Il Corpo nel tempo del dolore
IL DOLORE
Una precisazione iniziale: sul dolore non bisogna fare tanta teoria o filosofia essendo esso una esperienza assolutamente soggettiva e in modo assoluto difficilmente spartibile con l’altro. E tutto ciò all’insegna di una secondo e più importante precisazione: che meno si soffre e meglio si sta.
Vorrei partire da una frase semplice: “Perchè il dolore fa male?”.
Io al momento non so rispondere perchè il dolore non assume mai una sua specificità, dove tocca tocca, tocca sempre tutto il corpo, emozioni, sentimenti, relazioni comprese.
Spero tuttavia che con il procedere dei nostri ragionamenti il dolore avrà una connotazione più precisa. Per il momento è il dolore è il dolore che fa male da qualche parte.
Ritengo che la capacità di sopportazione del dolore corrisponda alla pasta di cui una persona è fatta”. Questo significa che alla mattina, se mi alzo con “un certo” mal di testa o con “un certo” mal di pancia, sarebbe sempre bene che mi chiedessi: “Lo dico o me lo tengo per me?”. Lo dico all’altro o non lo dico sapendo che il dire, il profferire parola significa anche dire a me stesso, ovvero dare una sanzione di verità ad una mia condizione fisica. Il dire qualcosa significa in qualche modo ad esso dare corpo. Allora ci penserò su due volte prima di dichiararmi sofferente.
Sappiamo anche che, nel momento in cui io comunico all’altra persona un mio dolore, in qualche modo gli arreco un dolore, su questo non ci piove sopra. L’altro a cui io comunico il mio dolore è un altro che viene coinvolto e viene a patire il mio dolore stesso.
Io potrei anche fare a meno alla mattina appena alzato dire alla persona che mi sta vicino, alla persona che sta con me, alla persona amata: “Stamattina mi sento poco bene”. Assumendo questo comportamento che cosa farei? Correrei il rischio di “trattenere” il dolore dentro di me, la qual cosa potrebbe farmi ulteriormente stare male, ma potrei anche essere uno che sdrammatizza e finchè la cosa sta dentro certi limiti… si tira avanti.
Ecco allora. Il percorso che vorrei qui fare sarà inerente alla capacità che ogni singolo individuo ha di trasformare il proprio dolore in parola, dando al proprio dolore una dignità e una “veridicità” tale per cui l’altro a cui la nostra parola dolorosa sarà riferita, accanto ad un patire con noi vivrà anche un amore per noi. Amore sanzionato dalla “verità” del nostro dolore, dalla sua, se si vuole, nobiltà, se si vuole, molto prosaicamente, dal fatto che noi non ci lamentiamo per niente. L’altro ci ama se non sprechiamo lamentele. Si tratta di trovare anche qui la medietas tra il dire e il contenere le parole del nostro dolore.
Noi sappiamo che solo quando il dolore non è muto, quando il dolore sa trasformarsi in parola diventa un dolore sopportabile. Se il dolore rimane muto… sentiamo Bacchilide: “ Ahi figlio, figlio mio, una sventura s’è svelata ed è al di là del pianto, è muta”.
Il dolore muto è il dolore insopportabile. Il dolore sopportabile (e torniamo ai buchi dai quali siamo partiti) è quello che sa uscire dai buchi del corpo nella logica e nella legge della dignità della bocca che parla e dell’orecchio che ascolta. Buchi: la parola, il pianto che viene fuori dagli occhi, il grido che viene fuori dalla bocca.
Per questo la domanda che pongo fin da subito è questa: “E’ sempre lecito parlare del nostro dolore?”.
Risposta: se l’unica strada per rendere il dolore sopportabile è la parola, stiamoci bene attenti, andiamoci piano perchè il parlarne in eccesso, come il pensarci in eccesso, potrebbero essere modi per non voler guarire mai dal nostro dolore. Ho sempre visto nella clinica che chi “mette in piazza la propria sofferenza, magari se ne serve anche.
La dignità di noi soggetti è tracciata dallo spartiacque tra il parlare e il lamentare, e la dignità ha a che fare sempre con la misura, con la medietas.
Ciò significa che quanto io sono sano, quanto io sono capace di amare, quanto io sono altro per chi mi chiama e mi vuole, tutto ciò ha a che fare con la mia dignità nella sopportazione del dolore. Con la dignità con cui io vivo il mio dolore. La mia credibilità e anche la mia capacità reale di aiuto verso l’altro è imprescindibile da quanto io sono forte davanti al mio dolore. E l’altro queste cose le vede benissimo, come noi negli altri le vediamo con maggiore facilità rispetto al vederle in noi stessi.
Se io eccedo nella parola del mio dolore che cosa succede? Succede, ma qui basta il buon senso, succede che l’altro che sta con me, l’altro che mi ascolta, l’altro che mi ama, per un po’ di tempo presta il suo orecchio e il suo cuore (benevolmente) ma a lungo andare inevitabilmente si stanca.
Dall’altra parte, se io taccio il mio dolore che cosa succede? Succede che faccio del male a me stesso, in quanto il mutacismo che ha come oggetto il dolore è la peggiore condanna che l’uomo può dare a se stesso. Noi siamo fatti di una pasta troppo debole per sopportare completamente in silenzio il nostro dolore, ed è giusto che sia così, che la nostra debolezza sia poi il propulsore che ci fa muovere e lavorare.
L’antidoto al dolore è la parsimonia nella parola.
Quello che viene fuori dalla nostra bocca, per noi che proviamo dolore, è un atto di dignità nel momento in cui verso l’altro a cui io comunico il mio dolore io nutro un sentimento di amore.
E l’amore, oltre che essere la legge, è anche la cura. Ci si cura dal proprio dolore dicendolo all’altro nel senso dell’amore, dicendolo all’altro non per aggredirlo (come in molte patologie accade) ma per amarlo. E’ il più alto degli amori: ti amo parlandoti con dolcezza del mio dolore.
E qual’è questo amore? E’ la cognizione che il “peso” inevitabile che io affido all’altro parlandogli del mio male, egli lo sappia sopportare. La cognizione che egli abbia le spalle abbastanza grosse per prendersi un mio peso. Parlando all’altro del mio dolore io compio un atto di fede verso di lui, precondizione per l’amore che ne può conseguire.
Dell’altro a cui io parlo del mio dolore io devo avere la conoscenza che ha le spalle abbastanza larghe, come si diceva in precedenza, di accettare per amore le mie parole. L’altro che si fa carico, San Cristoforo, lo fa perchè io che soffro glielo consento, glielo chiedo per l’amore che ci lega.
Fuori della logica dell’amore non c’è comunicazione del dolore: ci possono essere varie “intenzionalità: dall’inutile blà blà, al balbettio, al languore, alla seduzione, alla aggressione. Purtroppo, sia a livello soggettivo ma anche a livello di massa, assistiamo tutti i giorni ad una spettacolarizzazione del dolore: la dignità del soggetto sofferente, in modo attivo o in modo passivo, va spesso a farsi friggere. Pensate ad una persona che soffre e che ha una telecamera che lo sta riprendendo davanti al naso. Io non saprei di quale dolore essa stia soffrendo maggiormente.
Allora torniamo alla domanda iniziale. “Perchè il dolore fa male?”. Rispondiamo adesso che il dolore tanto fa più male quanto la soglia della sua sopportazione (nel senso della dignità) è bassa. Cioè quando ci stiamo svendendo la nostra dignità.
Non so se Nietzsche nei suoi Frammenti postumi 1882-4 con questo aforisma ci aiuti a capire meglio quale possa essere la via d’uscita dignitosa dal dolore: “L’unica salvezza per colui che soffre a causa della esistenza è quella di non soffrire più per essa. Come potrà ottenerlo? Con la rapida morte oppure con un lungo amore”, tuttavia ritengo che fuori da questa logica, fuori dalla logica dell’amore, la sopportazione del dolore sia un compito troppo gravoso per noi poveri esseri umani.
DOLORE DETTO E DOLORE TACIUTO
Entriamo maggiormente nella questione della comunicazione del dolore, del portarlo al di fuori del nostro corpo.
Salvatore Natoli dal testo scritto assieme al teologo Bruno Forte intitolato Delle cose ultime e penultime: “Il dolore è esperienza della lacerazione. La caratteristica prima del dolore si esprime in due figure: il silenzio e il grido. In ambedue le figure il linguaggio si deforma. In taluni casi si spegne. Innanzi al dolore non c’è che dire. I Greci avevano l’immagine del dolore muto: Niobe, il dolore che pietrifica. (…) Nel dolore l’uomo non solo è impossibilitato a raggiungere quello che gli sta davanti, impedito a pervenire al termine del suo desiderio, ma è isolato perchè tutti gli altri uomini intanto vanno: è isolato dagli altri, isolato dalla vita. Anche se gli altri lo guardano con compassione – parola famosa – intanto devono andare.”
Due dati da prelevare. Il primo è che il dolore, per sua struttura interna, mantiene, è permeato da una caratteristica fortissima che lo avvicina alla incomunicabilità. Il secondo è il senso, di chi sta soffrendo, di isolamento dal resto del mondo che intanto va avanti nella sua “salute” e non si interessa dei pezzi che perde o delle parti che si fermano, anche se solo momentaneamente. Il dolore è il contrario della felicità essendo quest’ultima un “potere di crescere”. Nel dolore non si va da nessuna parte.
Senza dubbio ognuno di noi avrà vissuto esperienze di dolore e certo avremo sperimentato che se c’è una solitudine nel dolore, una frattura fra chi soffre e chi non soffre questa è rappresentata dalla immobilità. Chi soffre è fermo, sta lì, ed ha il pensiero che tutti gli altri, il mondo intero intanto va avanti. Dove non si sa bene, per la sua strada, ma intanto va avanti. L’uomo che soffre si sente intrappolato nel tempo, nello spazio, nella chiusura del suo pensiero; e intanto il mondo va, si dimentica di lui. Chi soffre pensa di stare perdendo il mondo come si perde l’ultimo tram.
Dunque il dolore chiama con forza la comunicazione, magari anche un grido che dice: “Aspettatemi”. Un grido forte ma sempre dignitoso.
Ancora Natoli: “E gli uomini sono grandi eroi, piccoli eroi o meschini a seconda della forza che hanno di reggere al dolore”.
Io qui prenderei la parola reggere nel suo etimo, cioè governare come atto di coraggio ma anche atto legale per cui il soggetto permane tale anche nella sua lacerazione interna.
A questo punto però mi preme una precisazione. Non vorrei che da questi discorsi venisse fuori la sensazione che per noi uomini il dolore sia alla fin fine sopportabile sempre, comunicabile sempre, guaribile sempre. Non vorrei dare l’impressione che noi dovremmo aspirare ad un super-uominismo di fronte al dolore del tipo “Mi spezzo ma non mi piego”. No. Tutto il contrario. Ammettiamo qui che esiste un dolore che ci vince, che ci spiazza e che non ci consente di ricorrere a tutti i bei discorsi che stiamo qui facendo. Il nostro lavoro, qui, questa sera, è quello di cercare umilmente uno spiraglio che ci renda semplicemente il dolore vivibile. Mi sto accorgendo in questo momento come le parole arrivino fino ad un certo punto. Poi non servono più a niente. Comunque.
Il dolore, si diceva in precedenza, ha bisogno di canali per uscire, di strade. Abbiamo visto la strada della parola, quella del grido, quella dell’amore che può anche essere senza parole .
Apro qui un inciso anticipando che in seguito valuteremo una ipotesi: quella se poi, alla fin fine, il dolore, per essere sopportato, possa anche essere taciuto. Taciuto tra due persone che si amano e “sanno” tutto sul dolore dell’una o dell’altra, per cui le parole potrebbero anche essere un in più. Il silenzio delle parole dunque come possibilità di aiuto amoroso che l’amante offre all’amato che sta soffrendo. Il silenzio delle parole, come vedremo, ma le parole dello sguardo. Anche le parole del pianto.
INQUISIZIONE
L’inciso è sulla lacrima.
La lacrima è una buona lacrima se dietro di sè lascia intendere la dignità del soggetto che piange, e dignità non vuol dire affatto stoicismo o eroismo, ma soltanto ammissione umana della propria debolezza. Non ci stancheremo mai di ripetere che la forza dell’uomo sta nel riconoscimento della propria debolezza. Ognuno di noi, in riferimento al dolore, ha un metro di misurazione che è solo suo, non è paragonabile, non è oggettivabile.
Ognuno soffre a modo proprio. Per questo la questione della dignità è fondamentale: all’altro che soffre e parla della sofferenza, ci si crede sulla parola: sta a lui non dire una parola falsa. Per questo ognuno di noi, alle prese con la sofferenza, mette in atto la propria legge, il proprio giudizio sul proprio dolore. Non esiste la carta millimetrata per misurare oggettivamente il dolore, la sua sopportazione è affidata alla nostra discrezione e dunque alla nostra libertà. Nel dolore si vede l’importanza, e l’aiuto che noi possiamo ricavare dall’avere imparato la legge dei rubinetti, nel senso che nel dolore sono tutti chiusi e noi facciamo fatica ad aprirne uno.
Il dolore, dalla puntura d’ape, al sarcoma, dal desiderio di farla finita al desiderio di stare a letto tutto il giorno non ha un metro oggettivo di misurazione, non esistono parametri. Noi siamo chiamati ad interpretarlo. Ecco. L’interpretazione del dolore (vedremo poi, il suo attraversamento) costituirà la nostra dignità. Allora il dolore è quella condizione interna, privata che ci fa capire e fa capire agli altri dove stiamo di casa. Il dolore è lo specchio nel quale possiamo riflettere il giudizio che noi abbiamo di noi stessi. Sta solo al nostro giudizio leggere il dolore.
Torniamo alle lacrime in una accezione particolare. Prendo una testimonianza dal Malleus maleficarum (gli autori sono Institor alias Kramer e Sprenger, due domenicani); questa opera la potremmo definire il breviario degli inquisitori durante il lungo e drammatico periodo storico della persecuzione contro le cosiddette streghe. Leggo questo passo non prima di fare questa premessa: la strega non piange. Ad essa gli inquisitori, essendo lei alleata del diavolo, hanno attribuito quel potere “soprannaturale” di non versare lacrime, anche se sottoposta alle più atroci torture. Secondo gli inquisitori la strega non piange perchè non ha quella parte umana che di fronte al dolore la porterebbe ad avere il più umano dei comportamenti: piangere e gridare.
I due inquisitori hanno avuto la loro bella idea: se questa povera donna piange, significa che è normale, se non piange significa che ha qualcosa che va oltre il normale e abbraccia la sfera diabolica, ha fatto un patto con il diavolo, semplice no? Nella loro ignoranza questi due avevano capito che la comunicazione del dolore è la condizione naturale per la sopportabilità del dolore stesso.
Titolo del passo che vado a leggere: Questione XV. Continuazione dei tormenti, cautele e segni da cui il giudice può conoscere la strega e come deve premunirsi dalle loro stregonerie. In quale modo possono essere rasate, dove tengono nascoste le loro stregonerie, etc. etc. Potremmo qui dire: silenzio più dolore uguale stregoneria, questo è l’assioma che mettevano assieme gli inquisitori. Noi leggiamo invece: dolore senza lacrime uguale inumano. Scrivono i due domenicani: “Intanto quando cerca di indagare (il giudice) se la imputata sia implicata nella stregoneria del silenzio, cerchi di accorgersi se possa piangere quando sta davanti a lui, o quando è esposta ai tormenti. Infatti proprio questo fatto, secondo quanto dicono antichissimi racconti degni di fede e secondo quanto insegna la propria esperienza, è stato trovato finora come un segno certissimo. E infatti la si esorti (la strega), la si scongiuri, anzi, la si costringa a piangere: se è davvero una strega, non può versare lacrime”. Allora l’inacerbirsi dei tormenti aveva a che fare col dimostrare che il dolore, se veniva sopportato senza le lacrime, era segno inconfutabile che la poveretta possedeva poteri diabolici.
Continuano gli inquisitori: “Tuttavia è possibile che dopo, in assenza del giudice, e fuori dal luogo e dal tempo della tortura, di fronte alle guardie, riescano a piangere”. Come a dire che anche le streghe, fuori dal contesto del dolore, possono trovare la loro umanità.
Ecco, questo semplice anche se drammatico e cruento esempio, solo per dire come il pianto sia la strada della salute, della nostra umanità proprio perchè frutto della nostra debolezza. Niente di trascendentale in chi piange, nulla di malefico. Solo che chi piange abbia il pensiero della dignità delle proprie lacrime. Chi versa giuste lacrime e giuste parole per il proprio dolore sa che lo porta da un piano soggettivo ad un piano universale, lo riversa nel luogo della comprensibilità, dell’essere capito. Lì, se l’amore funziona, può trovare sollievo alla propria pena.
IL MIGLIO VERDE
Ancora sulla comunicazione del dolore.
“Il mio nome è John Coffey, signore, come la bevanda, ma scritto in maniera diversa”.
Frase tratta da un film bellissimo del regista americano Frank Darabont su idea di Stephen King che sta andando in programmazione in questi giorni nelle sale cinematografiche dal titolo Il miglio verde. Per chi ha visto il film non occorre ripresentare la trama, per chi non lo ha visto dico che mi servo con modalità esemplificative di una parte di esso. Una persona cattiva ha violentato e ucciso due sorelline. John Coffey, eroe e gigante nero, viene trovato accanto ai cadaveri delle piccine mentre, insanguinate, le sta stringendo a sè.
Gli inseguitori lo fanno arrestare e accusare dell’omicidio, viene messo in prigione, condannato a morte e nel braccio della moste viene fuori la vera storia di chi è John Coffey, attraverso la testimonianza del capo dei secondini nella splendida recitazione di Tom Hanks. John Coffey in realtà è un essere al di fuori del normale, con poteri sovrannaturali, taumaturgici che si era trovato accanto alle bambine non per farle morire ma per farle vivere, per tentare di tenerle in vita dopo la violenza che avevano subito da un’altra persona. Il compito di Coffey nella vita era infatti quello di sradicare il dolore dalle persone che soffrivano, per assumerlo su di sè e poi espellerlo, a costo di grande sacrificio personale, dal proprio stesso corpo. Coffey dopo avere assunto il dolore dell’altro in sè, lo sprigionava innocuo nel cielo, sotto forma di non ben distinte particelle.
La logica dell’amore che abbiamo detto in precedenza trova qui la sua più esaltante e inimitabile espressione: John Coffey prende sulle sue spalle il dolore dell’altro per lo stesso amore che egli nutre verso l’altro. Non fu lui ad uccidere le due bambine, fu una persona cattiva. John, parlando con il secondino di questa persona cattiva (che egli peraltro conosceva) ci regala la frase che noi prendiamo qui in esame.
Parlando del ricatto che l’uomo cattivo aveva fatto ad una delle sorelline nel momento della violenza (quello cioè che se parlava, lui avrebbe fatto del male all’altra sorellina ) John Coffey dice: “Le ha uccise con il loro stesso amore”. Nel momento della violenza questo uomo cattivo aveva detto ad una delle sorelline: “Se parli faccio del male all’altra” costringendola in questo modo al silenzio e violentandole tutte e due.
Che cosa ci interessa di tutto ciò? Ci interessa che il dolore della prima bambina resta muto, per amore della sorella. Non viene fuori parola e in questo senso il dolore diverrà distruttivo per entrambe. L’uomo perfido aveva usato l’amore che legava le due sorelline per ridurlo, nel momento del dolore, al silenzio e le avrebbe uccise moralmente e fisicamente entrambe. La parola salvifica, quella che avrebbe potuto uscire dalla bambina, anche sotto forma di grido, di richiesta di aiuto, non ha potuto venire fuori perchè ridotta al silenzio dal ricatto messo in atto dall’uomo perverso. L’amore è diventato il motivo stesso della morte delle due bambine in quanto parola non c’è stata.
Ettore Perrella, collega ed amico scrive nel suo libro Per una clinica delle perversioni, Franco Angeli, Milano 2000 ( e in questo modo restiamo nel tema nel quale siamo appena entrati con il film Il miglio verde):
“Il patrigno chiede delle prestazioni sessuali alla bambina dicendole: ‘Mi fai due coccole?’. Ecco come Giulia commenterà più tardi queste parole: “Lui mi ha fatto tanto male con questa frase, perchè ricordo che quando avevo quattro anni mi sedevo sempre sulle sue ginocchia e gli chiedevo io: ‘Mi fai due coccole?’. Ero io che gli chiedevo le coccole e due anni dopo lui mi chiedeva del sesso chiamandolo coccole. E mi creava tanta confusione perchè io sapevo che quelle erano cose brutte che non si dovevano fare, ma lui insisteva, diceva che erano coccole e che ero io a desiderare le coccole”. Questo è il contenuto della storia che questa donna sta raccontando al suo analista.
Scrive ancora Perrella: “Queste parole indicano molto bene il nucleo del problema: in un primo momento abbiamo una bambina che domanda degli atti di tenerezza. Questa domanda viene interpretata, ad un certo punto in senso sessuale ed attribuita ancora alla bambina”.
Il discorso che ci interessa è questo: la bambina usa delle parole che l’adulto, perversamente, traduce in un suo volere, e ne trasforma il significato, le tratta in maniera opposta.
Allora qui qual è il dolore della bambina? Il dolore della bambina è quello della confusione a cui l’adulto perversamente l’ha portata. La bambina dice di avere usato quelle parole che vogliono dire una certa cosa (le coccole); lo zio usa le stesse parole per intendere, fittiziamente e menzogneramente, una cosa diversa, scambiando coccole per sesso. Lo zio fa capire alla bambina che è lei, in fin dei conti, a desiderare il sesso, non lui, è lei a chiedere le “coccole”.
Il dolore di questa bambina, oltre ad essere stato quello della violenza, è stato quello del dubbio, la confusione in cui un essere perverso l’ha gettata giocando sulle parole. E questi tipi di dubbi e confusione sono tra i più ingarbugliati, perché, alla fine della fiera, fanno chiedere alla bambina: “Ma allora sono stata proprio io a chiedere sesso allo zio, chiamandolo coccole?” La bambina si chiede sulla sua colpa, sulla sua partecipazione, sulla parte che lei ha fatto in questa “brutta cosa” e non sa darsi risposta.
Il dolore della bambina sarà rimasto muto in quanto la confusione del pensiero avrà impedito ad esso di venire fuori nel senso della dignità. La bambina si riteneva indegna di dire a qualcuno del proprio dolore, in quanto in esso vedeva anche la propria colpa. Tutto ciò fino a che non ha trovato il coraggio e si è rivolta ad una persona che la potesse veramente aiutare.
Continua Perrella: “La bambina infatti sa bene che quel genere di attività sessuale è vietato ad una persona della sua età. Ma è proprio qualcuno di cui essa si fida che smentisce questa certezza affermando esattamente il contrario tuttavia senza riconoscere questa contraddizione. Infatti il patrigno non sostiene affatto la liceità dei contatti sessuali ma ne minimizza l’importanza come se si trattasse di coccole”.
Ho scelto questo passo perchè (per continuare con la domanda iniziale “Perchè il dolore fa male?”), a mio modo di vedere, ci aitua nella risposta: il dolore fa più male quando non ne è chiara la sostanza, non ne è chiaro il nome, non ne è chiara la responsabilità che noi abbiamo su di esso. Il dolore fa male nel momento in cui io ho mal di pancia, mal di testa, la luna per traverso, etc., e non ho dentro di me la forza sufficiente per formulare il pensiero: “Ho il pieno diritto di vivere questo dolore”.
Allora la nostra domanda iniziale trova qui una compiuta risposta. “Perchè il dolore fa male?”, e possiamo rispondere: “Il dolore fa male perchè (quando) gli manca il diritto”. Il dolore mi fa male quando io, con il mio giudizio, non mi autorizzo a dire: “Questo dolore mi fa male per davvero”, quando non riesco a vivere in pace il mio dolore, tormentato dai dubbi sulla sua veridicità. La bambina di cui abbiamo appena visto la triste esperienza aveva dei dubbi sulla veridicità del suo dolore, meglio, sulla sua responsabilità sul suo dolore.
PERCHE’ IL DOLORE FA MALE?
Se il dolore è giuridicamente giustificabile diventa acqua di rosa: lo si sopporta, può fare anche un male cane, ma lo si sopporta perchè è giustificato, ossia reso giusto, ammesso, valevole, dignitoso.
Ma fa sempre male. E da qui come si esce? Le streghe non avrebbero avuto dubbio: quello sotto i ferri roventi era dolore vero, ma se io (e torniamo alle nostre misere storie quotidiane) mi sveglio al mattino, sento un dolorino, meglio, “mi pare” di sentire un dolorino alla testa e dico alla persona che mi vive accanto: “Stamattina ho la testa mi scoppia” è chiaro che dovrò fare i conti con un altro pensiero, con un’altra domanda: “Ma questo mio dolore, alla fin fine, è così doloroso?”, “ Questo tipo di dolore sono autorizzato a manifestarlo?”, “ E’ dignitoso che io lo comunichi?” Io ritengo che questo (stabilire la veridicità e dunque la dignità del proprio dolore) sia uno dei più grandi dilemmi che una persona possa incontrare nella vita.
Esiste la persona che del non parlare del proprio dolore ne fa un motivo di vanto, un cavallo di battaglia: non lo comunica neanche con un piede nella fossa. Qualcun altro invece non vede l’ora di alzarsi alla mattina a sventolare ai quattro venti (di solito lo fa per via telefonica, cioè illudendosi di… non perdere la faccia) il giramento di testa che ha avuto la sera precedente: il dolore non è misurabile oggettivamente. Solo noi siamo giuridicamente chiamati a manifestarci uomini e donne, come diceva Natoli, nella sopportazione del nostro dolore.
Ciò significa non che il dolore oggettivamente ci prende, ma certo che ci chiama a rispondere oggettivamente di noi stessi. Ci chiama a rispondere a chi ci chiede implicitamente: “Fammi vedere di che pasta sei fatto”.
Il dolore, in sè e per sè è innocente. Nei nostri confronti il dolore non è colpevole di procurarci il male
Noi sappiamo che quando andiamo nel campo del giudizio, andiamo in un campo talmente privato ed intimo per cui il dolore lo “decidiamo” noi, siamo noi a darne una sostanza ed un nome. Solo guardandomi allo specchio io posso risolvere questa questione.
Non esistono sanzioni o aiuti esterni che mi facciano capire se il mio dolore è di serie zeta o di serie A. Solo il mio giudizio lo può dire e ne può rispondere. E ripetiamo che nel momento in cui una persona riesce a vivere con dignità il proprio dolore è una persona sana.
Turgenev in Padri e figli fa dire all’antieroe Bazarov che noi iniziamo a vincere la nostra malattia nel momento in cui abbiamo la coscienza di essere talmente forti per affrontarla e la vinceremo del tutto nel momento in cui ci saremo stancati del tutto di essa.
E a questo punto proviamo, come nostro solito, a tagliare un po’ l’aria. Oggi, mentre ultimavo questi appunti, mi sono trovato sulla scrivania il Malleus maleficarum (che abbiamo visto prima) che, per quanto drammaticamente, di streghe parla seriamente, e vicino a questo tomo l’ultimo numero di Sette del Corriere della Sera che riporta, ecco qua la pietra dello scandalo, una intervista della nostra nazionalpopolare Alba Parietti che candida dichiara in copertina: “Gli uomini hanno bisogno di bruciarmi viva!”.
Incuriosito ho prestato attenzione. Di seguito poi, obbrobrio dell’ovvietà e della scemenza, la buona Alba ci spiega, non richiesta, anche perchè. “Perchè amo con le viscere”. Di fronte ad una frase del genere mi vengono in mente le frattaglie che abbiamo lasciato nella macelleria di qualche serata fa. Che cosa non si fa per farsi… amare!! Ancora nel sottotitolo: “Alba Parietti si racconta con dolore, tenerezza e rabbia, come dallo psicoanalista”. Da psicoanalista io la buona Alba la rimanderei al mittente, meglio… ai mittenti, agli inquisitori: avrebbero saputo loro ben fare qualcosa di buono per le sue scottature!!.
Il termine greco per indicare dolore è Pathos.
Scrive ancora Natoli: “Il dolore è inflitto e come tale può essere semplicemente sopportato e, in certe condizioni, accettato. Questa accezione del dolore è perfettamente espressa dalla parola greca pathos che, nella sua forma originaria, denota semplicemente l’ essere colpito dall’esterno, indipendentemente dalla determinazione positiva o negativa dell’evento che colpisce. Pathos infatti significa appunto evento, avvenimento, congiuntura (…) Di qui la pazienza come virtù per eccellenza nella sofferenza, come capacità del saper sopportare”.
Ma come dobbiamo noi intendere la pazienza nel sopportare il dolore, visto che il dolore è un mio sentirmi colpito? Sentirmi colpito da quello lì che mi offende, ma sentirmi anche colpito da una malattia, sentirmi colpito da una offesa morale. Voglio dire che noi siamo portati a vedere sempre qualcuno dietro il dolore che avviene in noi, quasi una volontà di un qualcuno non ben definito che vuole il nostro dolore, che desidera il nostro male. Mentre, in realtà, lo abbiamo visto in precedenza, il dolore è innocente.
E noi con la pazienza come stiamo (dico anche con quella di ascoltarmi stasera!)? Con quello lì che “mi porta dolore” che conti facciamo? Come viviamo il dolore nel pensiero che “qualcuno” ci ha colpiti? Visto che il dolore è destabilizzante, in quanche modo storna il nostro pensiero da una “precedente” normalità, mi chiedo se attraverso la pazienza io possa arricchirmi dal dolore. Posso io, seguendo tutto il percorso sano che abbiamo cercato di tracciare finora, che è quello dell’amore, della comunicazione, della dignità, della legge, posso arricchirmi dall’altro che viene da me e mi dice: “Soffro”? Posso farlo con sincerità e naturalezza, senza “sfruttare” la situazione?
E qui potrebbe partire la pars construens, la parte positiva del nostro discorso, ovvero quando dal dolore, nostro o altrui, possiamo trarre salute, soddisfazione, bene.
Vi è mai capitato, vicino o di fronte ad una persona che soffre, sapendo noi di sicuro che sta soffrendo, tirare questa persona, come si fa con la carota un asinello, ad alzare la sua soglia di sopportazione al dolore sapendo di fargli del bene e di offrirgli un atto d’amore. Vi è mai capitato di dire a qualcuno che soffre, mentre lo si stima per questo motivo: “Dai, dai che non è niente?” Vi è mai capitato di “fare lavorare” una persona nel senso di crescere le sue capacità di sopportazione al dolore (sapendo noi che il dolore è prima di tutto un dato soggettivo, e dunque anche la sua sopportabilità)? Posso io, dopo avere deciso che la mia azione è improntata al bene, “non ascoltare” una persona che afferma di soffrire?
Posso io fare in modo che l’altra persona che soffre abbia una promozione di sè anche nella soffrenza?
Bene. Tuttavia io mi devo sempre chiedere: ”ma come faccio io a entrare a giudicare il dolore altrui quando io stesso faccio una immensa fatica a giudicare il mio di dolore, a giudicare la sua giustificabilità?”
Io non ho una risposta precisa a tutto ciò, tuttavia ritengo che tutte le esperienze di relazione umana che hanno a che fare con una terapia, (e qui potremmo mettere anche l’insegnamento, il trattamento ospedaliero, ma anche il rapporto d’amore e d’amicizia stessi) si arricchiscano nel momento in cui il dolore viene per così dire saputo ma non eccessivamente parlato ( torno a quanto anticipato all’inizio).
Il silenzio può entrare come cemento e aiuto fra due in modo ancora più “amorevole” della parola stessa. “Il dolore si conosce per esperienza” afferma Salvatore Natoli, lasciando intendere che la esperienza non è del tutto trasmissibile. Io sono convinto che la esperienza del dolore sia tra le più private a cui noi possiamo accedere. Un aiuto l’uomo che sta soffrendo lo può ottenere formulando il pensiero che l’altro che gli sta accanto in quel momento è disponibile al suo dolore, è disponibile all’intera sua persona, senza la presunzione che l’altro capisca tutto, senza la pretesa che tutto il dolore che egli comunica venga compreso (anche nel senso di assunto) dall’altro.
Io ritengo che mai come nella situazione del dolore il viverlo nel silenzio (ma un silenzio che implica la conoscenza reciproca delle persone e una conoscenza della dignità del dolore stesso) possa essere non una via d’uscita, ma un tentativo di sopportazione. Io, nel momento del tuo dolore, ascolto te, che non sei solo dolore. Io ascolto te tutto intero e non il tuo dolore e posso ipotizzare che così facendo di posso condurre fuori dal tuo dolore stesso, il quale dolore non è tutto il tuo essere, non è tutto il tuo corpo.
Vediamo ancora qui l’importanza di intendere il corpo tutto intero, non in parti. L’altro è visto tutto intero, non solo nella parte inerente al suo dolore, che pur se dolorosa rimane sempre una parte. Resto dell’avviso che più si sta sopra alle cose, più se ne ha una visione generale, una rappresentazione a trecentosessantagradi di noi stessi, meglio si sta. Le particolarità tendono a tirarci giù per la giacca e farci fissare su contenuti di sofferenza che poi tanta importanza non ce l’hanno.
Allora più esperienza reciproca c’è e più conoscenza c’è. Più conoscenza c’è più il dolore può essere attraversato dal reciproco silenzio senza che il silenzio possa essere inteso come non ascolto.
Non abbandoniamo ancora la domanda iniziale: “Perchè il dolore fa male?”. Abbiamo visto che il dolore fa male nel momento in cui mette sul piatto la nostra bassezza, la nostra indegnità, quando il dolore ci fa apparire più paurosi di quello che pensiamo umanamente di essere. Io ho sempre fatto un pensiero: pur partendo dal presupposto che il dolore muto è una tragedia (e lo abbiamo già constatato), pur partendo dal presupposto che la salute è la comunicazione (bocca, lacrime, grido, pianto, etc.) del dolore, pur essendo il dolore diluibile e fuoriuscibile attraverso i buchi del corpo di cui abbiamo parlato la prima serata, io arrivo a ipotizzare che il silenzio sul dolore possa sostituire la parola del dolore se due persone si trovano nella condizione dell’amore reciproco.
La mia esperienza mi ha portato a vedere dolori atroci, spesso di carattere morale, taciuti (sapendo di tacere) da due persone che si amavano e che ne conoscevano (del dolore) pienamente la portata. Come se il loro silenzio parlasse, come se pensassero. “Ogni parola sarebbe in più”.
Eppure noi siamo partiti dal presupposto che il dolore fa meno male se trova la via d’uscita, se trova la parola che lo veicola verso l’altro. Ma ora ipotizzo, e non voglio che questo mio pensiero sia preso per dato oggettivo, che il dolore di uno che ama una persona da cui è amato possa trovare una sua pacificazione oltre le parole, nel silenzio. Mi verrebbe qui da dire nel silenzio della bocca ma nel parlare degli occhi. Si può vivere in due un dolore tacendolo, ma sapendolo.
Si può vivere un dolore toccandosi con le mani, vivendolo nelle rispettive pelli (che cosa di più dolce e pacificante nel vedere la persona che soffre accarezzata nei capelli, in silenzio, dalla persona amata, madre, moglie, marito, figlio, figlia che sia).
Quante volte la soluzione del nostro dolore è stato il semplice abbraccio della persona amata, o dell’amico, dei corpi che si toccano. E qui il corpo dice sempre la verità, il corpo non mente. E’ stato fatto tutto prima: quello che c’era da fare era stato fatto, sono state dette le parole, c’era stata la conoscenza del dolore, si erano tentate le soluzioni, ma alla fine, a dare pace sono i due corpi che si toccano, che si sentono reciprocamente. Il dolore trova la comunione nel suo stesso silenzio che viene sostituito dal corpo che parla la propria salute.
Quasi come John Koffee che assumeva su di sè il dolore fisico delle persone con le quali il suo corpo entrava in contatto, nel contatto dell’amore.
Ecco, questo era il percorso che volevo fare stasera, non tanto per arrivare ad una conclusione, ma ad una ipotesi, ad un pensiero che al momento non ho ancora stabilizzato, ovvero se gli obiettivi intermedi per accettare il dolore siano quelli della comunicazione, della parola, ma che tuttavia alla fine l’antidoto sia l’amore che diventa silenzio “del” e “nel” corpo. Noi facciamo di tutto, razionalmente, cognitivamente, praticamente per sopportare il nostro dolore, ma la pacificazione avviene nel momento in cui crolliamo senza parola tra le braccia della persona amata.
Io sono convinto che le parole costituiscano la prima istanza della comunicazione, ma che in un secondo momento avvenga la comunicazione non della parola, ma quella del corpo.
A chi ha bisogno dell’altro a volte basta sapere che il corpo dell’altro c’è, esiste. La frase famosa “Mi basta sapere che ci sei” significa quello che abbiamo detto finora anche sul dolore. Tu ci sei. I nostri corpi possono comunicare. I nostri corpi non potranno mai costituire un solo corpo, ma in questa divisione che è il destino dell’uomo, io che soffro trovo la mia dignità e forse anche la mia pacificazione. Le storie dei rispettivi corpi si incontrano nell’abbraccio; le vite di chi soffre ora e di chi ora non soffre si mescolano all’insegna dell’amore nel contatto della pelle: tutto ciò, detto così, sembra avere, ancora una volta, del miracoloso.
L’empatia, la compenetrazione dei corpi, a volte avviene (nelle modalità legali in cui può avvenire) quasi senza che noi ce ne accorgiamo. Poi, nel pensiero, a bocce ferme, chi ha più sensibilità, riesce a fare il percorso a ritroso e rendersi conto veramente di quello che è accaduto: un evento magnifico eppure semplicissimo. Non occorrono i santi per farci capire che gli splendori dell’essere umano sono contenuti nella semplicità del proprio corpo che si muove verso un altro corpo.
Allora la parola, anche quella dell’aiuto a chi soffre, ha nel suo non detto, una forza che se pronunciata o, peggio, ripetuta, non avrebbe mai. Pensiamo a questo: la parola taciuta. Non si tratta di una tautologia o di un ossimoro. La parola taciuta significa: “Sappiamo entrambi la parola, ma lasciamo che a parlare siano i nostri corpi”.
Mi pareva importante, e son contento che ci siamo arrivati a questo punto. Il punto in cui la parola fragile, la parola povera, la parola piccola diventa prorompente di forza nel momento in cui, in un contesto d’amore, proprio perchè cosciente della sua limitatezza si lascia integrare dal corpo, trova nel corpo la sua soluzione e la sua magnificenza.
GUIDO SAVIO