La sofferenza non è solo così ciò che arreca danno e distrugge, ma, più radicalmente, essa è espressione del male come tale, vuoi come dissolutore vuoi quale principio stesso della dissoluzione”.
Il dolore quindi assurge alla condizione universale di Male e va a legarsi alla Morte.
E così dal dolore passiamo alla morte come forma massima del limite ma, vedremo, anche come possibilità per l’uomo di vivere una ulteriore ricchezza se egli sa usare, lavorare il suo pensiero di limitatezza, la sua “mancanza feconda”.
Riprendo qui una frase di Galimberti, una frase già citata e che mi trova sempre meno d’accordo: “L’uomo non muore per il fatto di essere ammalato, ma gli capita di ammalarsi perchè fondamentalmente deve morire”.
Sembra che Galimberti dica che la Legge che prevede prima malattia e dopo morte, nella successione temporale e nella successione causale, alla fin fine non sia proprio così. Egli sembra dire che la malattia non è precondizione della morte ma è la morte stessa che ingloba a livello logico e contenutistico la malattia stessa. Questa citazione l’ho riportata perchè? Per dire che la accettazione del limite, del dolore, della morte (in questa successione) diventa l’atto di nobilità che noi possiamo esprimere di fronte al nostro corpo che in questo modo si integra, viene vissuto tutt’uno con noi, soprattutto quando questo corpo si fa sentire come fonte di uno stare male.
La accettazione è quella di Simeone al momento in cui gli viene presentato Gesù ancora bambino, il quale, pieno di gioia pronuncia il famoso “Nunc dimittis servum tuum, Domine, in pace, quia viderunt oculi mei salutare tuum….”, ovvero, “adesso che ho visto quello che era giusto che vedessi, lasciami pure andare in pace, lasciami morire…”, splendido esempio questo di Simeone di accettazione della passione vitale (il desiderio di conoscere il Cristo) e di accettazione del limite, nel suo caso consistente nella morte come accettazione del corpo che ha compiuto il proprio tempo. “Lasciami andare”, quella è la accettazione, quello che tempo fa è stato tradotto molto liberamente e molto “beatlesianamente” con Let it be, lascia che sia, lascia che accada, che vada come deve andare.
IVAN IL’IC
Qui possiamo anche trovarci di fronte alla accettazione della morte, ma non la morte come sconfitta (se ne era parlato in questi termini nel corso precedente) bensì come preambolo ad altro, come altro essa stessa. Potremmo asserire qui, e lo abbiamo anche già fatto, che la morte è il massimo altro, è la massima espressione, la massima esperienza di alterità che l’uomo può incontrare nella propria vita.
Noi stiamo facendo adesso dei discorsi teorici attorno alla morte ma sappiamo che la morte è tutt’altro che teoria, è l’esperienza delle esperienze, potremmo anche dire la madre di tutte le esperienze, come diceva Goethe “Una impossibilità che improvvisamente diventa realtà”.
Bene. Proprio in questo modo, ovvero che la morte non è teoria, la pensava Ivan Il’ic, protagonista dello splendido racconto di Lev N. Tolstoj dal titolo appunto La morte di Ivan Il’ic.
Ivan Il’ic, nichilista qual’era, si trova disgraziatamente solo e di fronte alla propria morte e, alla lettera, non trova strada, non vede uscita. Per lui non c’è alterità, non c’è altro in quel momento, non c’è un al di là, bello o brutto che sia. La alterità è dialettica hegeliana, è tesi, antitesi, sintesi; è uno, due, tre. Per Ivan Il’ic no, non c’è altro, c’è solo uno e due, lui e il proprio nulla. E di lì non scappa, di lì non riesce a scappare, e la sua angoscia è data proprio da questo. La sua angoscia è data dalla sua fuga dalla accettazione della morte, anche se (poi vedremo nella lettura) noi, da esseri umani come lui quali siamo, ci identifichiamo con il suo dramma e facciamo nostre le sue parole e le sue ruflessioni.
Per inciso Ivan Il’ic è un alto burocrate russo, che a seguito di un incidente abbastanza banale si ammala di tumore e va rapidamente verso la morte, abbandonato da tutti tranne che dal fedele servitore Gerasim. Il’ic si trova di fronte alla indecenza umana, al tradimento, alla falsità della vita, con il desiderio di liberare, con la sua morte, prima gli altri che se stesso, e la morte tutto sommato serena lo ricompenserà di questo buon proposito.
“Ivan Il’ic vedeva che stava morendo, ed era in preda ad una continua disperazione. In fondo all’anima sapeva che stava morendo, però non soltanto non s’era abituato a questa idea, ma non capiva neppure, in nessun modo poteva capire una cosa simile.
L’esempio di sillogismo che aveva studiato nella logica di Kizeveter – Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, epperò Caio è mortale – gli era per tutta la vita sembrata giusto nei riguardi di Caio, ma niente affatto nei suoi propri. Quello era l’uomo Caio, un uomo qualunque, e il discorso tornava perfettamente; ma lui Ivan Il’ic, non era nè Caio nè in genarale un uomo, lui era un essere del tutto diverso dagli altri ”.
Ecco qua dove scivola il nostro eroe, ma noi diremo “comprensibilmente”: nel considerarsi un uomo diverso dagli altri. Il’ic non ha coraggio, non ha il coraggio di riconoscere che siamo tutti sulla stessa barca.
Il’ic sembra dire: sì, sì, parole, parole, logica teoria, però sono io adesso qua, sono io davanti alla morte, e non vedo strada.
La non accettazione di Il’ic ha a che fare con l’accettare sì tutti i discorsi che si fanno attorno alla morte, gli va bene il sillogismo, gli va bene la comprensione altrui, ma quello che non riesce a digerire e la comprensione di sè. Il’Ic, se così si potesse dire, si è fregato con le sue stesse mani nel momento in cui ha troppo nutrito il desiderio di “essere uno particolare”, di essere diverso dagli altri. Il paradigma invece è questo: “Siamo tutti sulla stessa barca” ed è questo assioma che fa navigare tutte le nostre piccole barche, il fatto che noi dobbiamo pensarci come un unico corpus che fa funzionare tutti i nostri piccoli corpi malandati. Questo nel discorso teorico che stiamo facendo. Mi accorgo che poi mai come in questo argomento la pratica può fare a pugni con la teoria.
Probabilmente Il’ic intendeva la morte come un furto, come una sottrazione di tempo vitale, come uno scacco, come uno schiaffo. Come se la vita fosse un libro già scritto, e se ci si ferma ad un certo punto restano là tutte le altre pagine da leggere. Invece no: il tempo è il tempo, non è scritto da nessuna parte, ma lo facciamo noi. Non esiste “il tempo che avremmo potuto vivere e che non abbiamo vissuto perchè è intervenuta la morte”.
Il’ic è stato se si potesse dire “catturato” in questa frase di Galimberti: “Nel dolore non si è sostituibili perchè il dolore è una anticipazione della morte. La stretta implicazione di dolore e di morte rende i due eventi pressochè intercambiabili: più esattamente, l’esperienza possibile della morte si ha solo attraverso il dolore”.
Appunto l’esperienza che sta avendo Il’ic e alla quale non si rassegna. Lo vediamo anche in Empedocle, visitato da Natoli: “Lo troviamo in Empedocle: il mondo nasce quando gli elementi si uniscono e muore quando gli elementi si separano. E un corpo che cos’è? Relazione. Il corpo morto si scioglie, il cadavere si dissolve nei suoi elementi, la morte subentra perchè c’è lo scioglimento di una relazione. Altre vite verranno, ma lo sciogliersi, il rifluire nella parzialità, è la morte”. Quello che Il’ic non accetta è il suo rifluire nella parzialità, lui che aveva preteso di essere unico e irripetibile, assoluto.
Il corpo della vita è il corpo mobile. Il corpo della morte è il corpo fissato. Una volta fissato si tratta di un cadavere. Il corpo è il soggettivo, non l’oggettivo, questa è la grande angoscia di Il’ic.
E adesso Ivan Il’ic umanamente, comprensibilmente, debolmente va nella china discendente della sua storia, e torniamo a Tolstoi: “”Lui (parla ancora di se stesso) era Vanja colla sua propria mamma, col suo proprio babbo, con Mitja e Volodja, coi suoi giocattoli, col cocchiere, colla nutrice, con Katen’ka, e poi con tutte le gioie, i dolori, gli entusiasmi dell’infanzia, della adolescenza, della giovinezza. Forsechè Caio aveva sentito l’odore della palla di cuoio a spicchi che tanto piaceva a Vanja? Forsechè Caio aveva baciata in quel modo la mano alla mamma, e forsechè Caio aveva sentito quel fruscio della veste di seta della mamma? Forsechè alla scuola aveva fatto chiasso per i pasticcini? Forsechè Caio si era innamorato allo stesso modo? Sapeva forse Caio presiedere un’udienza? E Caio dunque era mortale ed era giusto che morisse, ma per lui, Vanja, Ivan Il’ic, coi suoi sentimenti, coi suoi pensieri, per lui era tutt’altro affare. Non era possibile che lui dovesse morire. Sarebbe stato troppo orribile”.
Ecco. Questo è il manifesto di una non accettazione. Ma di che cosa, della morte? No. Questo è il manifesto della non accettazione di quella parte di alterità, di quella assoluta alterità che la morte costituisce. E’ la non accettazione della trasparenza del proprio corpo che afferma che quando è dolore è dolore, quando è morte è morte, anche se le deboli forze di noi umani fanno fatica a reggere questo peso.
Il’ic vive la propria insoddisfazione e, se così potessimo dire, trasforma la propria insoddisfazione in cattiveria. Infatti noi sappiamo che il corpo insoddisfatto è il corpo predisposto alla cattiveria, a rivolgere fuori da sè la pulsione aggressiva che invece è rivolta all’interno. Il’ic è insoddisfatto di come gli sono andate le relazioni (è stato abbandonato più o meno da tutti), dunque di come gli ha funzionato il corpo. Il corpo soddisfatto invece è il nostro corpo trasparente, quello del libero accesso, nostro e degli altri.
Il’ic si trova solo e dunque non ha motivo di porsi la questione della trasparenza (qui potremmo anche dire vivibilità) del proprio corpo. Il’ic vive l’essere in balia, col proprio corpo, del dolore e della morte, ma egli versa in questo stato in quanto è fallito il pensiero di fiducia verso l’altro, verso gli altri. Sembra che il suo corpo sia esposto anzichè trasparente. Esposto sulla croce mentre egli rivendica per sè la posizione di diritto, diritto reale di natura personale, della giusta difesa, del proprio pudore.
Pudore. Scrive in questo senso Natoli : “Il pudore consente all’uomo di giocare la sua partita col dolore senza andare allo sbando, senza cadere preda della propria paura o del timore della rivincita dei nemici (…) Il pudore corrisponde alla rivendicazione di sè anche nella stretta della sofferenza, nel più atroce patire”.
Il pudore è il sano rifiuto della stramaledetta macchina da presa rivolta alla nostra sofferenza. Il pudore potrebbe anche essere un imperativo categorico di difesa che il soggetto si dà nel momento del massimo dolore, ma il pudore è anche il contegno, un atto di stile e di conoscenza del mondo e delle sue regole (tra le quali il dolore e la morte sono tra le più importanti). Il pudore è legato alla questione del limite e della propria misura e ci autorizza anche a richiamare a sè tutto quello che la vita ci sta togliendo. Ma questa rivendicazione non è la vendetta.
Sembra invece che il dolore di Il’ic, almeno in questo momento, sia intriso di ritorsione e di accuse. Il suo pudore lo potrebbe aiutare ma egli, al momento, non vi accede.
“L’unico modo per dare una soluzione al dolore – abbiamo già visto questa citazione di Natoli – è attraversarlo”.
Per poter attraversare il proprio dolore all’uomo sofferente è richiesta una operazione assai difficile, quella di rinnovarsi, quella di dare un senso nuovo alla propria esperienza, quella di cambiare il posto di osservazione del proprio esistere. L’attraversare il dolore è proprio il viaggio del rinnovamento. Non è il “portare il dolore” del servo sofferente, ma l’attraversare il dolore del servo attivo. Attraversare il dolore è il viaggiarci attraverso (dunque vedendo un oltre, oltre che Il’ic non può vedere, se non il proprio nichilismo), avere pensiero di movimento e di lavoro. Il Servo sofferente, il Servo di Jahvè sono il simbolo del dolore ambulante. Ma questo servo sofferente nel Deuteroisaia si trasforma in Gesù, il quale non è il servo votato al dolore, ma l’uomo che lavora alla gioia attraversando il dolore. In questo senso Cristo è l’uomo nuovo. Annunciato da Ezechiele con queste parole di strabiliante novità :”… vi darò un cuore nuovo, porrò in voi uno spirito nuovo e tolto dal vostro cuore il cuore di sasso ve ne darò uno di carne”.
Questa è la nostra ricchezza, questa è la nostra giustificazione (ovvero la giustizia che ci viene resa). Il giustificato per Paolo è il guarito, il nuovo, il rinnovato, quello che ha trovato la strada giusta. Oggi potremmo dire colui che si è curato. Paolo forza etimologicamente il termine giuridico giustificato, che vorrebbe dire dichiarato innocente per arrivare a significare (e ci terrei che questo fosse uno dei punti forti del nostro discorso) trasformato da uno stato ad un altro.
Questa è la nostra storia, questa è la nostra vita, una continua trasformazione da uno stato ad un altro, fino alla decisiva trasformazione da un corpo vivo a un corpo che non vive più. Questo è il pensiero di giustificazione di Paolo: “ io posso trovare lì dietro l’angolo uno che mi cambia la vita, ma per ottenere questo io devo essere disponibile, il mio corpo deve essere trasparente al suo incontro”.
Io ritengo questo il più vincente dei pensieri, il più produttivo dei pensieri, quello che più degli altri mi può aprire alla soddisfazione. Paolo poi arriverà a dire che non sarà più lui a vivere, ma Cristo che vive in lui. A noi interessa qui non la questione dottrinale ma la questione del rinnovamento. Per noi valga l’assioma che la soddisfazione è l’altro che entra in me, vive, fa le sue cose, pronuncia i suoi discorsi, ma dentro di me, apportando quella trasformazione, quel rinnovamento al quale io da solo non arriverei mai. L’altro che incontro non è “io qua e lui là”, no, l’altro che incontro è uno che entra in me; l’altro è entrato in casa mia a portare la sua novità. La parola novità qui vuol dire alterità.
Allora la accettazione dell’altro ha a che fare con un movimento di penetrazione di un corpo dentro un altro corpo, quel corpo che abbiamo un po’ imparato a conoscere in queste serate, il corpo della trasparenza e della disponibilità a trasformarsi, a curarsi, a rinnovarsi.
E torniamo per un attimo ad Ezechiele: “... vi darò un cuore nuovo, porrò in voi uno spirito nuovo…” ed io chiedo a questo punto: e il vecchio? Perchè questa è la più profonda condizione della accettazione dell’altro. Che fine farà il vecchio? Ma continua Ezechiele: “ e tolto dal vostro cuore il cuore di sasso ve ne darò uno di carne”.
Ecco il punto: per fare tutto questo l’altro, in questo caso Ezechiele ma potrebbe essere anche una persona qualsiasi che noi incontriamo per strada, che cosa ha fatto? Ci ha tolto qualche cosa, qualche cosa di nostro. Ecco, mai venuto così bene questo pensiero: la malattia psicologica è il non volere perdere il cuore di pietra che abbiamo perchè un altro lo sostituisca con un cuore di carne.
Ecco, se la psicologia potesse essere racchiusa in un contenitore minimo ma chiarissimo, starebbe dentro queste parole di Ezechiele. La psicologia è sì accettare che l’altro mi metta uno spirito nuovo, però io devo rinunciare a quello vecchio: qui sta il mio coraggio, la parola sacrosanta che abbiamo toccato in precedenza. Il coraggio è precorso dalla domanda: mi fido o non mi fido? Risposto a questa domanda avviene l’esposizione del proprio corpo all’altro, senza la quale non è possibile che funzioni nessuna relazione e tantomeno nessun amore.
Sono contento a questo punto perchè le tre parole che avevo in testa sono uscite con una relativa linearità. Accettazione, trasparenza e coraggio, le quali parole poi si chiudono nel lavoro di due persone che si danno da fare per la soddisfazione reciproca, che si amano insomma. Tutto qui.
GUIDO SAVIO