Il Corpo da amare
Ho portato, se così si può dire, il corpo di Caterina da Siena per verificare come il Corpo non possa funzionare se è inteso e vissuto come un compartimento stagno, chiuso alle chiamate dell’esterno, alle chiamate dell’altro, all’aria del desiderio.
Abbiamo visto anche come Caterina con le aperture, con i buchi del proprio corpo non ci sapesse fare, a partire dal primo buco, cioè la bocca.
Caterina negava di avere bisogno del nutrimento, potremmo anche intendere il latte materno, dispensato dalla mammella materna o, magari, dalla Chicco (da intendersi come biberon), ma soprattutto negava che qualcuno, nell’atto d’amore conosciuto come mangiare, potesse darle questo tipo di piacere. Il piacere deve restare sempre in anticamera.
Ed invece il piacere è prerogativa del nostro saper ricevere (e andare in cerca di) piacere che costituisce la garanzia per il nostro stare bene. Il piacere è davvero il principio che noi possiamo porre come regola e bussola. La salute, insomma.
Meglio sarebbe che noi (tornando ai sintomi) non immaginassimo mai l’interno del nostro corpo. Meglio sarebbe non pensare agli organi interni del nostro corpo, a come funziona il fegato, a come batte il cuore, a come si gonfiano e sgonfiano i polmoni. Se noi seguiamo con il nostro pensiero i movimenti e i “rumori” del nostro corpo, corriamo il pericolo di fissarci ad essi. Se noi compiamo lavoro di indagine o, peggio, di introspezione su quello che è interno a noi, ma nascosto, ci ammaliamo. Se gli organi, per definizione, sono interni… lasciamoli interni, lasciamoli lavorare in pace! Se vogliamo fare il piccolo chimico con i nostri enzimi e proteine, ci addentriamo in un campo talmente spinoso che ci può ferire. Perchè? Perchè il nostro corpo è una struttura di natura che funziona indipendentemente dal fatto che lo si pensi, anzi, funziona meglio se si sente lasciato in pace dal pensiero dell’Io indagatore. Mi verrebbe da dire “ad ognuno il proprio lavoro”. Quello del corpo è funzionare e basta, finchè funziona. Quando non funzionerà per davvero ce ne accorgeremo di sicuro. Ma non prima.
Noi sappiamo che se in qualche maniera ci appoggiamo, o ci fissiamo su di un organo interno, decontestualizzandolo dall’intero corpo, lo seguiamo nel suoi meccanismi, nei suoi movimenti, ci ammaliamo. Chiuso il pensiero.
Tornando alla questione principale quindi, alla frase scritta alla lavagna proseguiamo con una domanda: se io mi metto davanti allo specchio e osservo “parti” del mio corpo ( osservo le rughe, mi osservo le sopracciglia, se ho il doppiomento, se ho la pancia o meno, etc.) sto avendo rapporto con me stesso? No, sto avendo rapporto solo con “parti”. Ecco, osservare allo specchio delle nostre brame parti del nostro corpo, potrebbe diventare rognoso, se noi non assimiliamo queste parti all’interno di un pensiero di unità. Il nostro corpo deve essere pensato unito, non la somma delle sue parti. Unito significa che noi dovremmo avere del nostro corpo un pensiero che lo trascende e che nello stesso tempo ne tiene unite le parti. Un pensiero di tutto. Se amo il mio corpo lo penso tutto d’un pezzo e con esso ho un rapporto di pienezza e di completezza, non di parcellizzazione. Non lo seziono in organi e componenti. Allora lo amo veramente e lo preservo dalla malattia. Il mio corpo, dunque, come atto di un mio pensiero che gli vuole bene.
Carlo Maria Martini, Sul corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000. Si tratta di un testo che parla di quello che ormai è comunemente diventato il corpo massificato nella nostra società, il corpo di massa delle riviste, dei giornali, della televisione, il corpo (privata nostra identità) che viene trattato come pezzi che dovrebbero diventare tutti uguali, tutti belli, tutti sani, tutti forti. Il corpo massificato che non ha nessuno dentro di sè, che ha perso “il proprio senso intimo”, come afferma Umberto Galimberti. Il corpo ha una natura polisemica che rende merito alle nostre singole unità, mentre la nostra civiltà (sic!) lo sta “spalmando” tutto uguale come se fosse … la Nutella.
Il cardinale Martini si fa questo tipo di domanda, cogliendo, come si accennava noi in precedenza, il pericolo del corpo frazionato come fonte di disagio non solo corporale ma anche spirituale. “Non c’è forse il rischio di uno smembramento, di una parcellizzazione del corpo, con la conseguente perdita del suo senso globale? Vedi le immagini pubblicitarie di prodotti specifici per alcune parti del corpo, vedi anche i settori specialistici della medicina. E non c’è pure il pericolo che l’attenzione ossessiva al proprio corpo personale, individuale, (ed ecco il punto che più ci interessa) sgretoli la relazione con gli altri?”.
Allora che cosa significa “amare il nostro corpo?” Significa dare ad esso un taglio unitario, perchè è solo in questo modo che l’altro, l’altro della relazione e dell’amore, puo cogliere il nostro corpo e la sua natura più intima, cioè noi. Dobbiamo avere per l’altro un unico indirizzo, non più seconde case in cui alloggiare a nostro piacimento. Allora l’altro ci trova. E anche noi troviamo noi stessi, in un corpo ben circoscritto dalla nostra pelle dentro la quale non ci sognamo nemmeno di addentrarci.
“Noi siamo come la maggior parte delle dame di Parigi – scrive Voltaire nel suo Dizionario filosofico – che mangiano di gusto senza sapere minimamente di che sian fatti i ragù; così noi godiamo dei corpi senza sapere ciò che li compone. Di che cosa è fatto un corpo? di parti, e queste parti si risolvono in altre parti. E cosa sono queste ultime parti? Sempre dei corpi. Continuate a dividere, e non farete un passo nel cercare di capire”.
Ci serve entrare all’interno del nostro corpo attraverso i suoi stessi buchi per “capire come funziona”? Non più di tanto: correremmo il rischio di fare un lavoro apparentemente di sapere, ma realmente di “falso amore” che non ci compete. Ci attaccheremmo troppo a noi stessi nelle nostre parti più nascoste che è bene che tali rimangano. Ci ameremmo di un amore non del tutto sano. Mentre il nostro corpo altro non è che relazione, è che l’altro entri attraverso i nostri buchi, non noi.
Il mio corpo poi mi consente anche la relazione che io ho con me stesso, ma il mio corpo non coincide con i 75 chili del suo peso. Infatti laddove io mi penso là c’è il mio corpo. Il corpo mi accompagna e il mondo esiste perchè c’è il mio corpo che lo tocca. Il mio corpo ce l’ho stampato… nel mio corpo (non certo in testa!)
Il Corpo ha una sua legge interna che lo fa funzionare da solo, noi non dobbiamo andare a investigare sul funzionamento di questa legge.
Il mio corpo “apre a me” l’altro e mi “orienta” verso l’altro: questa è la bussola per me e anche il mio principio di piacere. A noi basta tenere “sturati” i buchi per, come affermava il Cardinale Martini, avere la relazione con l’altro.
Per fare questo è indispensabile un pensiero unitario e aperto del proprio corpo, come un insieme di parti tenute assieme da un qualche cosa che le supera, che ad esse sta sopra. Questo qualche cosa è ciò che ci apre e che ci orienta verso gli altri. Un qualche cosa che tutti possediamo ma che non tutti pensiemo di avere.
Il corpo è esternalità ed esteriorità, ma l’esteriorità è tutt’altro che superficialità, “inganno di mostrarsi privo di sorgenti profonde. L’esteriorità – scrive B. Forte in Delle cose ultime e penultime, Mondadori, Milano 1997 – vuol dire situarsi nel mondo dalla parte dell’uomo, rapportarsi agli altri, alle cose, nella consistenza di relazioni fatte di carne e di sangue, di terra, di parole, di gesti”.
Tornando a volo d’aquila sulla nostra Caterina e per proseguire con il nostro discoso potremmo “allungare” la nostra frase scritta alla lavagna (“amare il nostro corpo”) e dire che amare il nostro corpo significa “fare in modo che abbia costantemente fame”.
La fame di cui stiamo parlando è quella che anima il bambino piccolo, che avvisandone lo stimolo, si trova di fronte a due agenzie, a due istanze: il latte e la madre. Dico qui due agenzie in quanto “sganciano”, tirano fuori quello che al bambino serve.
Prima viene il latte in quanto il bambino deve, per essere soddisfatto, ahm!, aprire un buco ed accettare la logica che il suo corpo non è autosufficiente. Caterina ahm! non lo ha fatto ed è morta a trentatrè anni di anoressia.
Punto primo: il latte. Che cosa significa il latte per il bambino? Significa semplicmente la frase: “per sopravvivere ho bisogno di qualche cosa che viene dal di fuori del mio corpo, da solo non sono capace di produrlo”. Per il momento siamo all’interno di una logica deterministica, quasi elementare: è così e basta. La mamma non c’è ancora, l’altro non è ancora apparso all’orizzonte visivo e del desiderio. Il bambino non ha ancora fatto uno più uno, avvero latte/mamma.
Ma appunto è il secondo momento quello più interessante: la madre. Apro una parentesi: i bambini non fanno i discorsi che facciamo, siamo noi adulti che ci arroghiamo il diritto di entrare nella zucca dei bimbetti per fare le nostre elucubrazioni da grandi. Per il bambino le cose accadono e basta. Forse sarà per questo che si nasce sani e ci si ammala dopo.
La madre è importante perchè se il bambino potesse andare al supermercato e comprare tutti i biberon che vuole, egli non entrerebbe mai nella logica relazionale, non entrerebbe mai in comunicazione con nessuno. Il bambino che rifiuta questa logica sarebbe un Santo Caterino che non apre la bocca e vuole fare tutto da sè. La madre è quella persona che fa capire al bambino che non può fare tutto da sè. La madre diventa allora la agenzia integrativa del latte per fare capire al proprio figlio la legge. Inserisco qui un pezzettino di erudizione linguistica: la parola figlio, latino filius deriva dal verbo felo cioè poppare.
Proviamo ad immaginare che cosa accade nel fragilissimo pensiero del bambino nel momento in cui passa dal latte alla madre e quale panorama gli si apre davanti in questo momento.
Tutti i discorsi che noi facciamo sui bambini, lo tengo a ripetere, dobbiamo intenderli come fatti per “noi” bambini, in quanto l’infanzia non è una età cronologica ma una condizione che dura tutta la vita. Io faccio il bambino domani sera se, a cena con gli amici, da adulto, non apro la bocca per mangiare e per parlare, se faccio il muso, se sono scontroso, perchè non ho ancora capito che il piacere mi viene dall’esterno, nella fattispecie dallo stare assieme ai miei ospiti e mangiare e parlare con loro. La psicologia è una scienza interessante solo se capisce che le storie si ripetono, la nostra storia, la storia di noi bambini, si ripete continuamente in una evoluzione maturativa, ma conserva le caratteristiche della sua primordialità.
Allora il bambino incontra la mamma: che cosa succede? La madre media la interiorità del bambino con l’esterno. Il bambino apprende che per vivere, per sopravvivere, deve compiere quella azione lì, accettare la mediazione della madre come rappresentante dell’esterno, e riconoscere in questa la legge dell’amore. Il bambino impara che il latte non è nel supermercato, dove sarebbe molto più facile andarlo a comperare, ma il latte è legato alla volontà di qualcuno di diverso da lui. E’ questo il momento della nascita nel bambino del pensiero di alterità. Nell’andare al seno materno è più difficile ottenere il latte in quanto io mi metto in relazione con qualcuno il quale il latte, in quel momento lo può avere ma anche no. Io dipendo dalla sua volontà. Questa che abbiamo appena detto è la stesura di una legge, della legge fondamentale che garantisce la salute mentale.
Ecco, nel momento in cui il bambino apre la bocca e la avvicina al seno materno, ama il suo corpo. Ama il proprio corpo in quanto ha capito che la legge che gli permetta di amare il proprio corpo è quella di avere fame (dell’amore dell’altro). Qualcuno mi sfama, non il supermercato. La nostra società sta andando come sta andando in quanto è strapiena di supermercati, dove si compera quello di cui si ha bisogno senza mettersi in relazione con l’altro, con la discrezionalità dell’altro, anche con il fatto che l’altro possa dire di no.
Allora vediamo come la applicazione della regola fondamentale si articoli in due tempi: primo il latte (“ho bisogno di un elemento esterno per vivere”); secondo tempo la madre: è un altro reale che il latte me lo dà, con tutti gli annessi e connessi di questo tipo di relazione, primo tra tutti che è previsto il “no”.
L’altro non è il supermercato, non è internet, non è la televisione. Con queste agenzie è molto più facile soddisfare il proprio bisogno, perchè non occorre “lavorare”; nella relazione con l’altro invece “si lavora” per ottenere qualche cosa. Il latte, come l’amore, me lo devo meritare. Se volessimo fare le cassandre e prevedere qualche cosa di funesto per il nostro mondo (tanto non costa niente, lo fanno tutti) potremmo affermare che il nostro mondo andrà a rotoli in quanto è popolato da troppi supermercati. Ma, ahimè, ci sono anche troppe mamme che magari fanno danni da… qualche altra parte!!!
Ecco, il bambino ha appreso una legge, la quale legge recita che “mi devo fare andare bene quello che passa il convento”. Questa è la legge perchè la mamma può anche chiudere il rubinetto. Il bambino deve articolare il proprio desiderio in riferimento alla offerta, la domanda si deve conformare alla disponibilità della offerta, la domanda deve essere formulata in merito alla disponibilità della risposta: inutile andare a chiedere quello che si sa non si otterrà. Le leggi economiche, sappiamo, sono leggi ferree più in psicologia che in economia pura.
Il corpo del bambino, in tutta questa storia, sta imparando che prima esiste la possibilità (la realtà) della soddisfazione del desiderio, e poi esiste la formulazione del desiderio stesso, il desiderio si articola sulla sua soddisfacibilità. La legge non dice: “prima tu desideri, se trovi quello che cerchi bene, altrimenti… bonanotte sonadori”. No, la legge dice: “affina il tuo desiderio, conformalo al principio di realtà che ti offre sufficiente garanzia che la soddisfazione è possibile”.
Se io articolo il mio desiderio e poi vado in bocca alla frustrazione significa che ho fatto male i conti, che sono uno che va contro i propri interessi, sono un antieconomico.
Da Il manuale di Epiteto: “Non cercare che le cose vadano come vuoi tu, ma cerca di volere che vadano come vanno, e la tua esistenza scorrerà felice”.
Qualcuno potrebbe dire, di fronte a questa asserzione, che siamo in presenza dell’adattamento più pedissequo dell’uomo alla realtà. Potrebbe dire che quella che è la mia capacità imprenditoriale di arricchirmi, di crescere, di emanciparmi è stoppata di fronte al crudo dato di realtà che mi concede questo o quest’altro, dati oggettivi che io non posso forzare nè alterare. Ma in realtà così non è: siamo qui in presenza di una massima asservita al desiderio umano nella sua possibilità di realizzabilità; noi possiamo anche metterci le mani sulle cose, purchè sappiamo che anche le cose “hanno le loro mani”, ovvero pongono le loro regole e le loro questioni.
Terenzio da Andria: “Se non è più possibile quello che tu vorresti, cerca di volere quello che è possibile”.
Epicuro da Lettera sulla felicità: “Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, come del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s’avveri, nè allo stesso modo disperare il contrario”.
Ho scelto queste tre citazioni “dotte”, mi sono spinto fuori dal seminato, per ragionare assieme a voi su di questa domanda: dove sta il limite? Dove sta il limite per cui noi abbiamo diritto alla soddisfazione e dove sta la nostra impossibilità ad essere soddisfatti nel momento in cui formuliamo una domanda insoddisfacibile? E per i discorsi che stiamo facendo noi stasera la domanda “dove sta il limite?” significa “dove stanno i buchi” in quanto il limite sono i buchi del nostro corpo, e attraverso essi, sarebbe da dire, attraverso la loro “saggia amministrazione” passa la nostra possibilità di essere soddisfatti.
La domanda meno stentorea e dura ma più classica e, se si vuole anche culturale, può diventare questa: “come possiamo fare noi, come può fare il nostro corpo per pervenire ad un altro che ci soddisfi (senza che noi la spariamo troppo alta?)”.
Il limite. Uno lancia il giavellotto ad ottanta metri e dice: “Quello è il mio limite”. Nel lessico comune si intende la parola limite come il dato insuperabile, il dato oltre al quale non si può andare, una accezione, in sostanza, negativa, di fermo, di stop. Nulla di più falso. Se noi abbiamo il pensiero che il nostro corpo è un corpo limitato, questo (si badi bene) sarà il suo stesso slancio in avanti. Il pensiero di limite non è un pensiero di debolezza ma un pensiero di forza. La nostra forza è composta dalla ammissione della nostra debolezza, della nostra mancanza che proprio per questo diventa prolifica, come quella di Elena. Solo se io ammetto la mia mancanza qualcuno mi guarderà negli occhi interessato a colmarla, ma se io la nego, nessuno mi guarderà nel becco perchè con uno come me non avrebbe niente di buono da fare, non avrebbe nessuna soddisfazione da ottenere. Di qui non ci si scappa. L’ha detto il bambino succhiando il latte materno, ha firmato questa legge, e in questo modo si avvierà verso una vita felice (“felicità” significa fertilità). Supererò gli ottanta metri del mio giavellotto solo se avrò questo pensiero di limite: che non è il mio fermo ma il mio via.
Il bambino vive e pasce perchè ha capito che non può essere autosufficiente, ha capito che la sua mancanza chiama l’altro che lo soddisfa, da solo non ce la farebbe. Appunto… morirebbe di fame. Il bambino deve mettersi nella condizione del limite e dichiararsi disposto ad essere riempito da qualcuno, legge che invece per tutta la vita ha negato Caterina.
Andando avanti col tempo facciamo crescere il nostro bambino e lo troviamo ragazzino tutto desideroso di imparare. Che cosa lo anima? Lo anima la stessa legge che ha imparato da infante, cioè che il latte glielo dà l’altro. Adesso il sapere glielo dà l’altro. Invece il saputello, il presuntuoso che nega i propri maestri, di sicuro sarà stato da infante il bambino che ha negato il significato del latte materno come prova che la soddisfazione (mia) viene da fuori e per merito di un altro.
Il ragazzo che vuole imparare ha aderito alla legge che dice che qualcuno può aprire e/o chiudere i rubinetti dai quali io traggo il mio nutrimento materiale e spirituale. Io penso che nelle scuole del regno non esistano studenti scansafatiche ma esistano ragazzi e ragazze che hanno più o meno bene imparato (dai loro genitori) la legge di cui stiamo parlando, la legge dei rubinetti e del latte.
La legge afferma una discrezionalità. La discrezionalità dell’altro nei nostri confronti. Ora provate a dire voi come si chiama la discrezione della madre verso il bambino o del maestro verso l’allievo. Si chiama semplicemente amore. Possiamo a questo punto andare verso San Paolo, diventiamo paolini (parlando di legge). Che cosa fa sì che una mamma chiuda il rubinetto di un seno o che il maestro chiuda il canale del sapere verso il proprio alunno? L’insegnare all’altro che per avere deve riconoscere la propria fame, deve riconoscere la legge della fame che afferma che per estinguerla devi chiedere.
La legge afferma, molto semplicemente, che per avere dall’altro devi aprire la bocca per parlargli del tuo limite, allora, solo allora l’altro verrà verso di te portandoti la soddisfazione. Ecco qui Paolo, la legge della madre che insegna al bambino questo contenuto si chiama con una sola parola, e la parola è amore. Ovvero, mi prendo cura dell’altro nel momento in cui l’altro lo chiede manifestando la sua mancanza.
Perchè questo è un atto d’amore? Perchè è l’atto in cui un corpo che non sa sopravvivere da solo si trova nella posizione del massimo desiderio di un soggetto umano: questo massimo desiderio recita: “desidero che l’altro pensi a me”. Il bambino ciuccia il latte, gode, è soddisfatto. Ma quale è, oltre il latte, il corroborante psicologico di questa amena scenetta? Senza dubbio il pensiero del bambino: “qui c’è qualcuno che pensa a me”, “qui c’è uno che lavora al posto mio” e mi porta la soddisfazione.
Pensate all’amore, pensate all’amicizia, pensate anche ad una semplice telefonata, ad una cartolina, ad un regalo. Ciò che ci affascina è il pensiero che qualcuno ha pensato a noi. Si dice: “basta il pensiero” … te credo, basta e avanza!
Che cosa c’è nel pensiero di chi regala un mazzo di fiori? Sì, certo, c’è l’amore per l’altro. La madre nel momento in cui dà del latte al bambino subisce una apparente “perdita”, così come nel momento in cui vado dalla fiorista “perdo” del mio tempo. Ma queste perdite si rivelano poi la ricchezza con la quale io vivo la relazione con l’altro. E’ la mancanza prolifica, è la perdita feconda che abbiamo visto in Elena. Perdita di qualche cosa di se stessi perchè questo entri come elemento vitale nella vita dell’altro. La mia ricchezza và all’altro e io sono certo che questa mia ricchezza, apparentemente vissuta come perdita, in realtà è rifondibile ed io la posso ricreare. Ecco, la mia ricchezza è la mia capacità di ricreare dentro di me quello che io all’altro passo nel senso dell’amore, a partire dal pensarlo.
Se io vado dalla fiorista “lavoro” per un altro. La mamma che offre il proprio seno “lavora” per un altro. Capite come, dal dipanarsi di questa matassa, non solo noi come individui funzioniamo (quando funzioniamo) ma anche tutta la nostra società si muova all’insegna di questa legge. Questa è la scoperta dell’acqua calda. Basta fare funzionare la logica che io per avere soddisfazione con l’altro gli devo dare qualcosa di mio, la quale cosa io non considererò mai una perdita ma un dato che io stesso saprò riprodurre dentro di me per riulteriormente donare. Questa è la mia ricchezza. Quello che io potrei ritenere perduto in realtà è il mio investimento. Investimento significa, per lo meno, che alla fin fine io ci guadagno.
Le leggi del corpo altro non possono essere che le leggi dell’amore. Pensiamo al rapporto sessuale che si regola all’interno della stessa logica in cui si articola il bambino che succhia il latte dalla madre. Allora, definizione di rapporto sessuale. Corpo innanzitutto, perchè il rapporto sessuale non è mica una cosa pensata, a chi lo pensa troppo gli vengono i problemi sessuali. Il rapporto sessuale non è mica internet. Il rapporto sessuale è una esperienza (experiri, latino, significa muscoli, lavoro, pelle, contatto), (cercate di seguire il discorso immaginando due che fanno l’amore ma anche la mamma che sta allattando il bambino: la realtà è la stessa); allora “il rapporto sessuale è una esperienza in cui la soddisfazione mi viene dall’altro, dal lavoro che l’altro fa su di me”. Questa è la legge che accomuna l’allattamento e il rapporto sessuale. Si tratta sì di una esperienza , ma innanzitutto si tratta di una legge che avviene nel rapporto tra due esseri umani, tra due soggetti che vivono un patto accettando questa legge.
Ora, andare a sindacare la applicazione di questa legge nella vita di santa Caterina sarebbe come andare a sparare sulla Croce Rossa, tuttavia quello che ci interessa è verificare come la condizione della fame, della benefica fame (che noi non assumiamo qui come uno stato di dipendenza) è la condizione prima della applicazione della legge.
Caterina aveva negato tutto ciò affermando: “io non apro i buchi” nel senso di negare l’esperienza di piacere che mi viene dall’altro. Affermare “io mi inchiavello all’alboro della croce di Gesù” ma non aprire i propri buchi al mondo, alla penetrazione del mondo, significava sconfessare questa legge che abbiamo posto come iniziale e vitale per la sopravvivenza di noi poveri esseri dell’umano consorzio.
Ma iniziale qui non significa “che si è verificata all’inizio della vita, una volta per tutte”, bensì significa che io la devo fare iniziare ogni volta che mi metto in relazione con l’altro e con l’altro voglio combinarci qualche cosa di buono, ovvero reciproco beneficio e reciproca soddisfazione. Ciò che è importante che io capisca è che la legge della fame si ripete da me bambino a me uomo, a me padre, a me nonno, a me, speriamo, bisnonno.
La legge che funziona è la legge che intende il corpo come tutto d’un pezzo, tutto unitario, la legge che intende un altro tutto unito dentro al corpo.
Mi sono chiesto più volte (qui tagliamo un po’ l’aria su questi discorsi forse troppo seri e impegnativi), mi sono chiesto più volte come mai il corpo di Cristo che noi vediamo tutto intatto sulla croce (“nessun osso gli verrà spezzato”) poi sia stato spezzettato in tante parti dai cosiddetti santi taumaturghi, ognuno interessato di una parte specifica del corpo. Perchè noi non abbiamo un buon Dio che ci garantisce, lui da solo, che al nostro corpo, tutto d’un pezzo, se non gli rompiamo tanto le scatole, ci funzione anche bene? Invece no, ci voleva anche qui il catalogo affinchè ogni santo si sentisse protagonista! Seguiamo semplicemente ma anche bonariamente questo elenco.
Sant’Antonio abate: contro le situazioni difficili, contro il fuoco (sembra di recitare le litanie, ma… recitiamole assieme!). San Biagio: contro il mal di gola. San Giuseppe: patrono della buona morte e contro le tentazioni del demonio durante l’agonia. San Giorgio: contro le infezioni della pelle (spesso scambiato con Sant’Antonio per il “fuoco di Sant’Antonio”, però non è lo stesso!). Sant’Erasmo, patrono dei marinai: contro le malattie intestinali. Sant’Anna, pregata dalle partorienti. San Rocco: contro la peste e le malattie infettive. Sant’Egidio: contro il mal caduco o di San Valentino. San Giacomo: contro la pazzia. San Cristoforo: contro gli incidenti. San Dionigio: contro le possessioni diaboliche e i dolori di testa (tante volte io ho pensato che fossero la stessa cosa!). Santa Caterina, 25 novembre: contro le malattie della lingua. Santa Barbara: contro il fulmine e la morte improvvisa. San Vito: contro il ballo di San Vito, la letargia e i morsi velenosi (qui la fantasia si spreca!) e…dulcis in fundo San Luca: contro tutte le malattie. Sfido io…era medico!!
La domanda mia abbastanza puerile è: questo corpo, anche nella agiografia taumaturgica, perchè non viene mai visto intero come il corpo di Cristo sulla croce, ma sempre a pezzettini? Perchè i santi taumaturghi ci… inducono in tentazione a farci pensare il nostro corpo fatto da parti anzichè un tutto intero? A questa domanda non ho ancora trovato una risposta soddisfacente.
Mi accorgo ora che abbiamo abbandonato, con questi discorsi sui santi, il punto dal quale eravamo partiti. Ma torniamoci: l’amore per il mio corpo. Come posso essere io sufficientemente regolato e sano per avere il giusto amore per il mio corpo? Io la risposta non la so, però ho trovato questa riflessione di Roland Barthes nel suo Frammenti di un discorso amoroso (libro setacciato da filosofi e psicologi… poco seri, tra i quali il sottoscritto!).
Barthes si chiede perchè noi, di tutte le persone che incontriamo nella vita, poi alla fin fine andiamo a parare verso questo o quello, e lasciamo perdere tutti gli altri? Scrive Barthes sotto la voce “Adorabile”: “Nella mia vita io incontro milioni di corpi; di questi milioni io posso desiderarne delle centinaia; ma, di queste centinaia, io ne amo uno solo. L’altro di cui io sono innamorato mi designa la specialità del mio desiderio”.
Ciò significa che l’altro, l’altra di cui mi innamoro mi designa la specificità del mio desiderio, ovvero non avrei potuto innamorarmi di un altro, di quello seduto nel banco vicino a quello del mio amore, o di quello che abita nel pianerottolo sopra. Mi sono innamorato proprio di quello perchè quello e nessun altro ha saputo incarnare la specificità del mio desiderio, proprio come la canzone “Come te non c’è nessuno, tu sei l’unico al mondo”, proprio perchè incarna la mia parte mancante.
Allora colui verso il quale io vado è la specificità del mio desiderio in quanto è lui e solo lui che mi estingue la fame, è lui e solo lui nel quale io vedo la parte mancante. Ma come faccio io ad accorgermi della mia parte mancante e del fatto che sia proprio quello lì che la incarna? Io della mia parte mancante, in qualche modo ho una raffigurazione, ho una certa idea. Seguo il mito platonico dell’androgino, l’essere che viene tagliato in due parti uguali, nel quale poi ciascuna delle parti tagliate andrà alla ricerca dell’altra proprio perchè “ha il ricordo” di come era la unità originaria.
D’accordo, questa può essere una strada, quella di farmi portare da una buona istintualità alla ricerca, alla fin fine, di chi in qualche modo mi assomiglia da qualche parte. Questa può essere una soluzione, ma può anche costituire un pericolo, il pericolo che ciascuno di noi fantasmizzi nella ricerca dell’altro di trovare non tanto la propria parte mancante ma una copia di se stesso, si fissi alla ricerca del “doppio” di se stesso, di qualche cosa che assomigli troppo a lui, e si allontani allora irrimediabilmente dal vero altro che invece è assoluta diversità da noi anche se con noi ha una certa somiglianza. L’amore è amore perchè tra i due c’è diversità.
L’altro che incontriamo nell’amore, nell’amicizia non è la nostra fotocopia, ma un essere completamente diverso da noi anche se a noi riferibile, e proprio per questo le forme del sentimento e dell’affetto sono possibili. Sarebbero impossibili se io andassi alla ricerca della fotocopia della mia parte mancante: andrei solo in cerca di me stesso, con tutte le conseguenze facilmente immaginabili che questo comporta. Si tratta in soldoni di stare attenti a non andare in cerca, in amore, dei facili surrogati di “altri” che hanno fatto parte della nostra storia, cioè dei nostri genitori. Si tratta di non fissarci al voler essere amati come mamma e papà hanno fatto (se lo hanno fatto), o come noi abbiamo pensato o fantasmizzato che abbiano fatto. Ancora Natoli, ma in un altro testo (La felicità di questa vita, Mondadori, Milano 2000) a proposito di questo parla di “memoria immemorabile della felicità”, ovvero ventre materno, vita intrauterina, prima esperienza di felicità del corpo… non sappiamo quale sia stata la nostra prima grande felicità, nè addirittura se ci sia stata, tuttavia ci torniamo continuamente alla ricerca con il lavoro della nostra memoria.
Non è svelare un mistero affermare che la donna o l’uomo a cui ci leghiamo hanno, in qualche modo a che fare con nostro padre e con nostra madre.
Noi verso certe persone sentiamo una attrazione inspiegabile. Arriviamo perfino alle dive di Hollywood, agli occhioni di Miss
Italia, alla voce della telefonista della Telecom, al mettersi di sbiego di Lilli Gruber; c’è poco da fare: sentiamo attrazione e molto spesso questa attrazione è inspiegabile (in questo senso si ipotizza che abbia a che fare con la nostra parte mancante). Poi se a certe persone ci leghiamo… con la colla, corriamo il rischio che la attrazione resti inspiegabile per tutta la vita, anche quando questa si è trasformata in routine e noia, che sempre forme di attrazione sono.
Potremmo qui affermare provvisoriamente che non siamo “noi” a scegliere l’altro, ma è il nostro corpo, di moto proprio, che va verso il proprio oggetto d’amore, seguendo percorsi e motivazioni che spesso sono sconosciute alla coscienza ma che possono avere a che fare con la nostra continua ricerca di un io che in qualche modo vediamo negli altri, pur non volendo noi la abolizione della differenza dell’altro.
Ed è vero che questa parte mancante noi la troviamo nell’amore, anche se adesso non saprei dirvi tanto di più. Troviamo la differenza nell’amore, troviamo la alterità, ma troviamo anche, senza dubbio, qualcosa nell’altro che ha a che fare con noi, con la nostra storia, con il nostro passato, se vogliamo con il nostro inconscio.
Di questa parte mancante che sapere possiamo avere? Possiamo avere un sapere illusorio, possiamo avere il pensiero del ricordo (mio padre, mia madre, etc.), possiamo avere una aspettativa, possiamo in essa scoprire e vivere la novità e la alterità ma, e di più non saprei davvero dire, di questa parte mancante noi abbiamo dentro di noi una sedimentazione, una traccia, un indice che ci guida nella nostra ricerca. Sta a noi non fissarci su questo indice e volere a tutti i costi che le alterità che noi incontriamo nella nostra vita vengano ridotte alle nostre proporzioni, a nostra immagine e somiglianza. La alterità (e dunque l’amore) è di tutto fuorchè somiglianza.
“L’altro che mi guarda col suo volto – scrive Bruno Forte nel libro citato – mi dice che non sono tutto. Proprio in questo luogo dell’irruzione sfolgorante dell’infinito, l’esteriorità corporea libera il soggetto dalla prigionia di se stesso. Il corpo è il trionfo della relazione sulla affermazione solitaria di sè, è l’avvento della alterità irriducibile al medesimo, è lo spazio del nuovo, è la traccia dell’infinito”.
Ma mi accorgo adesso che è giunto il momento di scoprire le carte; propongo qui il mio azzardo di stasera, anche se sotto forma di ipotesi: non è che la parte mancante è il nostro vero corpo? La nostra parte mancante, quella che noi non conosciamo del tutto, non è forse la muscolatura del nostro corpo, che và seguendo il proprio diritto al desiderio e alla soddisfazione? Non è che il corpo è la fame che noi proviamo per l’altro? Non è che il corpo è il nostro regolatore, la nostra bussola alla quale noi dobbiamo affidare il nostro raziocinio? Ricordo che Lacan afferma che in amore di dà quello che non si ha, forse la nostra stessa mancanza, forse il nostro stesso corpo al quale ci siamo finalmente affidati.
Seguiamo questo ragionamento e cerchiamo di articolare maggiormente l’esempio già fatto dell’essere ripresi dalla cinepresa. Quando noi ci vediamo ripresi nei nostri video amatoriali, o, se famosi, ci vediamo in TV, abbiamo la netta sensazione che c’è una differenza tra la immagine che noi ci siamo fatti del nostro corpo e quella che vediamo nello schermo. Spero vi sia capitato un qualche cosa del genere per confermare questa mia teoria. Ecco, che cosa significa questo? Significa che per quanto il nostro “pensiero” sia fedele alle sembianze del corpo, poi una volta che il nostro corpo diviene un oggetto della vista, noi non lo riconosciamo completamente, proprio perchè noi con il nostro corpo abbiamo una relazione di alterità: il nostro corpo ci è altro, lo vedo là, nello schermo, nel video, non sono lo stesso io quello che adesso mi sento di essere, quello è l’io vero. Appunto, e sto vedendo il mio corpo nella sua verità. Come se il nostro corpo costituisse una alterità interna a noi stessi, alterità che tuttavia costituisce la nostra vera essenza, costituisce la nostra verità. La verità è sempre “altra” dal soggetto.
Tutto quello che il nostro pensiero ci fornisce a livello di produzione, lo produce in seguito ad una dialettica interna, ad un discorso interno, ad un dialogo, ovvero un parlare tra due, parlare tra due entità interne. Il nostro conosciutissimo farci le domande e risponderci altro non è che una forma di questa dialettica interna che noi abbiamo con una alterità, che qui proponiamo essere il nostro corpo stesso, il vero corpo. Ecco, questo è l’azzardo di cui parlavo in precedenza.
Non sto qui affermando che dentro di noi albergano due entità, non sto parlando di dualismi (Dio ci protegga da tutte le forme di dualismo, a partire dalla gnosi stessa), sto solo affermando che in noi esiste un rapporto dialettico e quello che noi siamo e facciamo è frutto di un lavoro di mediazione interno a noi, mediazione tra istanze di cui colei che compie azione unitaria e legislativa è il corpo. Ecco, io la vedo così. Vedo che il corpo funziona e lavora per il fatto che esiste circolazione interna, esiste la possibilità di una domanda e di una risposta ad esso stesso interna.
Si parlava in precedenza di “rispetto per il proprio corpo”. Ciò significa che in qualche modo esiste una relazione dialettica tra me e il mio corpo, che io lo vedo come alterità sulla quale svolgere una azione morale.
D’altra parte il mio stesso pensiero d’amore deriva da come io ho visto altri due, nella fattispecie mio padre e mia madre, amarsi tra di loro. Ovvero il pensiero d’amore, di come si ama, di come io amo la mia donna, non me lo sono inventato io, ma lo ho prodotto “lavorando” su di un modello più o meno felice che mi hanno offerto i miei genitori. Ho visto in altre parole due corpi che si com- portavano nel senso dell’amore, due che si comportavano nel senso dell’amore tra di loro e verso di me. Mi sono trovato a pensarmi nel loro pensiero. La mia legge vitale è entrata in vigore quando ho capito che io bambino, col perenne moccolo al naso, ero pensato da qualcuno nel senso dell’amore; proprio potremmo parafrasare Cartesio e fare del suo “Penso, dunque sono” un “Sono pensato, dunque sono”.
Due che si amano, la madre che allatta il bambino, il maestro che insegna all’allievo compongono una legge, divengono articoli di legge in quanto mettono in moto le reciproche alterità per pervenire al bene comune. Compongono la legge perchè non hanno “nessuno” dietro alle spalle che garantisce che quello che fanno è bene. Lo garantiscono solo loro nella relazione reciproca, se si vuole nel reciproco rispetto. Noi sappiamo infatti che tutte le patologie hanno a che fare con il non funzionamento della legge che tiene unite due persone nel senso del beneficio reciproco. La legge non esiste quando io non sono nel pensiero dell’altro. Nel momento in cui due persone si amano fondano la legge in quanto esiste una precondizione che è stata accettata da entrambe le parti: il riconoscimento della mancanza, il riconoscimento che la fame verrà soddisfatta dall’altro. Poi questi due che si amano si pensano anche (si spera) singoli, uno più uno, loro innanzitutto, liberi di pensare con la loro testa e di fare con il proprio corpo. Non si pensano inglobati o inguaiati in una delle infinite masse che popolano il nostro mondo e che levano la coscienza individuale, si pensano loro due, free (e speriamo per davvero che il nostro mondo non abbia più bisogno, per le coscienze dei deboli, di masse da fare sfilare!).
Umberto Galimberti nel suo Il corpo, Feltrinelli, Milano 1999, segue un percorso affascinante e certo dotto per fare capire come il desiderio, la soddisfazione del desiderio, passino attraverso un lavoro di legalità reciproco, in cui condizione fondante è il riconoscimento della propria fame.
Galimberti lavora attorno a tre parole che sono: nefès, basàr e ruàh, parole che i Settanta (traduttori della Bibbia diciamo così di stampo ellenistico, che poi nemmeno furono settanta!) traducono rispettivamente con anima, corpo/carne e la terza con onnipotenza di Dio.
Scrive Galimberti: “Qui sarà sufficiente ricordare che il termine nefès , tradotto dai Settanta con Psiche e dai latini con Anima, è la parola che indica l’indigenza nell’uomo e l’ordine dei suoi bisogni, per cui l’uomo non ha una nefès ma è nefès. Isaia, con la parola nefès allude alla gola (e in qualche modo torniamo, ahilei!, a Caterina) che, come organo della nutrizione attraverso cui l’uomo si sazia, è fra li organi corporei il più idoneo ad esprimere l’indigenza e il bisogno”.
Ancora, il greco stoma che è il latino os, oltre che viso significano bocca, apertura.
Proviamo allora noi, senza pretese, a dire perchè l’anima si chiama anima. Si chiama anima perchè anima (verbo), dà coraggio, dà forza, fa lavorare, fa scomodare dalla propria calma apparente. L’amore non è stato di quiete ma sbilanciamento continuo verso l’altro. Ricordo ancora qui uno stralcio di dialogo tratto da un film di Piccioni Fuori dal mondo in cui Silvio Orlando, in macchina con la suora Margherita Buy la accusa che il loro modo di fare del bene agli altri sembra sempre eccessivo. Al che la suora risponde: “Mi dica lei in amore qualche cosa che non sia eccessivo”.
La parola anima è la parola della mancanza, e questa mancanza è prolifica perchè il nome stesso che la designa porta questo contenuto, quello del cuore, del coraggio, del movimento. Le cose hanno i nomi giusti che spiegano da soli la loro funzionalità (io penso che per trasformare le cose difficili in cose facili basta stare sulle parole, prenderle alla lettera, guardarci dentro: c’è tutto, e anche scritto in maniera semplice!). L’anima anima l’uomo e conferisce ad esso ordine (ovvero legge) per suoi bisogni, che altrimenti correrebbero il rischio di restare sconnessi e fuori dalla giurisdizione (fuori dalla possibilità di soluzione). L’uomo dunque non ha una nefès, cioè non ha una anima, ma è anima, ovvero la sua struttura fondante è costituita dalla spinta al movimento e al lavoro verso l’altro al fine della soddisfazione reciproca. Lascio qui a voi pensare a tutte le differenze che intercorrono tra il verbo avere e il verbo essere.
Caterina è partita dal finale della citazione di Galimberti affermando che il proprio organo di indigenza e di bisogno non sarà toccato da nessuno, nessuno avrà giurisdizione sulla sua negazione della propria indigenza.
Nel corso dei nostri incontri mi sto accorgendo che risico sempre il discorso della anoressia: un pezzettino di quà, un pezzettino di là… va a finire che un anno farò un corso intero sulla anoressia, così almeno non se ne parlerà più. La anoressia è in parte la questione di un corpo che perde peso, lo sappiamo, ma è soprattutto la questione nuda e cruda della negazione di avere bisogno d’amore e che questo amore viene da fuori, da un altro, da un bel ragazzo, da un macho, magari! Se lo ricordo a memoria vi ripeto lo slogan della anoressica (rivolto ad un ipotetico altro che le dà da mangiare, dunque le dà dell’amore): “Se il tuo stare bene con me dovesse essere mangiare assieme, allora tu potresti morire di fame”, tanta è la rabbia e la aggressività che la anoressica conserva verso l’altro del possibile amore.
Riprendo la citazione di Galimberti: “Dal significato letterale si passa a quello metaforico, per cui la nefès significa desiderio, aspirazione, brama…”. Ma tutto ciò a partire da dove? Dalla gola, dalla bocca, dal primo buco del corpo che un essere umano si accorge di avere aperto. Prima per mangiare e dopo per parlare. Noi possiamo adesso finalmente intendere la perfetta funzionalità della bocca nella duplice funzione di fare entrare il cibo e di fare uscire le parole. Entrata ed uscita. Entrata della natura ed uscita della cultura attraverso lo stesso orifizio. Il bene che entra e il bene che esce attraverso la bocca.
La massima “ Parla come mangi” la dice tutta a proposito. Significa: fai uscire dalla bocca sotto forma di cultura quello che hai introdotto nella bocca sotto forma di natura. Entriamo nella metafora. Il modo in cui io ho mangiato corrisponde alla legge dell’amore che finora, in lungo e in largo, abbiamo visto, corrisponde alla accettazione della esternità e del bisogno di altro che il mio corpo ha se vuole sopravvivere. Nel momento in cui io ho introdotto il cibo, che è il cibo della legge e in quanto tale cibo di vita, butterò fuori contenuti consequenziali a quello che ho introdotto. Tanto mi dà tanto. Se attraverso il latte io ho imparato la legge, le mie parole non potranno essere altro che parole di legge. Saranno parole d’amore. Ricordo sempre che Feuerbach, filosofo protomarxista, veniva ricordato da noi studenti liceali solo per una sua (allora) stranissima frase che suonava così: “L’uomo è ciò che mangia”.
Allora: “Dal significato letterale si passa al significato metaforico per cui la nefès significa desiderio, aspirazione, brama; in questa accezione la nefès desidera cose che non sono propriamente commestibili come la terra (Ger., 22,27), la vanità (Sal., 24,4) o i figli (Ez., 24,25), dove comunque ricompare la struttura del desiderio e del godimento che rimanda all’idea di nefès in quanto organo del gusto”. “Da questo succinto esame di passi biblici – continua poi Galimberti – possiamo concludere che nefès non vuol dire anima, ma semplicemente vita dell’uomo, nella sua indigenza, nel suo desiderio, nella sua vulnerabilità ed eccitabilità emozionale”.
Noi sulla parola eccitazione ci siamo fermati in più di una occasione e ricordo ancora qui l’etimo che è ex-citare, (a proposito l’etimo della parola etimo significa casa, cioè da dove partono le cose vere) essere chiamati dall’altro, dal di fuori. La eccitazione non è interna, non è un prodotto interno dell’individuo che poi si rivolge all’esterno. Anzi, il contrario. Io sono eccitato quando un altro determina in me questo sentimento. Guai a chi pensa di essere eccitato perchè… oggi mi girano gli ormoni così!
Ma ritorniamo nella legge tra madre e bambino: il bambino è eccitato perchè ha capito il fuori, ha capito la funzione del fuori per raggiungere la sua soddisfazione e il suo vantaggio, ha capito che tutto ciò è incarnato dalla mamma, la mamma è la specificità del suo desiderio. Aveva perfettamente ragione Barthes.
Abbiamo visto dunque l’anima, meglio, la vita insita nella parola nefès. Riprendiamo il discorso di Galimberti. “Se nefès non rinvia all’anima ma alla vita nella sua indigenza e nell’ordine dei suoi bisogni, basàr non significa corpo (soma) come traducono i Settanta, ma carne (sarps), intesa come simbolo di caducità e di impotenza dell’uomo rispetto alla potenza (ruàh) di Dio”.
Galimberti dunque conclude insistendo sulla estrema differenza tra la onnipotenza di Dio (ruàh) e l’indigenza (nefès), la caducità (basàr) dell’uomo che solo da Dio può ottenere l’ordine della sapienza e la forma della volontà.
E concludiamo la serata annotando come la questione dell’anima vista come ruàh torni anche in un libro di Corrado Bologna dal titolo Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna 1992.
Scrive Bologna: “Si replica nel microcosmo del corpo umano l’atto musicale con cui la Voce di Colui Che E’ creò in origine, attraverso la sua espirazione umida e calda: ruàh infatti è anche ‘uno dei cinque nomi che possiede l’anima’ dicono i commenti al Genesi. Nella complessa topografia della interiorità, i meandri più intimi del corpo, le cavità umide e feconde lasciano che la voce sprizzi a fiotti, aprendo l’Io all’esterno. Come parte del corpo – ecco l’inciso che più ci interessa – la voce è attiva tanto quanto lo sguardo è passivo, in attesa di essere impresso dal calco del corpo esterno. (La voce è una parte del corpo, non è una parte della mente, il pensiero si forma in bocca, nella concomitanza della emissione della voce, e questa voce è fortemente corpo. Potremmo dire che attraverso la voce quello che è interno a noi viene fuori da solo. Noi abbiamo la fortuna di avere questo tipo di automatismo. Chi si oppone si ammala). I sensi mentali sono gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua e la pelle. La voce – prosegue Bologna – le mani, i piedi, l’ano e i genitali (come abbiamo visto nella prima serata) sono sensi dell’azione”.
GUIDO SAVIO