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GUIDO SAVIO: L’EMOZIONE HA UN CORPO (TERZA PARTE)

 

L’EMOZIONE HA UN CORPO

 

BAMBINO, LATTE E MADRE

 

Una frase che ancora riguarda la sfera dell’amore, è “Amo chi mi ama”. Questa frase vorrei usarla perché è una frase usuale in chi si addentra nel lessico d’amore,.

Ma è la frase che diventa estremamente pratica tra madre e bambino (anche se mai pronunciata) nel momento dell’allattamento, in quanto la presenza e la accettazione dell’altro per il bambino equivale alla accettazione della… apertura ma anche della chiusura dei rubinetti (seno buono e seno cattivo di Melanie Klein). Cioè alla possibilità di ricevere latte o meno.

 

Ma fra adulti “amanti”, la stessa frase, detta da un uomo alla sua donna (per esempio), dichiara un maschilismo e un egoismo unici: l’uomo non può amare una donna solo perché si sente amato da lei. Sarebbe

come dire: “prima comincia tu e dopo vengo anche io”. E lo stesso per la donna (anche se la percentuale casistica è ben diversa).

 

Ricordo che mi dava abbastanza fastidio Adriano Pappalardo quando cantava… “ti amo perché mi ami tu”. L’Adriano non avrebbe mai accettato la chiusura, anche temporanea, dei rubinetti. Difatti gridava “E lasciami gridare, lasciami sfogare…ti amo (dunque) ricominciamo…”. La regola della legge dell’amore la dettava solo lui.

 

La legge dell’amore invece si articola sull’accavallarsi delle possibilità del e del no. Se il bambino ottenesse tutto quello che vuole, il suo stare con la mamma non sarebbe più la applicazione di una regola ma la trasgressione pericolosa della regola, che porterebbe poi il bambino, a un contatto molto difficile con le Leggi del mondo che prevedono giocoforza il no, o altro di meno appetibile. Il bambino che si sente dire sempre di sì avrebbe il mal di pancia garantito, l’indigestione assicurata e dunque la malattia.

 

La regola che recita “qualcuno mi può dire di no (ma anche sì)”, invece, vive nella sua forma positiva espressa dalla stessa frase (“Amo chi mi ama”) .

 

Scrive Galimberti. “Allora il corpo è pro-vocante, non perchè lascia intravedere una dimensione nascosta, ma perchè chiama in gioco una situazione, perchè in un certo senso si assenta come somma di elementi somatici capaci di produrre sollecitazioni fisiologiche, per offrirsi come atteggiamento che dice la tensione di un amore incipiente.

In questo modo il corpo è desiderabile non per la sua carne immediatamente presente, ma perchè nella sua carne si manifestano una vita e una offerta a parteciparvi (pensiamo al corpo della madre).

Basta infatti che la carne neghi questo sfondo e si raccolga nella sua immobilità che il desiderio si estingue, raggelato dalla impossibilità di trascendersi. Il desiderio è passione. Passione è

patire l’altro, è soffrire la vertigine che la mia possibilità di trascendermi dipende dalla libertà dell’altro”.

 

A vocare, a pro-vocare è il Corpo dell’altro, ma non solo il corpo nella sua attualità, bensì anche il corpo dell’altro così come noi lo sappiamo dislocare nella nostra storia, nel nostro passato. Infatti l’esperienza che noi abbiamo di un altro reale, attuale nel nostro presente (fatti, eventi, parole, affetto, amore, amicizia, etc.), in realtà è l’avvenire di un processo a ritroso, noi la rimandiamo ad altre esperienze precedenti, quasi fossimo alla ricerca della “prima volta” in cui l’altro è apparso nel nostro mondo, anche nella nostra “immemorabile memoria” di cui parlava Natoli. Insomma c’è sempre una prima volta di cui noi non possiamo perdere memoria. E il cui segno e cifra ritornano per ogni nuova e attuale esperienza.

 

Spero sia capitato anche a voi di fronte ad un incontro, ad una esperienza nuova, una faccia mai vista e di riferire il tutto a qualcosa di “già accaduto, già visto nella mia vita (non si tratta di un deia vù” ne della reminiscenza platonica).

 

Come afferma Julia Kristeva nel suo Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990:

“Ogni uomo ha come prossimo tutti gli uomini. Ci si guarda come prossimo tra padre e figlio, tra genero e suocero. Ma non v’è nulla di tanto prossimo come un uomo e un altro uomo”.

 

Il prossimo è un anello della catena che io posso rivivere a ritroso nella mia storia, fino ad arrivare, se ci arrivo, ai primi barlumi della mia memoria. Ma tutto ciò mi risulta possibile solo se io l’altro che incontro, il nuovo che mi appare, lo vedo nella sua libertà di essere, non nella costrizione del mio volerlo. Appunto solo l’altro libero mi dà la possibilità di essere libero io stesso.

 

 

Allora vorrei dire questo: per quanto sia io a muovermi, io andrò sempre a muovermi in direzione di un segno lasciato dall’altro che mi ha sancito un sentimento verso di me, una strizzatina d’occhio, un puffetto sulle guance, una pacca sulla spalla (intendiamo tutti questi gesti ovviamente nel registro metaforico) da parte di un altro. Un altro mi deve avere fatto intendere qualcosa perchè io mi muova verso chi l’ha compiuto. Che poi questo qualche cosa sia un chè di reale o solo da me pensato non fa più di tanta differenza.

 

Allora potrei anche esprimere questo concetto come un ulteriore articolo di Legge che recita più o meno così (e in qualche maniera potrebbe superare il senso egoistico della frase): se io non vado in cerca, nel lavorare sul mio amore, di uno che mi ha dato segno che il mio amore lo vuole, allora mi ammalo.

L’altro per me è sempre quello che ha dato disponibilità su di me prima che io avessi dato disponibilità su di lui, e tutto ciò al di fuori da una logica egoistica in quanto ognuno di noi è alternativamente soggetto e altro rispetto al suo prossimo. Vado con chi mi dà sufficiente garanzia che il mio amore verso di lui non casca in mezzo alle ortiche.

 

 

 

IL GIUDIZIO DELL’ALTRO

 

 

Se io trovo per strada uno che mi dice: “Ma che simpatico che sei” e io gli rispondo: “Ma no, ti sbagli, in realtà io sono uno scorbutico, uno che gli gira storto abbastanza spesso, uno che la luna di traverso ce l’ha un giorno sì e un giorno no…” nulla di più errato. Io non posso andare a fare i conti in tasca dell’altro quando questo esprime un giudizio su di me. Perchè l’altro è… l’Arca della sapienza, la torre davidica del giudizio su di me (quando io gli ho decretato dignità per questo): l’altro mi vede come io realmente sono.

 

In questo senso questo non è un circolo vizioso. Non lo è se accetto che l’altro che incontro alla festa, alla cena, alla messa (vedi Dante e Beatrice, o Abelardo e Eloisa) ha tutti i motivi al mondo per farmi l’occhiolino, e il motivo non se l è inventati lu, ma glielo ho offerto io (magari senza fare più di tanto, magari inavvertitamente, magari inconsciamente).

 

Non è un circolo vizioso perchè al fine che tutta questa seconda istanza (“colui che mi ama”) che sia la morosa, che sia l’amico di giochi, che sia il partner culturale… funzioni verso di me, ci deve essere stato che cosa da parte della prima istanza (“io amo colui”)? Ci deve essere stato un merito. La regola dice che niente è gratis, niente per niente. Allora l’altro si muove verso di me se io lo merito.

 

Ma vorrei tornare adesso alla mamma con i suoi rubinetti incorporati: la mamma apre o chiude in riferimento a quello che è il suo amore per il bambino, al suo giudizio sulla sua salute (alimentare), al suo desideri

o di coltivare il proprio figlio all’insegna della libertà (tanto mi dà tanto, il bene che ricevo me lo devo meritare).

 

Il bambino di fronte ai rubinetti a volte aperti e a volte chiusi della mamma impara la propria libertà che recita che per essere liberi bisogna saper essere in parte dipendenti (dalla intermittenza dei rubinetti della mamma).

Sappiamo noi che la libertà nostra è la giusta capacità di essere dipendenti dall’altro, di essere secondi all’altro, di manifestargli il nostro bisogno, la nostra mancanza, la nostra basàr. Per essere liberi bisogna saper vivere la giusta dipendenza dagli altri.

 

Che cosa ha fatto allora il bambino affinchè la mamma si comporti in modo favorevole nei suoi confronti (che noi metaforicamente abbiamo connotato col rubinetto aperto)? Senz’altro, con il suo visino dolce e meritevole, il bambino deve avere prodotto un qualche cosa che agli occhi della mamma deve essere stato letto come una domanda.

E’ questa la parola vincente. Credetemi: la parola domandare è sempre la lampada di Aladino, la chiave che ci apre tutti i portoni! In qualche modo il bambino deve avere domandato. Questa è la logica del merito.

 

Non esistono questioni di sangue (“Ma tanto tutte le madri amano i loro figli, e basta!”).

 

Come può allora un infans che poppa appena avere merito dell’essere saziato dal seno buono? Dal rubinetto aperto?

 

In realtà ci sono in bambini che piangono giorno e notte e le mamme getterebbero giù dal balcone.

 

Eppure sono convinto che la mamma soddisfa con il suo latte il bambino ch

e gli ha dato un minimo segno (spesso inconscio) di meritarselo.

 

 

Ma anche il pianto del bambino (che non è urlare tutta la notte) può essere una domanda. Scrive Bologna nel suo Flatus vocis: “Così il verbo impiegato per descrivere la voce di Cristo allorchè si accinge a esercitare in contatto con lo Spirito la sua funzione taumaturgica (e demiurgica) è ingemisco (ingemuit…): come si dice di chi spalanchi il diaframma e aspiri con il cuore, riemettendo un gemito che fluisce dalla carne ferita” che noi leggiamo, nel contesto che stiamo percorrendo… che fluisce dallo stato di fame (per cui la domanda di cibo).

 

 

FIGLI E GENITORI

 

 

Ora immaginiamo che il nostro bimbetto sia cresciuto, non è più l’infans che chiede con il pianto il latte alla madre, ma è il diciottenne che chiede le cinquanta euro al papà. Per averle che cosa deve fare? fare una domanda intelligente, per l’appunto. E noi lo abbiamo detto in più di una occasione che il Padre è quel soggetto legale che non risponde mai di no alle domande intelligenti (soddisfacibili) del figlio.

 

Se il figlio fa domande “cretine” il padre ha tutte le ragioni per rispondere… nisba. Questo non significa che il padre si contraddice ma significa che se io figlio voglio un qualche cosa dal padre devo “avere capito” il padre in merito alla sua ricchezza e alla sua disponibilità. Vediamo che è sempre il lavoro (qui il lavoro di stima) che ci guida nella strada della soddisfazione e dello sviluppo.

 

 

Ma cretini non sono solo i figli, lo sono anche quei genitori che pronunciano la classica frase: “I genitori devono fare tutto per i figli” (la solita questione del sangue). Nulla di più falso e pericoloso.

 

Vediamo, e non ci vuole tanto acume, non ci vuole la laurea in psicologia, che i genitori che praticano questa frase hanno fatto saltare tutto il nostro discorso, tutta la legalità e la economicità del nostro discorso che prevede invece le categorie del lavoro e del merito, in quanto il figlio deve lavorare e anche sudare se necessario per meritarsi quello che alla fine avrà dal padre (o da chi per esso).

 

Genitori cretini vuol dire che non ci sono più rubinetti che si aprono e che si chiudono ma rubinetti sempre aperti (sappia con quale spreco), vuol dire che il bambino non deve darsi da fare ma trova già tutti i suoi bisogni anticipati (con la conseguente pellagra!), vuol dire che il portafoglio del papà è sempre disponibile (con le conseguenti… fughe di capitale!), eccetera.

 

 

Ritengo che gran parte della psicopatologia, ma, diciamo più semplicemente, la gran parte delle grane che un individuo (nel nostro caso il figlio) si tira addosso ha a che fare con la incap

acità (che spesso è una non volontà) di accedere alla ricchezza dei genitori, di farla propria. L’incapacità di andare a bottega dal proprio padre.

 

I figli che si tirano addosso le grane sono duri di comprendonio. Ma che cosa li determina, o li spinge, a questa durezza? Il semplice fatto che non sanno fare la domanda, non sanno formulare uno straccio di domanda confacente alla risposta, ovvero sono duri di comprendonio perchè non capiscono la “disponibilità” della ricchezza dei propri genitori (in sostanza, e torniamo all’articolo precedente, non sanno lavorare).

La domanda del figlio è fallimentare nel momento in cui chiede duecento euro sapendo che il padre può dare solo cento. Non lavora appunto di comprendonio).

 

Capita anche che il figlio chiede, apposta (sfida), quello che non può ottenere per poter mettere in atto una spinta aggressiva e svalutativa nei confronti del padre. Ma così facendo, chiedendo duecento euro, non fa tanto il male del padre, anzi si tira la zappa nei piedi, impedendosi di avere le centomila che, chiedendole, potrebbe ottenere. Noi sappiamo che è meglio un uovo oggi che una gallina domani, meglio centomila certe che duecento incerte. Difficile spiegare a certi figli cretini che non vogliono capire neanche quanto fa uno più uno!

 

Allora il figlio diventa così un “imbranato”, essendo l’imbranato colui che non sa cogliere la economicità (vantaggio, beneficio, interesse, etc.) delle relazioni. L’imbranato è colui che non sa cogliere la economicità di tutta questa storiella (Legge) che cerco di raccontare e che abbiamo riassunto nella frase “Amo chi mi ama”.

 

Io diventerò, da figlio che impara questa legge, una persona di successo perchè saprò fare succedere gli eventi (lavoro, affetti, amicizia, ricchezza economica) sui quali ho imparato ad esprimere un giudizio di realizzabilità. Il mio desiderio è realizzabile là dove la realtà lo consente: fuori di ciò solo l’illusione.

Ritorniamo (all’infinito) alla citazione di Terenzio: “Se non è più possibile quello che tu vorresti, cerca di volere quello che è possibile”.

 

L’imbranato poi, che è colui che deficet nel formulare la domanda: il suo corpo è impacciato e goffo. La domanda che non sa fare è la modalità più splendida che noi abbiamo per farci amare dall’altro. Provate voi a chiedere qualche cosa a qualcuno: è il modo più liscio, e sicuro, e naturale, e saggio per farlo contento. Abbiamo in mano un tesoro (il fare la domanda) e non lo sappiamo utilizzare.

 

Se io trovo per strada uno e gli chiedo: “Scusi, una domanda: dov’è via Garibaldi?” e questo lo sa, io lo faccio di sicuro contento del rispondermi. Nulla di più elementare. Banalità per banalità però questa è la salute che intercorre nella comunicazione interna al consorzio umano: “Dov’è via Garibaldi?”. Noi non sappiamo quanto fa felice una persona sentirsi fare una domanda alla quale sa dare una risposta.

 

Tornando al nostro figliolo, possiamo dire che il ragazzo è intelligente se va a chiedere: ”Dov’è via Garibaldi?” a colui (il padre) sul quale ha espresso un giudizio preventivo (giudizio di realtà) sul fatto che sappia realmente dov’è via Garibaldi. Il ragazzo calibra la domanda sul sapere dell’altro, sapere che poi può essere integrato nell’amore dell’altro verso di lui. Allora tornano i conti. Allora torna la frase “Amo chi mi ama”.

 

Se uno mi dice: “Via Garibaldi è là” compie nei miei confronti un atto d’amore perchè mi risolve un problema, mi dice una cosa che prima io non sapevo: così funzionano Legge e Salute.

 

Lavorando ancora sulla frase da cui siamo partiti vorrei fare notare come l’altro a cui io mi rivolgo non è mai un altro casuale; io sull’altro esprimo sempre un giudizio. Poi l’altro o l’altra con cui io sto non è affatto casuale perchè ad incontrarsi sono state le nostre storie reciproche, i nostri successi, le cose che abbiamo fatto accadere, e non poteva andare diversamente da così (principio di “Ragion sufficiente” di Leibniz).

 

Abbiamo visto la citazione di Barthes che “ …l’altro di cui io sono innamorato mi designa la specificità del mio desiderio”. Allora l’altro è l’incarnazione di tutta l’energia di desiderio che viene fuori da me. Il mio flusso va verso non quello lì vicino, o verso quello due metri più in là, ma va verso il “bersaglio” preciso presso il quale io vedo incarnato il mio desiderio, e diversamente non potrebbe essere. Immaginiamo per esemplificare, un bombardamento terapeutico radioattivo in cui i raggi vengono focalizzati in un punto preciso, non un centimetro prima nè un centimetro dopo: nello stesso modo noi incontriamo nella vita le persone che amiamo, focalizzando (incarnando) in esse il nostro desiderio.

 

Barthes (e continuiamo con la citazione) diventa, a mio modo di vedere, poetico quando afferma: “Per trovare l’immagine che, tra migliaia, si confà al mio desiderio, ci sono volute molte combinazioni, molte sorprendenti coincidenze (e forse molte ricerche). E’ un enigma che io non riuscirò mai a risolvere: perchè mai desidero il Tale? Perchè lo desidero persistentemente, languidamente? E’ tutto lui che desidero (una sagoma, una forma, un’aria)? O è solamente una parte di quel corpo? E, in tal caso, che cos’è che, in quel corpo amato, ha per me il valore di feticcio? Quale porzione, per quanto esigua sia, quale sua caratteristica? Il taglio di un’unghia, un dente leggermente rotto di sbieco, una ciocca di capelli, un certo modo di muovere le dita mentre parla, o mentre fuma? Di tutte queste caratteristiche del corpo ho voglia di dire che sono adorabili. Adorabile vuol dire: questo è il mio desiderio, in quanto esso è unico: E’ questo, è certamente questo che io amo!”.

 

Facciamo entrare quanto letto di Barthes nel nostro discorso, ovvero: c’entra qualche cosa di me, qualche cosa di mio con l’altro di cui io vado in cerca? Questo altro che io sto cercando ha a che fare con una mia presenza o con una mia mancanza? O con entrambe? Non lo sapremo mai. Sappiamo soltanto che il fascio di bombardamento del nostro desiderio si dirige (inconsciamente) verso un certo particolare del corpo dell’altra persona (intendendo per corpo tutta la rappresentazione della sua figura). Che questa attrazione per l’altro abbia a che fare con il nostro passato, lo abbiamo visto ampiamente, è fuori di dubbio.

 

Benisteso: ogni uomo e ogni donna sono deboli di comprendonio e fallaci nel loro giudizio. Si può sbagliare. Ma non sempre.

 

Io sono dell’opinione che tutte le esperienze he noi viviamo siano sottoposte ad un processo di significazione che va a ritroso, ovvero ce n’è stata una prima (esperienza) che assomigliava a quella lì, e prima ancora una, fino ad arrivare a proto-esperienze significative che noi abbiamo avuto nella nostra infanzia e che determinano un clichè che poi noi usiamo per tutta la vita. Il gusto che noi abbiamo per una nuova esperienza lo possiamo intendere se lo storicizziamo nel nostro passato. L’ho già detto in precedenza.

 

 

L’INCONTRO (LA CARNE)

Julia Kristeva nel suo Stranieri a se stessi, si inserisce a questo punto nel discorso che vorrei fare con un passaggio entusiasmante: ”E’ ben strano in effetti l’incontro con l’altro – che noi percepiamo attraverso la vista, l’udito, l’odorato, ma non ‘inquadriamo’ attraverso la coscienza. L’altro ci lascia separati, incoerenti; più ancora può darci l’impressione di mancare di contatto con le nostre stesse sensazioni, di rifiutarle, o, al contrario, di rifiutare il nostro giudizio su di esse – un’impressione di essere ‘stupiti’,‘beffati’”.

 

La Kristeva afferma che l’altro che io incontro mi può attrarre e contemporaneamente allontanare, e questo aumenta, enfatizza il fascino dell’incontro stesso, il mistero della conoscenza reciproca.

Leggo qui a proposito della attrazione e della compenetrazione di due persone che si incontrano, che si amano, i cui corpi si amano, alcuni versi di T. S. Eliot:

 

Di due che si amano

   i corpi profumano l’uno dell’altro

   che pensano uguali pensieri

   e non hanno bisogno di parole

   e si sussurrano uguali parole

   che non hanno bisogno di significato.

 

Ho scelto questi sei versi per cercare di fare capire come, nel momento in cui io vado in cerca dell’altro, dell’altro dell’amore, l’ultima cosa che mi interessa è il significato globale. Mi interessa l’unghia, mi interessa il sopracciglio, mi interessa un certo modo di muovere le mani, ma io sento nell’altro qualcuno che, pure nella sua specifica diversità, profuma del mio stesso profumo senza tuttavia costituire la metà mancante del mito dell’androgino (che potrebbe per me comportare la fissazione ad andare in cerca di un qualche cosa di “simile” a me stesso anche se a me stesso mancante).

 

Noi non possiamo dire che siamo costantemente alla ricerca della “nostra” metà che è andata perduta (vedi il mito dell’androgino), ma siamo alla ricerca di una metà di un altro che in qualche modo abbia a che fare con la metà nostra che noi riteniamo andata perduta. Io non so dire se noi, nel nostro percorso di vita, troviamo delle incarnazioni del nostro desiderio che ci appaiono così chiare, lampanti, sull’unghia, si potrebbe dire, però il fatto che noi soprassediamo a tutte le considerazioni logico razionali nel momento in cui ci leghiamo a qualcuno, ci fa capire come abbiamo a che fare e andiamo alla ricerca di un “residuo” che in qualche modo portiamo dentro e che ha a che fare, come abbiamo visto in precedenza con la nostra storia passata, con i nostri primi altri (padre e madre).

 

Ci deve essere nell’altro, negli occhi dell’altro che ci piace un qualche cosa di scritto che in quel preciso momento noi non leggiamo per la prima volta, ma rileggiamo, senza conoscerne con sicurezza la prima fonte.

 

Allora il nostro corpo è (e ritorniamo alla citazione di Galimberti) pro-vocante, “non perchè lascia vedere una dimensione nascosta, ma perchè chiama in gioco una situazione, perchè in un certo senso si assesta come somma di elementi somatici capaci di provocare sollecitazioni fisiologiche, per offrirsi come atteggiamento che dice la tensione di un amore incipiente. In questo modo il corpo non è desiderabile per la sua carne immediatamente presente, ma perchè nella sua carne si manifestano una vita e una offerta di parteciparvi (legge della domanda e della offerta)”.

 

L’altro di cui io vado in cerca non è la carne esposta dal macellaio, perchè la carne esposta dal macellaio, quel taglio, quel filetto, quella spalla, ognuno la può comperare. Non ha scritto quella carne “Riservata alla Signora Rossi”, non è scritto dal macellaio “Rognone per la sora Cesira”, il rognone è là per tutte le sore del paese (anche se frattaglia). Ma la carne di cui noi andiamo in cerca non ha le caratteristiche del “per tutti”. La nostra carne, quella che muove il nostro desiderio, attraverso la sua specificità ha mosso qualcosa dentro di noi, ci ha chiamati, ci ha pro-vocati, ci ha fatto l’occhiolino… solo a noi, per cui io, alla fin fine, arrivo lì, proprio lì e non da un’altra parte. Io a quella carne ci devo partecipare, devo fare un lavoro di partecipazione perchè ne sento la chiamata.

 

“Basta infatti – continua Galimberti – che la carne neghi questo sfondo e si raccolga nella sua immobilità che il desiderio si estingua, raggelato dalla impossibilità di trascendersi”. E Nietzsche diceva la stessa cosa.

 

Immaginiamo il momento in cui la carne perde la propria mobilità, e per mobilità noi intendiamo desiderio e dunque muscoli; immediatamente diventa un cadavere, il quarto di vitello appeso in macelleria. Ma perchè il desiderio, il mio desiderio si estingue? Semplicemente perchè questa carne non si muove verso di me, non mi dà nessun segno, non offre nessun pretesto o motivo per il movimento del mio desiderio. E’ inutile che io vada a chiedere qualcosa a qualcuno che non si muove verso di me. E torniamo alla frase iniziale “Amo chi mi ama”.

 

“Il desiderio è passione. Passione è patire l’altro, è il soffrire la vertigine che la mia possibilità di trascendermi dipende dalla libertà dell’altro”, prosegue Galimberti.

 

Trascendermi significa non andare dal macellaio a trovare la carne appesa ai ganci, carne morta, carne qualsiasi per chiunque la vada a comperare, ma significa andare per le strade e per le piazze e trovare corpi ai quali posso liberamente chiedere: “Dov’è via Garibaldi?” e sentirmi dare la risposta, magari accompagnata da un sorriso. La carne del macellaio non mi funziona in questo discorso non tanto perchè è morta, ma in quanto essendo morta non è libera. Libero è invece il corpo che io trovo per strada e mi indica via Garibaldi.

 

Scrive ancora Galimberti: “L’altro di cui io sono in cerca è l’altro della con-versione”. Per incontrare l’altro mi devo convertire, devo cioè andare a vertere (parola del movimento ma anche parola della giurisprudenza) verso l’altro. Ma del verbo vertere intendiamo anche l’accezione economica, del tipo la vertenza sindacale. Vado a vertere su di un altro per trovare assieme a lui una soluzione che la distanza renderebbe impossibile. La vertenza è l’avvicinarsi. Il con-vertirsi è due corpi che fanno dei passettini o dei passettoni per ridurre la distanza, senza tuttavia ridurla del tutto: ognuno con l’altro ma anche ognuno per sè. Convertere è il compromesso a cui qualche anno fa abbiamo dedicato un corso intero.

 

Non vertere verso l’altro nel senso dell’amore e della legge, lo abbiamo visto nel corso dell’anno scorso, è la perversione. Abbiamo constatato anche che la perversione è la contraddizione delle regole che consentono al consorzio umano di convivere. Perversione è non legge, meglio, come dice Ettore Perrella “la perversione è un uso illecito della legge”, e in una relazione in cui non c’è legge, legge dei corpi, succede di tutto, robe turche (senza offendere gli ottomani): violenza, sopraffazione, dipendenza, annullamento, etc., succede tutto quello che non è relazione.

 

Cito ancora Galimberti – e, purtroppo c’è ancora una santa di mezzo che non fa una gran bella figura, me ne dolgo con qualcuno dei presenti- il quale porta l’esempio di un uomo e di una donna che apparentemente potrebbero essere visti come rappresentanti della conversione dell’amore verso l’altro, mentre la fattualità, la verità del loro essere sconfessa ciò, sconfessa l’amore che apparentemente e così fortemente si potrebbe rinvenire nel loro essere con l’altro :

“Se perverso è l’amore che non si con-verte all’altro, ma si serve dell’altro per la realizzazione del proprio desiderio, non c’è più nessuna differenza tra il desiderio di Giovanni, il seduttore kierkegaardiano che passa di conquista in conquista, senza fedeltà e memoria, perchè ogni donna è limitata mentre ‘l’amore ama l’infinito e teme il limite’, e il desiderio di Santa Teresa d’Avila quando nel suo misticismo esclama ‘ fornica con la mia anima su di un letto di spine o Signore’. In entrambi i casi c’è un rifiuto di trascendersi nell’altro, e la purezza dell’amore che in Giovanni si traduce in infedeltà, o la purezza di Dio che in Teresa si traduce in castità, non riescono a celare una sostanziale dimenticanza dell’altro, e con essa una affermazione prepotente della propria intrascendibilità”.

 

Quando noi parliamo di amore “che si serve dell’altro”, siamo fuori dalla Legge che tentiamo di descrivere, siamo fuori dalla logica che lega mamma e bambino, amante e amata, uomo e Dio. Invece nei rapporti sani nessuno si serve di nessuno. Il bambino fa una domanda alla quale può sentirsi rispondere di sì oppure di no: questa è la legge. La perversione sarebbe il bambino che continua a cercare per altre strade il latte della mamma pervertendo per l’appunto i termini della realtà, i termini della legge che prevedono la plausibilità del sì come del no. Il bambino che vuole il “sì garantito” è già un perverso. Il bambino che frigna, frigna, frigna alla fin fine che cosa vuole? vuole l’amore della mamma? No, vuole semplicemente latte; non vuole un rapporto ma vuole un oggetto. Molto spesso ci capita di vedere delle relazioni in cui la continuazione è garantita non dal reale amore per l’altro, ma dalla incapacità di accettare la sanzione che l’altro non ci vuole più: allora “si tira avanti” ma non “con” l’altro, bensì con il proprio egoismo che non accetta la parola “no”, la relazione è finita. Molti rapporti vanno avanti sulle reciproche ripicche in cui i due sono dei perfetti estranei, a tenerli assieme è solo l’orgoglio o l’egoismo.

 

 

Prestiamo attenzione alle dichiarazioni d’amore, stiamo attenti all’assoluto, a certo misticismo. Ed è questo misticismo che fa pronunciare a Santa Teresa d’Avila quella frase. La stessa frase la avrebbe potuta dire la nostra Caterina del primo articolo.

 

Queste due persone, Giovanni e Teresa sembra che stiano amando per trascendere, ed invece fanno proprio il contrario, annullano l’altro che costituirebbe il trascendere la rispettiva carne nella relazione. Trascendere vuol dire: “oltre”. Oltre te c’è dell’altro, oltre il tuo corpo c’è dell’altro che costituisce la alterità (per me diversità) che a sua volta costituisce il motivo per cui io mi lego a te, costituisce il motivo per cui tu mi affascini. Ma l’altro deve sempre esserci, non si può scavalcarlo via per… fini superiori o… cause di forza maggiore, per la ragion di stato. Neanche quando questa ragione è Dio. Questi due personaggi stanno facendo soffocare, stanno negando l’altro perchè rifiutano il limite stesso di cui l’altro è portatore e vorrebbero pervenire all’infinito, che invece è solo luogo della illusione e dunque della delusione.

 

 

 

EMOZIONE

 

Dal mio punto di vista esiste un segno, infallibile, che sancisce, che garantisce che due corpi sono lì, vivi e vegeti a portare avanti i reciproci discorsi ed in più un comune discorso. Esiste un segno che lascia intendere come due corpi si stanno misurando sul proprio limite e non su un fantasmatico assoluto. Esiste la prova del nove. Questo segno è l’emozione. Il corpo che io cerco, il corpo che ha a che fare con la mancanza mia, il corpo che è il richiamo interno che io sento e del cui contenuto non sono mai sicuro, è il corpo che muove in me emozione. Noi dobbiamo riconoscere che la parola del movimento e del lavoro di un corpo per un altro è l’emozione.

 

Una annotazione che però potrebbe anche funzionare da slogan, non tanto da definizione di emozione. “L’emozione è un campanello alla porta del nostro corpo”. Perchè il campanello suoni qualcuno deve allungare una mano, qualcuno deve premere l’interruttore. L’emozione non è il noli me tangere, ma giusto il contrario… toccate pure, fatevi avanti!

 

 

Per amare invece dobbiamo squilibrarci, per incontrare l’altro dobbiamo perdere un po’ un certo nostro equilibrio. Non sta scritto da nessuna parte che il nostro stato di benessere è lo stato di quiete. Nulla di più sbagliato. Il pensiero di salute non è sovrapponibile a quello di quiete, anzi, più in movimento siamo, più sbilanciati siamo, meglio stiamo, nel senso che un maggior numero di altri incontriamo, essendo gli altri la fonte della nostra salute.

 

Galimberti annoterà che l’emozione è vita, ma io mi permetto qui di anticipare brevemente il perchè. Perchè l’emozione che apparentemente è scombussolamento in realtà è il nostro sistema di ordinamento. Noi ci diamo un ordine in base alla emozione, in base a come siamo competenti in merito alle nostre emozioni. Competenza psicologica, dicevamo l’anno scorso, è la competenza che ognuno di noi ha insita per natura e che gli permette di leggere e di vivere il proprio corpo e i suoi segni. La patologia è sbagliare questa lettura.

 

L’emozione è il mio regolarmi in merito a quella che è la risposta dell’altro, ai rubinetti della mamma, alle cento euro del papà, al sì o al no della morosa. L’emozione è il dirigere intelligente il mio desiderio verso una sua realizzabilità, se si vuole verso ciò che passa il convento senza infognarmi in inutili e dannose illusioni. Anche l’emozione è una medietas, per quanto ci possa fare accapponare la pelle, farci palpitare o farci venire i sudori freddi: l’emozione è un atto della intelligenza che la riconosce parte operativa e ordinativa del corpo.

 

Scrive Galimberti: “L’emozione è dunque un certo modo di apprendere il mondo, di comportarsi di fronte a certe cose; non è un disordine fisiologico, ma una condotta organizzata che consente di sfuggire ciò che non si può sostenere”. Condotta organizzata, è vita dunque, ma non vita spericolata alla Vasco, che è tale in quanto non si può sfuggire a quello che ci viene contro, spericolata in quanto non libera. Ricordo che la logica del comando, della non libertà, non recita: “fa questo e non quello”, ma afferma: “che tu faccia questo o quello non interessa, basta che tu lo faccia per comando”. L’emozione è la liberazione… dal comando che prima la inibiva, la teneva compressa, zitta. L’emozione è la relazione, ovvero la parola santa che sta sotto a tutti i nostri discorsi.

 

Ecco, la relazione, tornando alla nostra frase iniziale “Amo chi mi ama”, significa fare del pronome personale “chi” due parole “colui” e “il quale”. Di queste due parole una pertiene me e l’altra pertiene l’altro. Eccola qui la relazione, tutta qui: il fare di una parola, due parole di rispettiva competenza e pertinenza. Delle parole che noi usiamo le spacchiamo tutte in due parti, una a me e una a te: eccola la relazione. Delle parole un… boccone a me e uno a te! Eccolo l’amore.

 

“Le lacrime – continua Galimberti – e la commozione che invadono chi si trova, portato dal discorso, a ricordare la perdita di una amicizia profonda e mai più sostituita, non sono per nulla un disordine espressivo, ma una condotta adeguata a un’esistenza che ancora non può o non vuole ammettere l’irrimediabilità della perdita, il vuoto che si è creato nella propria vita”.

 

Quando qualcuno perde una persona amata, una persona cara, la sua emozione, le sue lacrime, in quel momento sono la sua vita. Se sopprimesse la sua emozione sarebbe la sua morte, andrebbe dietro all’altro amato che lo ha appena lasciato. L’emozione lo mantiene in vita (in maniera intelligente), è una risorsa che il suo corpo rende disponibile per sopravvivere.

 

“Non potendo sostenere questo vuoto – prosegue Galimberti – l’esistenza non si sostiene, e perciò si abbandona a una condotta compensatoria che ha il potere di evocare intorno a sè delle presenze che riducono la sofferenza di una irrimediabile solitudine”.

 

Ecco, io mi sto chiedendo ancora adesso, quale sia la gigantesca forza che possediamo noi poveri esseri umani per sopportare la perdita di una persona amata. Si tratta di un lavoro… non da sudare le sette camicie, ma le cento camicie. Pensiamo al momento terribile in cui ci viene annunciata la morte di una persona amata. Il primo pensiero che noi abbiamo (oltre che negare la realtà) è: “io da questo stato non mi solleverò più”. Non siamo più nulla, non ci sentiamo più nulla: ci siamo così fortemente identificati con la perdita che ci sentiamo perduti anche noi. E purtuttavia noi, da scriccioli, da formiche che siamo riusciamo a costruire quello che Freud chiama “il lavoro del lutto” che fa in modo che il buco aperto da quella voragine lì venga riempito da altro, perchè lavoro del lutto (dunque la continuazione della vita) ha a che fare con il riempire d’altro contenuto il contenitore che è stato lasciato vuoto. Chi si fissa a voler riempire quel contenitore ancora della stessa sostanza che invece non c’è più, va incontro alla melanconia e alla malattia.

 

Pensandoci a bocce ferme, qui tranquillamente seduti, da spettatori, il lavoro del lutto è un lavoro che ha del miracoloso. Miracoloso il passaggio dal momento della perdita alla nostra capacità di fare succedere altre cose, di avvenire su altri fronti. Miracoloso.

 

“In quella commozione – va avanti Galimberti – in quel pianto non c’è un calcolo ragionato, ma la soluzione brusca di un conflitto. Con le lacrime non si può più parlare di ciò intorno a cui si vuole tacere, per non tematizzare quella modalità d’esistenza all’insegna della solitudine troppo dura da sostenere. L’emozione è dunque un mezzo per eludere una difficoltà a cui non si saprebbe reggere, quindi un modo per continuare ad essere, nonostante tutto, al mondo”.

 

Se dunque l’emozione è la modificazione del nostro essere al mondo, torniamo ai rubinetti: la nostra prima modificazione di esseri umani è il sentire il latte materno che entra nella nostra bocca e ci alimenta. Facile dire a questo punto che l’emozione è il nostro primario alimento.

 

Come giustamente afferma Sartre “l’uomo che ha paura ha sempre paura di qualcosa,(…) nella emozione il corpo non mima un comportamento perchè la coscienza ha bisogno di trasformare magicamente il mondo, nella emozione il corpo si comporta”.

 

Allora, che cosa è il comportamento? Senza fare del comportamentismo, il comportamento è il movimento del corpo dell’uno che si comporta verso il corpo dell’altro all’interno della legge che i due corpi hanno tracciato.

 

Se qualcuno ci dice: “Comportati bene”, sappiamo più o meno tutti che cosa voglia intendere. Ma ad una lettura più attenta scopriamo che questa “raccomandazione” potrebbe essere così tradotta: “Porta il tuo corpo all’altro in modo che tra di voi ci sia un piacere reciproco, in modo che il bene sia reciproco”. Ed abbiamo visto come la stessa legge che regola il rapporto sessuale giri attorno alla reciprocità dei beni. Non esiste un bene al singolare, esiste solo il bene al plurale, ossia tra due o più persone. La nostra esistenza esiste in quanto incarnata nell’altro, come si esprime ancora Galimberti: “la carne infatti esprime l’esistenza come la parola il pensiero, essendo la nostra una esistenza incarnata. Il corpo è la trama in cui i fili dell’esistenza e quelli della carne si raccolgono per esprimere quell’unico senso che poi la presenza rivela”.

 

 

KAFKA

 

Spero che il salto che ora vado a fare non sia troppo brusco.

Da La colonia penale di F. Kafka sulla specificità della legge e sulla sua “scrivibilità”, come dimensione ontologica sul corpo dell’individuo che sempre è chiamato alla sua ricerca, quasi fino al limite della incomprensibilità della legge stessa. Sulla corporeità della legge stessa, sul corpo come unico luogo in cui la legge può venire capita e praticata per davvero.

 

Nello specifico che ci interessa del lavoro kafkiano: l’ufficiale della Colonia penale spiega all’esploratore il funzionamento della “macchina per scrivere la legge” : “La nostra condanna non è severa. Al condannato viene scritto sul corpo il comandamento che ha violato. A questo condannato per esempio, – e l’ufficiale accennò all’uomo – verrà scritto sul corpo: onora il tuo superiore”. E al viaggiatore stupito di apprendere che il condannato ignorava la sentenza pronunciata contro di lui l’ufficiale rispose: ‘Sarebbe inutile comunicargliela, tanto la conoscerà sul suo stesso corpo’ ”.

 

Situazione per l’appunto kafkiana, ma quanto mai chiara: la sede, il depositario della legge (in questo caso una legge penale, ma potrebbe anche essere premiale) è il corpo, non il raziocinio o l’intelletto del reo, ma il suo corpo. Egli capirà la legge attraverso il proprio corpo.

 

La frase che abbiamo scritto all’inizio alla lavagna è una frase della legge premiale, “ama chi ti ma”, alla quale può fare ricorso, a partire dal bambino, chiunque voglia un qualche cosa di bene dall’altro, chiunque voglia dall’altro amore. La frase kafkiana è una frase della legge penale che sancisce la condanna (peraltro mai definitiva e sempre riabilitativa), per cui il reo, nel proprio corpo, e il bambino, nel proprio corpo “capiscono” l’istanza legale in quanto l’altro ha lasciato un segno non nella sua “mente”, ma nel suo corpo, che come abbiamo già visto “non mente”.

 

Il funzionamento della legge non ha nulla a che fare con la sua spiegazione. Il bambino capisce da solo come il reo capirà da solo, se vorranno. Molti genitori si spaccano la testa per sapere come fare a “far stare in riga” i ragazzi, ovvero come spiegare loro la legge. Nulla di più titanico e irrealizzabile: la legge non si spiega, il ragazzo se la prenderà da dove vuole, sta ai genitori offrire con il loro essere (leggi amore reciproco) fonte di legge, una risposta alla domanda. Guai voler fare i genitori per forza, e peggio ancora per … vocazione!

E alla domanda di legge che i nostri figli ci rivolgono continuamente non si risponde con i ragionamenti. Lo capiranno sul loro corpo, come il condannato kafkiano.

 

La mamma non può spiegare la legge al bambino: lo inviterebbe a pensare e interpretare quello che invece è già scritto nel suo corpo ed egli deve elaborare da solo. Quando il bambino comincia a chiedersi il perchè della legge in un certo modo anzichè in un altro, comincia ad ammalarsi. Il bambino vive nel succhiare una emozione che è già legge, due che fanno l’amore vivono nella loro emozione una legge che è inutile spiegare.

La legge dunque passa attraverso il corpo: la mamma dà il latte al bambino, significa corpo; la morosa dà un bacio al moroso: vuol dire corpo; il papà dà le centomila al figlio: vuol dire corpo. Questi sono gli itinerari della legge, il passaggio attraverso i corpi. Non esiste nessuna legge che funzioni che uno non avrà imparato dal solo, e l’emozione sarà il suo veicolo.

I genitori che si ostinano a costituire modelli di legge per i propri figli, anzichè liberarli nella loro competenza di farsi la loro legge, li legheranno alla dipendenza dalla pseudolegge paterna e/o materna. La legge che i nostri figli useranno per trascorrere la loro vita su questo pianeta, stiamone sicuri, non sarà la stessa che abbiamo usato noi per arrivare fino a dove siamo arrivati, anche se pensiamo di essere arrivati tanto avanti o tanto in alto.

 

Alle cose facili non dobbiamo aggiungere difficoltà. Che si mangi due volte al giorno è un dato di fatto sul quale non c’è niente da capire (ed è un dato di legge): specularci sopra può costare caro.

Il lavoro che fa la macchina della colonia penale di Kafka è un vero e proprio in-segnare, un dare libertà all’altro di leggere i segni sul proprio corpo, e intendere il proprio corpo come sede della verità. La macchina segna sulla pelle del condannato il capo di imputazione. Noi in passato abbiamo speso molte riflessioni su questa parola. La imputazione è il pensiero che noi dobbiamo avere della partecipazione che abbiamo avuto, abbiamo e che avremo, partecipazione attiva, a tutti i nostri fatti passati, presenti e futuri. Imputazione significa: “Io c’ero”. Bene. Questo viene scritto sulla pelle: “Io c’ero”, sapendo che la patologia psichica è il negare di esserci stato nel senso della responsabilità, ossia “sono sempre stati gli altri”.

 

Il padre, a cui il figlio chiede le centomila sapendo che non ne ha la disponibilità, risponde con la macchina kafkiana, gli risponde sulla pelle insegnandogli, senza tanti fronzoli: “Hai fatto una domanda cretina”, sapendo noi che le domande cretine sono quelle che non hanno condotto un buon test di realtà, sapendo noi che le domande cretine sono quelle che chiedono tanto per chiedere, sapendo già in partenza della impossibilità della risposta. Ma l’insegnamento dov’è? Se il padre, di fronte alla domanda cretina del figlio razionalizzasse e con tanta calma spiegasse al figlio che le domande vanno redatte in un certo modo, magari in carta bollata, magari mettendogli le stesse parole in bocca, questo padre danneggerebbe il figlio perchè farebbe il lavoro di formulazione della legge che il pargolo dovrebbe fare da solo. Ovvero lo esautorerebbe dalla sua libertà di compiere un lavoro da solo per arrivare ad una sua soluzione. Ruberebbe il lavoro al figlio.

 

Allora insegnamento è non fare al posto dell’altro, non rubargli il lavoro. Purtroppo la gran parte dei figli che hanno problemi di cretineria o, meglio, di imbranataggine, lo deve al fatto che hanno dei genitori che, per una loro insicurezza, svolgono il lavoro “al posto del figlio”, lo esautorano dalla sua competenza, quella che, se libero, egli lentamente andrebbe invece costruendo da solo. Noi genitori dobbiamo stare molto attenti a queste cose.

 

Se il padre risponde al figlio: “Hai fatto una domanda non corretta: riprova” di sicuro insegna al figlio. Se il padre risponde: “Hai fatto una domanda non corretta perchè le domande corrette adesso te lo spiego io come si fanno” danneggia il figlio perchè si sovrappone a lui nel lento e a volte difficile percorso di trovare un metodo proprio e originale per risolvere i problemi, tra i quali quello della legge è il principale. Teniamo presente che la domanda del figlio non sarà mai allineata, uguale alla risposta del padre: uno scarto ci sarà sempre. Ed è accettando reciprocamente questo scarto che il padre insegna e il figlio impara. Se il padre offre al figlio il vademecum di come si formulano le domande ne farà un figlio che parlerà per bocca e per parole d’altri. Guai fidarsi della gente he ti parla con un libro in mano e ti dice: “Qui sta scritto… dunque…” Scusate, sono stato troppo categorico, non “guai fidarsi”, ma “io non mi fido”.

 

Mi viene qui da aggiungere come riflessione finale per questa serata che la legge di cui stiamo parlando è la legge inscritta nel Principio di Natura insito nella condizione nucleare di ogni soggetto. Ci si nasce “con”, quasi un corredo cromosomico (senza fare della biologia). La legge è innata in quanto in-scritta. E la prima in-scrizione della legge è quella della identità e dunque della differenza sessuale.

 

 

GUIDO SAVIO

 

 

 

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