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GUIDO SAVIO: IL CORPO NON MENTE (PRIMA PARTE)

 

 

GUIDO SAVIO: IL CORPO NON MENTE

 

IL CORPO

 

 

Sono convinto che l’avvicinamento più umano e dunque più umile del nostro Pensiero, verso la nostra domanda, verso il nostro dramma/dubbio, percorso di vita, valigia o peso che ci si porta appresso per tutta la vita , cioè “Chi sono Io?”, debba passare per una frase di F. Nietzsche: “C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza”.

Penso che questa frase ci dia il “la”, ci offra l’autorizzazione per mettere giù il punto da cui cercherei di infilare alcuni discorsi, per riuscire, se possibile, a capire perchè è sempre e solo il Corpo che ci porta da qualche parte, da qualche parte dalla quale si sente chiamati. Come camminare, guardare, lavorare, amare, dire all’altro le nostre cose, chiedere qualcosa, offrire di converso qualcosa a chi ci chiede, etc.

 

A me sembra che il nostro Corpo (poi dirò perché lo scrivo con la lettera maiuscola) regga il desiderio nostro e anche le sue regole (che possono tuttavia venire trasgredite), sia il significato e il significante della nostra vita su questa Terra, sia il richiamo per gli altri ma anche per noi stessi. Il desiderio nostro è il propulsore, la benzina della nostra vita che solo il Corpo riesce a fare circolare.

Dico allora, fin dall’inizio, che il Corpo non si antepone o si appone a Pensiero, anzi. Non ricadiamo per carità nell’errore cartesiano della separazione tra i due.

Infatti dico qualcosa in più che riprenderò più avanti. Il nostro Corpo è lo strumento con il quale giudichiamo (atto di pensiero) l’altro, ma anche il nostro Corpo è l’oggetto che gli altri giudicano per capire per davvero chi siamo.

 

Guardare negli occhi……. Sì, giudichiamo con il corpo e del corpo dell’altro andiamo in cerca per fare approdare il nostro giudizio.

 

Ho pensato: “Il corpo non mente”, la qual cosa significa prima di tutto che il corpo non racconta frottole, essendo che il corpo dice sempre la verità anche quando vorrebbe difendersi dalla sua interna verità. I segni del nostro corpo sono sempre indicatori veritieri di come dentro stanno le cose, di quello che bolle in pentola, visto che, e lo impareremo andando avanti, il corpo è sempre in movimento, ha sempre qualcosa da cucinare. Poi ognuno di noi ha una propria “sensibilità” nel sentire le voci e anche i rumori del proprio corpo.

Conosco persone che producono angoscia da un dolore all’unghia dell’alluce. Altre che con un tumore in fase avanzata ti chiedono, di sera, a cena tra amici, di cantare una ulteriore canzone. E godono del canto.

 

Voglio dire che ognuno di noi legge questa partitura (non sempre musicale, ahimè)) in base alla propria disposizione. Vorrei ancora dire che molte persone leggono certe inezie del proprio corpo come segni mortali, altre le stesse inezie le leggono come inezie. E vivono una vita migliore.

 

I segni del corpo sono atti, gli atti che il nostro Corpo compie e con cui ci parla, e noi sappiamo che tutti gli atti hanno un valore giuridico. In parole povere, bisogna ascoltarli, bisogna prenderli sul serio altrimenti le cose non funzionano. Questa è la Jus.

 

Ciò significa semplicissimamente che se adesso ho un po’ di mal di testa è perchè sono un po’ agitato, se Tizio ha mal di pancia prima di fare l’amore significa che quell’atto costituisce per lui un certo tipo di pensiero, se a Caio tremano le mani di fronte al proprio capoufficio significa che il suo corpo dice la verità su come è la relazione tra loro due. In altre parole il mio corpo è sempre l’indicatore preciso, e non mediato, di quella che è la mia realtà interna, di quella che è la condizione con cui io mi sto mettendo in relazione con il mondo esterno.I segni del corpo “significano” e questo è il loro parlarci sano.

Una volta nato io sono “venuto al mondo”, e ciò significa che c’era un luogo che mi attendeva, una condizione già pronta per me, delle persone che mi amavano (e non come afferma Heidegger che vede nella nascita una Geworfenheit, un “essere gettati nel mondo”). Bene, questo luogo che costituisce il mio contenitore fa vivere e vibrare il mio Corpo con tutte le sue variazioni, con i suoi suoni, con calori e colori, con sbalzi e linearità. Il mio corpo sente il Mondo, il mondo scrive sul mio corpo: sta a me leggere correttamente.Questo è il senso della Storia di ognuno di noi.

Allora “Il corpo non mente” significa che nel corpo non è prevista la possibilità di dire le bugie: esse non solo hanno le gambe corte, ma addirittura non hanno gambe. Noi infatti potremmo anche leggere la medesima frase, mettendoci nel mezzo una virgola “Il corpo, non mente”, così, lapidariamente, vale il corpo e non la mente.

 

Che cosa significa tutto ciò? Che se esiste una nostra istanza che produce disagio, disordine, disturbo, malattia, mal di pancia, tremori alle mani, sudorazioni alla fronte, e chi più ne ha più ne metta, questa istanza è la mente. Il corpo, da solo, non si fa del male. E’ sempre la mente che si vuole staccare dal corpo e allora comincia ad andare per la tangente, a formulare pensieri non produttivi ma meditativi, riflessivi, rimuginativi, di quelli, insomma, che si mordono la coda.

 

La mente, per ora prendiamola così, provvisoriamente ma anche riduttivamente, come la madre dei pensieri che non portano da nessuna parte (anche se la mente non è solo questo, per fortuna) . Noi ci ammaliamo soltanto perchè facciamo troppi pensieri, di quelli che non producono ma inducono a rivolgerci verso l’interno di noi stessi anzichè verso l’esterno, pensieri che involvono i nostri muscoli anzichè dirigerli verso l’altro che sta fuori, verso la esternalità, verso il contenitore, verso il mondo che in qualche modo ci aspetta. La “mente” ha una tendenza centripeta. Il corpo ha una tendenza centrifuga. Sarà verto l’equilibrio delle due forze a dare equilibrio all’uomo. Ma è la mente che mi fa risolvere i problemi di trigonometria, che mi fa fare un progetto in cantiere, che mi permette di fare due conti della spesa, che mi fa alzare al mattino all’ora giusta (non è la sveglia!). La mente è la mente se si occupa delle cose di cui deve occuparsi: ovvero pensare. Il Corpo non pensa ma riceve e distribuisce il lavoro della mente.

 

Un signore si chiede: “Ma, in fin dei conti, chi sono io?” (domanda dei classici cento milioni!) e si risponde: “ Io sono quello che porta a passeggio il cane, quello che ha due figlie con cui giocare, quello che prepara la matriciana, quello che….” quello che fa gli atti. Nulla di più. Questo signore afferma ne più ne meno che egli è quello che fa. Che lui è il suo Corpo. Alcuni filosofi greci lo avevano detto duemila anni fa, ma questo signore legge solo il giornale!

Il Corpo sarà quello dei muscoli, della motilità che porta il mio desiderio “da… a”. Il corpo che produce lavoro, proprio nel senso del celentanesco “Chi non lavora non fa l’amore”, chi non mette in moto il proprio corpo non ha diritto alla soddisfazione (dentro e fuori le lenzuola).

Noi sappiamo infatti che il “non lavoro” sta alla base di tutte le dipendenze.

I nostri ragazzi ci fanno tanta paura quando noi non vediamo negli occhi del loro corpo la fiamma dell’entusiasmo per il lavoro.

 

 

LA DONNA

 

Qui non parlerò ovviamente del corpo medico, del corpo biologico, del corpo dei raggi X o delle scintigrafie, ma del Corpo pulsionale, del corpo della passione, del corpo del desiderio, del corpo del dolore, del corpo della ricerca dell’altro, del corpo del coraggio di fronte alla morte.

Io sono convinto che non si possa parlare di corpo se non partendo dal corpo della donna. Della Donna. Come forma originaria, primordiale, produttiva della vita.

 

La prima donna non ha un nome.Io la chiamerò Elena.  Forse sarà la donna della metafora greca intesa come produttività, fecondità, fonte della vita, la donna capiente, la donna recipiente, la donna insomma che per assolvere questa funzione deve prima essere disponibile all’altro, ad essere penetrata (realmente e metaforicamente) dall’altro e dunque fervida nel suo desiderio di relazione. L’uomo arriva sempre in ritardo.

 

Le metafore relative alla donna greca, quelle poche che vedremo (la terra, il campo, il solco, il forno per il pane, la tavoletta per la iscrizione) significano l’intendere un corpo che è fatto perchè qualcun altro ci faccia dentro o sopra qualcosa. Se il corpo non è teso a questo scopo, a quello della relazione con l’altro, come diceva Nietzsche, “meglio che marcisca”. Uomo e donna, che ben si intenda.La distinzione dei sessi qui non c’entra.

 

A fronte di questo corpo, del corpo di questa donna senza nome della metafora dei presocratici greci, pongo, ma forse sarebbe meglio dire oppongo, un altra donna che un nome ce l’ha: al secolo Caterina Benincasa, meglio conosciuta come Santa Caterina da Siena la quale fece del proprio corpo l’opposto di quello che un corpo che vive con gli altri dovrebbe fare e farsi fare. Caterina fece del proprio corpo uno scrigno, uno scrigno autosufficiente, un luogo bastante a se stesso, nel quale nessuno e nulla (nemmeno il cibo) doveva entrare.

La negazione del corpo è che qualcosa dal di fuori, nefasto, cattivo, ammalato, etc. possa mai entrare: è l’ideologia di tanti integralismi alimentari dei nostri tempi sui quali non perdo tempo a dire.

 

Se Caterina, santa anoressica, affermava la propria autosufficienza verso (versus) il mondo esterno, la donna greca è la donna della feconda insufficienza, in quanto per svolgere la funzione prolifica che le compete, deve essere completata nella propria insufficienza dall’altro, deve completarsi nella relazione, e solo allora sarà prolifica, felice (in quanto l’etimo della parola felicità significa proprio fecondità).

 

La donna greca è sanamente “insufficiente” perchè ha sempre bisogno (e anche desiderio) di altro che ne completi l’insufficienza attraverso un lavoro, una attività, proprio nel senso che stiamo dando al nostro discorso: è l’altro a mettere in moto il nostro corpo, a darci una mossa per andare a parare da qualche parte, meglio se verso il piacere e la soddisfazione. Si lavora sempre in due. E spesso di sesso diverso. La diversità tra Uomo e Donna non esiste. Qui, in queste cose che dico, non esiste.

 

Caterina da Siena invece vive una vita contro il numero “due”: ovvero l’alterità, la sessualità, in diverso, il desiderio e si assesta sulle condizioni dettate della propria “mente”), così come ce la propone Rudolf Bell nel suo libro La santa anoressia, Laterza, Bari 1980, vita opposta alla relazione come quella di tante sante anoressiche del medioevo italiano che popolano il libro, vita apparentemente donata (in favore di poveri, bisognosi, malati, disgraziati, etc.) ma in realtà permeata solo del proprio essere, della propria presenza, dell’ascolto di sè, del pensiero eccessivo non verso il corpo del piacere e della soddisfazione (la presenza dell’altro) ma verso il corpo del dolore (la presenza solo di sé).

 

E quimi sembrano doverose un paio di parole sulla anoressia. Non è questa la sede per entrare nella eziologia e nella clinica della anoressia, ma per quanto pertiene il nostro riferimento a Caterina vorrei dire che il corpo di cui qui si parla venisse inteso come il corpo dei buchi: occhi, orecchie, bocca, sfinteri, organi sessuali, pori della pelle.

Caterina tappò tutti i buchi del suo corpo, tappò le possibilità che l’esterno entrasse nel suo corpo e che l’interno del suo corpo uscisse all’esterno.

Il corpo sano invece è il corpo che sente il mondo (pensiamo al bambino piccolo) attraverso i buchi e che risente del mondo sempre attraverso gli stessi buchi o nel senso del piacere o nel senso del dolore. Ovvio che tutto ciò avviene se il corpo (non la mente) tiene aperti tutti i buchi. La anoressia è il chiudere tutti i buchi, non solo la bocca per non mangiare.

 

Il chiudere tutti i buchi poi da atto fisico si trasforma in atto ideologico per cui la anoressica si professa autosufficiente, non vuole avere bisogno di nessuno e non vuole soprattutto avere nessun bisogno. La anoressica professa questa ideologia a partire dal primo buco con cui ogni essere vivente (non solo umano) che ha calcato questa terra, si mette in contatto con il mondo esterno e con le sue leggi: la bocca.

Il “discorso” anoressico ha solo in parte a che fare con l’arrivare a trentadue chili e poi morire, ma si fissa sostanzialmente sulla attestazione, sulla proclamazione di una ideologia intransigente che sbandiera la convinzione che il proprio corpo è autosufficiente: “non ho neanche bisogno di mangiare”. E nella bandiera ideologica della anoressica sta scritta la fatidica (e funesta) frase: “Ho sempre ragione io”. Santa Caterina arriverà, dopo lungo allenamento, a non toccare assolutamente cibo. Convinta di avere ragione in quel suo comportamento.

 

 

Scrive Umberto Galimberti nel suo Il corpo : “L’uomo non muore per il fatto di essere ammalato, ma gli capita di ammalarsi perchè fondamentalmente deve morire “.

Un corpo che soffre rimanda direttamente ad un corpo che muore, anche se la morte non è sempre la reale e oggettiva conseguenza del dolore. Tuttavia noi, dentro noi stessi, accoppiamo i due pensieri dolore/morte.

Di fronte al dolore e alla morte l’uomo, da sempre si è posto il quesito: perchè? Ovvero, come è possibile giustificare il dolore e la morte? Dove giustificare ha il valore di rendere giusto?

 

Il perchè del dolore e della morte c’è, c’è il perchè oggettivo e biologico del soffrire e del morire, c’è la causa, ma la causa non sempre coincide con la giustificazione. A noi il discorso della causalità non interessa ma interessa quello della giustificazione, ovvero esiste una logica umana che soddisfi la domanda di giustizia che l’uomo richiede davanti al dolore e alla morte? Io la risposta non ce l’ho.

 

E’ qui dove il corpo non mente, in quanto io posso elucubrare una vita sul desiderio che mi muove verso un altro, ma se prima non muovo il dito, la mano e il resto del corpo verso di lui, il mio desiderio resterà pensiero, vuotezza, lettera morta. Ciò significa che se io non faccio, tutto quello che penso è falso in merito alla mia vera natura. Caterina era una iperattiva, una che adesso a scuola diagnosticherebbero come ADHD. Ma in realtà non aveva rapporti reali.

 

Chi sono allora io? (si chiedeva quel signore) :”Io” sono le cose che fa il mio corpo che si muove attraverso la propria muscolatura verso l’altro dal quale sono attratto, come diceva il signore di prima che legge solo il giornale.

 

Lacan affermava che noi non dobbiamo illuderci di essere ciò che pensa il nostro pensiero, noi siamo il nostro fare come l’altro lo coglie. Per noi è facile vedere l’altro e vederne la pasta (e la peste) nelle sue azioni, nei suoi fatti e non nelle sue parole. La cosa è però più difficile quando noi dobbiamo capire dove stiamo di casa noi. Ci è più facile pensarci piuttosto che accettare di essere le cose, i fatti che combiniamo e non già le parole che diciamo o i pensieri che su di noi abbiamo.

 

 

LAVORO

 

 

Così questo signore “è”  la matriciana, il portare fuori il cane, l’andare e fare un giro in bicicletta: è il corpo che si muove verso la sua soddisfazione, la quale quasi avviene senza che lui ci… pensasse sopra più di tanto. Il corpo è ovviamente mosso da un pensiero, ma anche lo muove.

 

Il corpo è tutto l’organo del fare. Qui dentro la parola santa che abbiamo sempre predicato è lavoro.

 

Allora il corpo è sano nel momento in cui lavora, suda, spende (e riproduce) energia. Lavoro è avere davanti a me la lampadina, lavoro è avere sempre davanti a me qualcosa o qualcuno che mi chiama, che mi eccita (che poi vuol dire la stessa cosa). Lavorare vuol dire starci sempre dietro con il Corpo. Vuol dire andare ad aggiustare il rubinetto che perde, vuol dire risolvere un problema, riparare l’interruttore della corrente, tagliare l’erba in giardino, piantare fiori, lavare i piatti, ridere con gli amici.

 

Esisteva nella notte dei tempi un buon cantante  che rispondeva al nome di Adriano Celentano, poi trasformatosi in pessimo e presuntuoso predicatore. Ma sempre nella notte dei tempi costui cantava (ancora): “Chi non lavora non fa l’amore”. Che cosa significava questo cinquanta anni fa quando uscì la canzone e anche adesso quando noi la ricantiamo alla fine di una cena (appunto) tra amici?

 

Significa che colui il quale vive il rapporto con l’altro all’insegna del “dammi senza lavorare, dammi senza meritarmelo”, dammi come si va a fare la spesa al supermercato, non ha diritto di essere ricambiato dall’altro nel senso dell’amore. L’altro ha tutte le ragioni a fare sciopero, come professava Claudia Mori, proprio perchè non vedeva lavoro da parte dell’Adriano.

 

La buona Claudia Mori diceva allora all’ altrettanto buono (allora!) Adriano: “O ti dai da fare oppure io non ti dò la soddisfazione di riconoscerti”.

Il lavoro è il gusto che io ho per andare verso una conclusione, il muovermi da un principio ad una fine tenendo sempre vivo un fine.

Il lavoro è ripetizione, sostanza, tempo e tutto il resto, per cui l’altro sa conoscerci in quel posto lì e non in altri. Il posto non è il posto del lavoro ma il pensiero di chi ha voglia di lavorare. Lì gli amici ci conoscono e noi conosciamo l’amore.

Il gusto del lavoro, il gusto di lavorare è un affare mio, è un qualche cosa che mi sento in tasca io, non ha a che fare con i risultati, con che cosa io poi alla fin fine effettivamente produco. Il gusto per il lavoro è l’iter, la strada, non la meta. Il successo del lavoro non è il risultato, il capitale accumulato, ma è il tempo, il tempo che passa e sul quale io ci provo gusto. Lavorare in amore è lasciare che il corpo vada per la sua strada senza che noi ci opponiamo.

 

Visto che la madre di tutte le psicopatologie è quella che Petrarca nel suo Secretum chiamava accidia: ovvero non sapere dare un senso alla propria vita. Perché il pensiero di lavoro questo è.

 

Il Corpo è il corpo del tempo del lavoro, è la persona che amo, l’amico, il figlio che riconoscono che io mi sono dato da fare per loro, a volte anche solo essendoci per loro.

Il tossicodipendente porta nella sua legge quasi cromosomica la non voglia di lavorare, espressa nella asserzione ideologica: “L’altro mi deve dare… perchè mi spetta”. La dipendenza, tutte le forme di dipendenza hanno a che fare con la scarsa o assente voglia di lavorare, soprattutto nella accezione che se io non ho voglia di lavorare il responsabile è sempre qualcun altro: mio padre, mia madre, il destino, lo Stato, il mio DNA, la mia maestra, ma in ogni caso non sono mai Io il responsabile.

 

Avete mai vissuto l’esperienza di essere ripresi, l’esperienza del vostro corpo ripreso da una telecamera o da un meno recente super-otto per poi rivedervi nello schermo? Qual è stata la vostra prima impressione di fronte a voi stessi sorridenti, o correnti, o inciampanti, o bacianti….? Senza dubbio quella di non riconoscervi. Che cosa significa questo? Significa che noi del nostro corpo non possiamo avere una rappresentazione completa. Io in questo momento mi penso qui seduto a scrivere, a dire quel poco che so dire. Mi vedo anche partei del mio corpo, le mani, le braccia, il naso, che ha una certa capacità di farsi vedere! Se guardo in basso anche le gambe, ma non avrò mai una rappresentazione completa del mio corpo, non mi vedrò mai del tutto.

 

Il mio corpo, anche per me, è altro da me. Il mio corpo è una alterità per me stesso che pure pretendo di saperlo, conoscerlo, vederlo, circoscriverlo, programmarlo, e chi più ne ha più ne metta. Vuol dire che il mio corpo non sono io? Esiste una diversità tra la parola io e la parola corpo ?

 

La stessa espressione o comandamento dell’etica prima che della religione “Rispetta il tuo corpo” altro non significa che “Stai bene attento che devi rispettare qualche cosa d’altro da te”. Il comandamento non dice “Rispetta te stesso”. Il corpo è altro significa che il corpo non è di mio dominio, non è di mia completa visione, io non sono padrone del mio corpo. Il mio corpo è altro, è la mia storia che è avvenuta, il mio corpo è le sue leggi naturali, il mio corpo è partenza come nascita e fine come morte. Corpo poi come limite, nel senso che la forza espansiva del mio desiderio ha un suo limite interno; non c’è solo il limite imposto dall’esterno, dal mondo, dagli ostacoli, dalla impossibilità… Già nella forza che mi costituisce è insito il limite.

 

Tutte queste sono istanze che io non ho in pugno, non appartengono a me, non le posso mica controllare come voglio, ma ad esse mi devo affidare, come mi devo affidare al mio corpo, al fatto che esso va avanti anche se io non lo controllo, anzi, va avanti meglio e più spedito se io più di tanto non lo penso.

 

L’uomo accorgendosi che il proprio corpo è altro da se stesso ha cominciato ad avere dimestichezza con il pensiero di alterità, probabilmente arrivando (ma non voglio fare della antropologia spicciola) alla formulazione della presenza dell’Altro con la A maiuscola, ovvero la Divinità.

 

Ci si fida poi in realtà meno di se stessi che dell’altro. A partire da questa idea l’uomo sano, fidandosi del proprio corpo inteso come altro da se stesso, lasciandolo andare per la propria strada e per le proprie leggi, ha scoperto il modo per garantirsi la propria salute. Corpo non mente. Corpo non pensieri. Corpo e non preoccupazione su di esso: questi gli enunciati della salute, psichica ma non solo.

 

Il nostro corpo, abbiamo visto prima, rappresenta la nostra storia. E in che modo allora è per noi garanzia di verità? Proprio perchè sulla storia, su tutte le storie non c’è più niente da sindacare. Essa va accettata nel buono e nel tristo che ha prodotto. Noi siamo la nostra storia ma non la possiamo riscrivere, la dobbiamo riconoscere come nostra legge e come nostra verità. Il bugiardo non è chi dice le bugie ma chi cerca di cambiare la propria storia passata, chi cerca di spacciare pane per polenta, di rigirarsi la propria storia a modo suo, a proprio uso e consumo. La storia non si fa con i se e con i ma.

Bene. Termino qui questa lunga introduzione e vado subito incontro ai due corpi promessi, che nel frattempo spero non si siano risentiti della lunga attesa.

 

 

ELENA

 

 

Primo corpo. Si tratta del corpo della rappresentazione della donna nella Grecia antica: potremmo, con un nostro più o meno lecito arbitrio, chiamare Elena questa donna.

Ho scelto Elena perchè è il contrario di Caterina. Il corpo di Elena, in tutte le espressioni metaforiche che in seguito vedremo nel dettaglio, ma tutte più o meno riferite alla terra della produzione dei frutti, è il corpo che proprio per la propria insufficienza, perchè gli manca qualche cosa (come alla terra mancano i semi per dare i frutti), diviene prolifico. E’ il corpo forte perchè gli manca qualcosa, gli manca l’altro che lo completi.

 

Ricordo qui per inciso che la parola felicità deriva dalla radice indoeuropea fe, da cui il latino felix che, al pari di ferax, si attribuisce alla terra quando è ricca di messi, generosa di frutti. Dalla stessa radice deriva il termine femina, direttamente connesso a fetus, con evidente riferimento alla generatività e alla fecondità.

 

La Terra chiama i semi come il Corpo chiama il desiderio dell’altro, che qualcuno su di esso compia una azione. Affinchè noi siamo mossi verso qualcuno, affinchè il nostro desiderio vada in quella direzione, è necessario che a quel corpo manchi qualcosa che noi abbiamo e che ad esso vogliamo dare. Questo è l’amore. Nessuno di noi si sognerebbe mai di andare verso qualcuno che si dimostra già “pieno di se stesso”. Noi siamo, per fortuna, attratti dalla mancanza.

 

Il corpo di Caterina da Siena invece, proprio perchè si presenta bastante a se stesso, autosufficiente… non lo vuole nessuno. Vedremo come il corpo di Caterina sarà un corpo che non ha nulla dell’essere prolifico, e proprio per questo, “farà paura” all’uomo. L’uomo ha paura del troppo pieno, del luogo dove lui… non ha niente da fare perchè l’altro ha già fatto tutto (o ha la presunzione di avere fatto), dove non c’è spazio, fisico e metaforico, per il proprio inserimento, dove non esiste spazio nè per la penetrazione nè per la comunione.

 

Elena dunque. E’ il Corpo della prolificità della coltura agricola, e proprio per questo possiamo toccare con mano fin da subito che cosa intendiamo per prolificità: essa non è la conseguenza che può avvenire dopo nove mesi dal rapporto sessuale, la prolificità è il rapporto sessuale stesso. Essere prolifici significa essere disposti, in questo senso che un buco del proprio corpo venga riempito dal desiderio dell’altro. La prolificità è la ricchezza di quel soggetto che è disponibile a lavorare con l’altro, non è solo il risultato, il frutto finale, la figliolanza..

Due soggetti che ci stanno a stare in unione reciproca (e dunque comunione di bene, di ricchezza, di soddisfazione, di piacere, etc.) hanno due bocche aperte, due occhi aperti, due orecchie aperte e tutto il resto che sappiamo: sono cioè prolofici in questo modo, con le aperture reciproche dei buchi del proprio corpo. Ecco, questo è il corpo di Elena.

 

Il bellissimo libro di Page du Bois, Il corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica, Laterza, Bari 1990, esamina cinque rappresentazioni greche del corpo femminile: il campo, il solco, il forno, la pietra, la tavoletta per le iscrizioni. Questo corpo è costantemente visto, come ho già avuto modo di fare notare, come corpo della ricezione per poi essere corpo della produzione.

 

Corpo della Donna e corpo della Terra dunque, ma non solo della terra come sede della materialità ma anche produttrice di cultura attraverso la propria bellezza. Il corpo bello produce cultura nel momento in cui supera la propria naturalità.

 

 

Quando eravamo assieme

tu eri come dea per lei

e il suo cantare

era la sua gioia più grande.

Ora, tra le donne di Lidia,

brilla di bellezza, come,

caduto il sole,

splende la luna dalle dita di rosa

tutte le stelle vincendo;

e la sua luce posa

sul salso mare

e sopra le campagne fiorite,

e la fresca rugiada discende,

e si aprono le rose

e i teneri timi

e il melitòto in fiore.

E sempre, lontana, la cara

Attide rammentando

di desiderio si strugge

e tristezza le pesa sul cuore.

 

 

Secondo il mio punto di vista questa lirica di Saffo celebra il corpo femminile come una Terra intatta, un terreno che produce spontaneamente non il grano, ma i fiori, la bellezza. La terra estetizza (rose, timo, melitòto in fiore) il modello riproduttivo che pure per natura incarna, quella di dare la vita. Il bello diventa strumento di trasmissione della vita. La terra produce il grano ma soprattutto i fiori: è la bellezza della donna come campo della vita che attraverso la sua condizione estetizzata riesce a produrre i frutti. La donna bella produce ricchezza.

 

Ma il corpo della donna, la sua coltivazione, il suo renderlo prolifico, non significa buttare il seme “come la và la và”. Questo corpo significa progetto, pensiero di qualcuno per qualcuno. Coltivazione significa desiderio che dal rapporto vengano certi frutti, il fine di due che si dichiarano e si danno disponibili e dunque diventano prolifici.

 

La seconda metafora offerta dalla du Bois è il solco: la vita, come storia, è una continua semina, cioè una continua relazione. Il corpo della donna non è proprietà dell’uomo, ma è lo spazio dove lui lavora col suo desiderio, una superficie che egli rompe, apre e coltiva, il terreno dove si producono gli eredi, come nella leggenda di Tebe in cui la semina dei denti del drago è all’origine degli Sparti, gli uomini seminati da cui i cittadini di Tebe affermano di discendere.

 

La terza metafora è il forno, e già qui compare nel pensiero Greco un riferimento al pericolo, pericolo che vedremo assolutizzato in Caterina: il corpo femminile è a volte percepito come pericolosamente autosufficiente, cosa che rende possibile la autonomia femminile. Il corpo della donna diventa il corpo del potere, il potere stesso senza il quale nulla può avvenire. Il forno è fuoco e senza di esso il pane “non avviene”.

 

La quarta metafora è la pietra, che nel nostro discorso non interessa più di tanto. Molto più interessante è invece la quinta metafora, la tavoletta per la iscrizione. La donna è il deltos, il triangolo pubico (simile ad un delta di fiume), che deve essere seminato/scritto; è la tavoletta ripiegata su se stessa, il papiro che deve essere disteso per essere decifrato. La metafora della scrittura è più ambigua di quella della aratura. L’aratro traccia il solco, il suo segno, e successivamente il seminatore getta il seme da cui germoglierà la nuova vita. Lo stilo traccia il suo segno e i segni stessi sono semi. I segni sulla tavoletta iscrivono il possesso e nello stesso tempo generano nuovi semi.

 

Mi vengono in mente a proposito un paio di riferimenti. Il primo è un bellissimo film di Peter Greenaway dal titolo I racconti del cuscino, in cui una fanciulla viene cresciuta dal proprio padre con il piacere della scrittura sul proprio corpo, e diventerà una donna poi che trarrà il proprio piacere dalle iscrizioni che gli uomini sapranno fare sopra alla sua pelle.

 

Il secondo riferimento è il molto più scolastico Indovinello dell’inizio del IX secolo, individuato dagli storici della lingua come uno dei primi reperti della lingua italiana nella sua transizione dal latino parlato:

 

Se pareba boves,

Alba pratalia araba,

Albo versorio teneba,

Negro semen seminaba.

 

Dalla facile traduzione: Spingeva innanzi i buoi (le dita), arava un bianco prato (la carta), teneva un bianco aratro (la penna), seminava un nero seme (l’inchiostro).

Ecco, queste metafore le ho citate (anche se mi accorgo in maniera assai breve e incompleta) per ribadire il concetto di fondo: il corpo della donna, per essere prolifico (nella accezione di disponibilità che abbiamo già visto) deve essere praticabile, i suoi buchi devono essere aperti all’altro in modo che un lavoro vi possa essere svolto.

 

La donna Greca, la nostra Elena, senza dubbio amerà il proprio corpo, in quanto essere prolifici significa fare di tutto perchè l’altro si prenda cura del nostro corpo. Amare il proprio corpo significa avere un pensiero: “qualcuno mi ama” a partire dal primo altro che ognuno di noi incontra nella vita, il proprio padre. Il padre è il mio primo qualcuno, è il mio primo rappresentante del mondo (non lo è altrettanto la madre, in quanto è meno… qualcuno del padre!). Significa che io sono il figlio (frutto) del desiderio di qualcuno, nella fattispecie dei miei genitori e… scusate, non è poco.

 

“Qualcuno mi ama” è il pensiero della prolificità, è il pensiero che qualcuno mi è favorevole e vuole che io sia soddisfatto, anche nell’entrare al bar a prendere il caffè. Proprio così, il pensiero che qualcuno è contento del fatto che io provi piacere nel bere un buon caffè. Solo allora io sarò tranquillo al bar! (Lo dico per tutte quelle persone che si scottano la lingua per bere in fretta il caffè ed uscire, sentendosi… “osservati” quando hanno la tazzina in mano).

 

Amare il proprio corpo significa amarne la salvezza, la salute, che viene dalla relazione e dall’affidamento all’altro, proprio come prega ed esulta il Salmo 90:

 

 

Egli ti libererà dal laccio del cacciatore,

dalla peste che distrugge.

Ti coprirà con le sue penne

sotto le sue ali troverai rifugio.

La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza;

non temerai i terrori della notte,

nè la freccia che vola di giorno,

la peste che vaga nelle tenebre,

lo sterminio che devasta a mezzogiorno.

 

 

Ricordo di avere letto da qualche parte che foglietti che riportavano questo salmo sono stati trovati dai soldati russi entrati ad Auschwitz tanto addosso a cadaveri degli ebrei, quanto nelle giacche delle SS che tentavano di fuggire.

 

Il corpo della donna che ama il proprio corpo, che poi è il corpo che noi tutti amiamo (dico di quelli che il proprio corpo lo amano) è inteso come ambito, luogo di un accadimento, di un divenire (divenire che non avverrà in Santa Caterina). Qui l’insufficienza prolifica di Elena nella sua multiforme posizione di essere mancante, reso pieno, di volta in volta dal desiderio dell’altro che ha preso forma di aratro, di seme, di stilo, etc., in altre parole di ciò che le manca. Il desiderio è sempre desiderio dell’altro. Elena è recipiente.

 

 

 

CATERINA E LA ANORESSIA

 

 

Caterina ancora.

 

Tutto quello che dirò su Caterina, della sua vita, della sua biografia, è tratto dal libro già citato di Rudolph Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal medioevo ad oggi, ed è lo stesso autore a fornire l’occasione di tale preambolo quando afferma: “I meriti che fecero di Caterina Benincasa la famosa Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia assieme a San Francesco d’Assisi, e dottore della Chiesa, con lo stesso rango di Tommaso

d’Aquino – guaritrice miracolosa degli appestati, prodigio di carità, instancabile esortatrice degli uomini di Chiesa per il ritorno ai veri precetti cristiani, perseverante pellegrina di pace in viaggio tra Avignone e Pisa, Lucca e Firenze, autrice del Dialogo della Divina Provvidenza – tutto ciò non si colloca naturalmente in primo piano nella prospettiva di questo studio”.

 

Come a dire che la eventuale psicopatologia di Caterina, psicopatologia anoressica, non tocca minimamente il valore della sua santità.

 

Caterina morirà a soli 33 anni (1347-1380) praticamente in seguito ai digiuni, alle privazioni e ai sacrifici ai quali si era sottopposta per tutta la vita, distrutta e consumata dal suo rifiuto quasi assoluto di ogni forma di alimentazione.

A noi interessa il suo corpo.

 

Il corpo di Caterina è il corpo che si oppone al corpo di Elena (il corpo della mancanza prolifica) in quanto non accetta la propria mancanza che avrebbe dovuto essere riempita, come abbiamo visto in precedenza, dal primo altro, dalla prima esternità da cui l’uomo deve sanamente dipendere: il cibo. Caterina vuole essere autosufficiente a partire dalla non ammissione del primo bisogno di esterno che il corpo ha, quello del cibo. Caterina (nel franco linguaggio che ci caratterizza) non tiene aperto il buco della bocca. Nel corso della sua vita si farà mentore e propagandatrice della propria autosufficienza. Autosufficienza mortifera in quanto non riconobbe la funzionalità e la vitalità dei buchi del proprio corpo.

 

Per entrare meglio nella psicologia di Caterina offro qui di seguito un paio di frasi esemplificative di quello che è l’impianto teorico della anoressica di quella che viene definita la sua ideologia in quanto la anoressica è sempre una fine pensatrice. La anoressica parte dal cibo, ma quello che in realtà vuole negare è il bisogno dell’altro, il rapporto con l’altro, e gioca su questo pericolosissimo versante.

 

Prima frase programmatica della anoressica: “Imposto il mio corpo in modo che non si faccia mai penetrare dall’altro, anche dal primo altro della mia vita che mi concede la vita, cioè il cibo”.

Seconda frase, che è la evoluzione della precedente, coinvolge il rapporto con l’altro reale, e mette in mostra i denti, ovvero tutto l’apparato aggressivo e negativo verso l’altro di cui l’anoressica è capace: “Faccio in modo che se il tuo stare con me fosse il mangiare, allora tu potresti morire di fame”. Proprio del tipo “Muoia Sansone e tutti i Filistei!”.

 

Il povero Raimondo da Capua, confessore di Caterina e autore della Vita (la biografia della Santa), era un un domenicano che qualcuno le “aveva messo addosso” per controllarla, ma anche per aiutarla nelle sue problematiche, visto che la Santa aveva fin da giovane… fatto una certa carriera ed era molto conosciuta nel mondo.

 

Il sempre povero Raimondo si comportò con Caterina più o meno come Freud si comportava con i suoi pazienti ed egli annotò, giorno per giorno con cura tutto ciò che osservava e udiva da Caterina nel corso dei loro lunghi colloqui.

 

In pratica come se Raimondo avesse in bocca un continuo e supplichevole invito verso Caterina che più o meno (vado libero con la mia immaginazione) doveva suonare così: “Mangia! (anche per la gente che vede)!”, mentre a Caterina quello che interessava di più era essere vista non mangiare.

 

Caterina voleva tutto per sè, voleva comprendere e stringeva forte a sè tutto il suo mondo, anche l’esterno, anche l’altro, finanche il suo amato sposo Gesù Cristo. Arriva infatti a scrivere in una lettera intorno al 1373-74: “Ma io mi rivolgo poi e apogiomi all’alboro della santissima croce di Cristo crocefisso, e ine mi voglio conficare; e non dubito che, s’io starò confitta e chiavellata con lui per amore, e con profonda umiltà, che le dimonia non potranno contra me, non per mia virtù ma per virtù di Cristo crocefisso”.

 

Tutti sapevano che non mangiava quasi nulla e l’accusa per lei purtroppo era quella di “possessione demoniaca”. La sua astinenza andava molto più in là dei severi e rituali digiuni ai quali si sottoponevano i più santi uomini e donne del suo tempo. Un solo boccone ingerito le procurava vomito. Avvertita che andando avanti con queste abitudini alimentari avrebbe rischiato di morire, Caterina rispondeva che mangiando si sarebbe ugualmente uccisa e perciò avrebbe potuto scegliere di morire di fame e nel frattempo di comportarsi come credeva.

Da giovane Caterina si era sottoposta a digiuni rigorosi ma all’epoca della sua conversione alla santità totale, ancora prima dei sedici anni, ridusse la sua dieta a pane, vegetali crudi ed acqua. Circa cinque anni dopo, in seguito ad una visione di Cristo dopo la morte del padre, perse l’appetito e non mangiò più pane. Sui venticinque anni, si legge nella sua Vitanon mangiava praticamente nulla”.

 

Un giorno, per fare scomparire ogni residuo desiderio di cibo, mentre curava le piaghe del petto in cancrena di una donna, Caterina sentì disgusto per l’orribile odore della suppurazione. Allora, decisa a superare ogni sensazione corporea, raccolse il pus con un cucchiaio e lo bevve. Quella notte ebbe la visione di Gesù che la invitava a bere il sangue che sgorgava dal suo costato ferito e da quel momento “il suo stomaco non ebbe più bisogno di cibo nè potè più digerire”.

 

Il corpo di Caterina, quasi in una corsa all’impazzata, diventa un corpo spiritualizzato e, in quanto tale, ucciso. La spiritualizzazione forzata ha comportato la chiusura dei buchi vitali del corpo, a partire dalla bocca, intendendo che per mangiare bisogna voler mangiare, per vedere bisogna voler vedere, per sentire bisogna voler sentire. Caterina mette in mostra una volontà centripeta che la richiama continuamente verso se stessa, verso l’interno del proprio corpo.

 

In breve Caterina, per apparente paradosso, senza alimento, divenne iperattiva. Traeva nutrimento soltanto dall’ostia, coincidenza che non sfuggiva al suo acuto confessore e biografo. Un giorno Raimondo chiese a Caterina se, quando non riceveva la comunione, avesse più appetito. La sua risposta suggerisce una concentrazione sull’ostia che si ritrova praticamente in tutte le sante anoressiche, e che rivela uno sforzo continuo di sopperire bisogni corporei in realtà non del tutto sopiti: “ Quando non posso ricevere il Sacramento, – rispose Caterina – basta a saziarmi che gli sia vicino e che lo veda; anzi, anche vedere un sacerdote che ha toccato il Sacramento mi consola tanto, che perdo ogni memoria di cibo”.

 

La ideologia di Caterina è quella dell’Assoluto, del Tutto, della incapacità al compromesso. Caterina non pratica quella che la cultura greca aveva posto come asse portante di tutta la morale, ovvero la mesòtes, il “giusto mezzo”, la “misura”. Caterina non prega ma esige. Quando Lapa, la madre, è gravemente malata, Caterina si rivolge direttamente a Dio proponendogli una specie di scambio, “io ti dò il mio sacificio, tu mi restituisci mia madre sana”, nel senso hoc volo et nunquam recedam hinc nisi reddas eam mihi, ovvero che Dio mantenga fede al patto e porti a fine la sua promessa, che non mi defraudi!

 

Da simili premesse e concause che potremmo definire caratteriali, il corpo di Caterina diviene il corpo delle esagerazioni, della insopportabilità: vestiva soltanto abiti di lana grezza, ed invece di usare il cilicio di stoffa, la cui sporcizia la offendeva, legava ai fianchi una catena di ferro talmente stretta che provocava ferite alla pelle. Per tre anni si impose volontariamente il voto di completo silenzio, ridusse il periodo di sonno fino a trenta minuti per notte, poi ogni due giorni, sdraiata su di una asse di legno. Si flagellava tre volte al giorno con una catena di ferro: una volta per i suoi peccati, poi per i vivi e poi per i morti; ogni battitura durava da un’ora ad un’ora e mezza e il sangue scorreva dalle spalle ai piedi.

 

In cambio dell’immediato posto in cielo per il padre avrebbe preso su di sè il peso della giusta punizione di lui in purgatorio, lei, direttamente su questa terra. Dio lo garantì e alla morte di Giacomo nell’agosto del 1368, Caterina ebbe la consolazione della visione del padre tra gli angeli celesti ed ebbe improvvisamente un acuto dolore al fianco che non la abbandonò fino al giorno della sua morte nel 1380. I suoi ultimi giorni furono travagliati da atroci dolori, tormenti diabolici, dubbi e timori per il futuro della Chiesa.

Come avrebbe mai potuto, ci chiediamo qui noi, il povero corpo di Caterina diventare un corpo prolifico? o come avrebbe mai potuto diventare un corpo della significazione di se stesso? come avrebbe potuto diventare il corpo del desiderio dell’altro se a malapena raggiungeva i trenta chili?

 

Caterina, anche in vita, fu accusata di presunzione e di sfruttare la propria condizione.

 

Noi potremmo dire adesso che nel caso suo la frase buona sarebbe stata: “Parla come mangi”, vivi con la naturalezza dell’alimentarti, ma il suo alimentarsi, di cibo e anche di altro, aveva perduto ogni naturalezza, e il suo parlare voleva diventare il parlare di un puro spirito.

 

Come potrà il corpo di Caterina arrivare ad essere corpo del muscolo che si muove verso qualcun altro quando pesava trenta chili? Nessuna risposta, purtroppo, a questa domanda.

 

Ho usato questi due esempi tratti dalla letteratura e dalla storia per porre le due possibili condizioni di esistenza di Corpo, del corpo di tutti noi: il corpo di Elena è il corpo che sa passare dalla condizione della naturalità alla condizione dell’estetica, alla condizione della cultura proprio perchè si pone come prolifico, cioè disponibile all’altro a partire dal riconoscimento di una sua insita e naturale mancanza di fondo. Come se Elena appunto avesse la propria forza nel fatto di mancare in qualche cosa, comportando questo la chiamata, la eccitazione dell’altro a riempire la mancanza.

 

Il corpo di Santa Caterina è invece un corpo da lei stessa sacralizzato, posto su di un altare proprio perchè non venisse toccato da nessuno di reale, di vero, da nessun altro. Il corpo di Caterina è pietrificato perchè non va verso nessuno che possa nutrire un desiderio qualsiasi verso di esso.

E lasciamo con questo Elena e Caterina.

DOLORE E DIO

 

L’ultimo punto  riguarda il corpo che soffre, il corpo immerso, o almeno toccato, vivente nel dolore. Io ritengo personalmente che non si possa parlare di dolore se non partendo da una domanda: per quale motivo esiste tanta sofferenza nel mondo? Quale è la sua giustificazione?

 

Riassumo in modo lapidario il mio pensiero in merito alla giustificabilità del dolore: non esiste. Nessuna giustificazione rende giustizia all’uomo che soffre. E l’uomo deve sfuggire al dolore il più possibile: meno si soffre e meglio si sta.

 

Tuttavia la realtà che noi viviamo, la malignità della realtà del nostro passato come dei giorni nostri ci pone necessariamente, noi moderni, di fronte alla domanda che è stata di S. Agostino: “Sive deus, unde malum?”, Se Dio esiste, da dove proviene il male (il male è dolore, non una astrazione metafisica), che cosa fa sì che un corpo deva soffrire tanto?

 

Tuttavia immaginatevi voi un mondo senza dolore. Potrebbe esistere? Un mondo tale potrebbe anche esistere, ma su quello che noi non conosciamo facciamo fatica a fare il “pensiero di…”.

Un mondo senza dolore è estremamente difficile da immaginare anche perchè dovremmo immaginare un mondo senza morte. Va da sè che noi potremmo anche avere strumenti rappresentativi di un mondo senza dolore, lo potremmo anche ipostatizzare, ma sbatteremmo sempre il naso contro la realtà ultima, cioè la morte.

Non ci resta allora, anche se amaramente, che dare per scontato che il dolore è inevitabile, però, e questa è la storia seria del pensiero morale, spetta all’uomo capire il perchè del dolore (per poi arrendersi magari alla fine al fatto che tanto perchè, inteso come giustificazione, non esiste).

 

Se il mondo fosse perfetto (senza dolore), se Dio fosse perfetto (senza dolore) l’uomo non avrebbe nessuna possibilità di comunicazione con Dio nè Dio avrebbe nessuna possibilità di comunicazione con l’uomo. Non si comunica con il perfetto, ma si comunica alla pari, da imperfetto a imperfetto (e viceversa). Ciò significa che nel momento in cui Dio ha voluto comunicare con gli uomini ha dovuto diventare imperfetto, ha dovuto introdurre la categoria del Caso e della Necessità. La scelta del Figlio, la carnalizzazione del Dio è la strada che Dio ha scelto per comunicare con l’uomo. Ha cioè introdotto il dolore nel mondo. Ma anche l’amore.

 

Nietzsche afferma al contrario che “Dio è morto” perchè è stato troppo umanizzato perdendo il proprio valore assoluto, dunque la propria “deità”: per questo noi mortali saremmo ancora alla ricerca del Dio morto, del Dio perduto. Ma arrestiamoci qui anche se ci sarebbero altri passaggi.

 

Come può allora l’uomo comunicare con Dio in un mondo che non comprende il dolore e come può l’uomo comunicare con Dio all’interno di un mondo che il dolore lo prevede, eccome. A mio modo di vedere allora il fatto che Dio accetti la presenza del Caso, del Limite, del Dolore è l’unica modalità che egli ha per potersi intendere con l’uomo, ma a che spese… a che spese.

Ora se sia Dio a controllare il Caso o se Dio stesso sia subordinato al Caso…non è il caso di vederlo qui, tuttavia l’unica possibilità di comunicazione che è poi anche l’unica possibilità di amore è questa qua: noi possiamo comunicare con l’altro (a minuscolo) e con l’Altro (A maiuscolo, dunque Dio) solo all’interno di una nostra imperfezione reciproca. L’imperfezione deve essere reciproca altrimenti non ci capiremo mai.

 

La Religione si è per secoli scervellata per affermare che tutto ciò rientra in un Disegno divino, nel volere della Divina Provvidenza… ma… vaglielo a dire alla mamma che perde il figlio, vaglielo a dire ai figli che perdono la mamma, alle centinaia di migliaia di madri di ragazzi morti in guerra, vaglielo a dire.

 

 

Concludo con un pezzo tratto, come anticipato in precedenza, da un bel libro di Hans Jonas dal titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica.

 

Il libro si chiede “perchè il male” in quello che è stato l’ambito del male per antonomasia, e non solo nel nostro secolo: il campo di sterminio. Un inciso. Avrete letto i giornali di questi giorni in cui alcuni storici hanno tentato di equiparare la shoàh agli stermini di Stalin in Siberia o a quelli di Pol Pot in Cambogia? Gli ebrei hanno detto no, l’olocausto è stato un fenomeno del tutto particolare e unico al mondo. Anche sugli stermini si fanno distinzioni di razza. O forse non capisco io…

Leggo il passo:

“Elie Wiesel ne La notte evoca l’impiccagione di tre prigionieri tra cui un bambino, ‘l’angelo dagli occhi tristi’:

 

I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole, I tre colli vennero introdotti                          contemporaneamente nei nodi scorsoi.

– Viva la libertà! – gridarono i due adulti.

Il piccolo, lui, taceva.

-Dov’è il buon Dio, dov’è il buon Dio? – domandò qualcuno dietro di me.

A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.

Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.

– Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca.

Quanto a noi, noi piangevamo.

– Copritevi!

Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra.

Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora.

Più di una mezz’ora restò così, a lottare tra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi

e noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua

ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.

Dietro di me udii il solito uomo domandare:

– Dunque dov’è Dio?-

E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:

– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…

 

Ora, siamo in presenza qui di una giustificazione? Il dolore del bambino è comprensibile? Io non lo so. Qui stiamo solo introducendo il tema, ma quando parleremo del corpo nel momento del dolore vedremo che esso è una esperienza talmente personale e singolare che tutte le conoscenze di tipo teorico che di esso si hanno vanno a carte quarantotto, vanno a farsi friggere nel momento in cui il dolore assale il nostro corpo.

Di fronte al dolore siamo dei polli, degli sprovveduti, non ci sono sistemi per alleviarlo attraverso la sua conoscenza. Certo, il dolore dell’altro lo posso anche intendere, vedere, forse capire, ma non certo il mio. All’”angelo dagli occhi tristi”, se gli avessero sciolinato lì davanti tutte le teorie della conoscenza e della sopportabilità del dolore, non sarebbe servito a niente per lenire lo strazio del suo corpo. Dov’è qui la giustificazione? Non c’è.

 

Motivo per cui Jonas, qualche pagina oltre esprime una sentenza da cui noi dobbiamo partire. “Dopo Auschwitz possiamo solo affermare con estrema decisione che una divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile…. allora la sua bontà non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e nonostante ciò al mondo c’è il male”.

 

 

GUIDO SAVIO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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