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GUIDO SAVIO: SAPER SENTIRE/ SAPER SENTIRSI. L’ EMPATIA

GUIDO SAVIO: SAPER SENTIRE/ SAPER SENTIRSI. L’ EMPATIA

 

Sentire è un’arte. Saper sentire gli altri ma soprattutto se stessi, più che un pensiero, e tantomeno un ragionamento, è un “lasciare fare il corpo”. Un’ arte per l’appunto, in cui il fare ha la stretta pertinenza appunto della sensibilità ma, io ritengo, soprattutto della intelligenza. Empatia è l’attimo del coglimento del sentimento stesso che ci avvicina all’altro e a noi stessi. Che ci avvicina al sentirci vivi. E vivere che vivere è se non c’è passione?

 

LA PASSIONE SI TRASFERISCE

 

La Passione comporta un “trasferimento” del contenuto della propria “sintassi” nel libro dell’altro. Una vera e propria traduzione. Ovvio: il nostro libro ha bisogno di essere letto da due, in due per essere “sentito”. Trasferire la passione all’altro comporta un dono e un atto di riconoscenza. Chi ama dona e, in qualche modo, si aspetta una “riconoscenza”, alla lettera, nel senso che possa essere sempre conosciuto dall’altro nella e per la sua passione. La passione e il sentire la passione vogliono una certa continuità.

 

La continuità nella relazione è una ricchezza che mi garantisce da un lato che io sia riconoscibile dall’altro e, di converso, che l’altro abbia strumenti sufficienti per trovarmi in casa ogniqualvolta ne abbia bisogno.

 

LA SALUTE DEL DISTACCO

 

Il vivere con passione (l’amore, il lavoro, i figli, il divertimento, gli hobbies, etc.) tuttavia non può non comprendere anche un sapere stare senza questa passione, comprende saperci staccare dal nostro stesso Io per entrare in un mondo più grande (quello del mio io bambino), per entrare nell’Universo di valori che magari non ci appartengono, che ci sono estranei, eppure popolano il Mondo. Siamo una parte del Tutto (l’Io bambino è tutta sua la parte del mondo), e nulla più: quando viviamo la passione, e siamo in due ad amare, siamo parti di un tutto che include l’Universo dell’alterità. Siamo semplici segni e semi, eppure la presunzione ci spinge a cercarci come simboli indelebili. Siamo parti ed invece tendiamo al pensiero del Tutto. Ma siamo umani e questo è il nostro destino. A questo siamo chiamati.

Siamo meno di quello che pensiamo, decisamente meno: staccarci, anche se in parte, dal nostro Io, dal nostro pensiero di e su noi stessi, significa però alla fine, amarlo di più e renderlo più amabile dall’altro, renderlo più capace di amare l’altro: meno penso a me, più l’altro mi vede libero di essere amato (e di amarmi). Io non amerò mai uno o una che ha solo in testa se stesso.

Nell’amore vorremmo essere homo faber, fare, fare, fare senza pensare al nostro semplice “essere”, trascurando la nostra vera essenza, che invece è la parte di noi che l’altro coglie meglio, con maggiore facilità, con maggiore semplicità, con maggiore amore. La nostra vita non diventa più ricca se facciamo di più, vediamo di più, gustiamo di più e facciamo esperienze più ricche che nel passato. La nostra vita diventa di più se sentiamo di più, se siamo di più. Si è amati, tutto sommato, più per quello che si è che per quello che si fa. Ma anche qui la condizione è il saper sentire.

 

Non sappiamo tanto bene chi siamo: non sappiamo neppure “chi” o “che cosa” vogliamo diventare. Ma sta di fatto che chi si contenta di quello che è e “accetta” il fatto incontestabile di mancare di molte cose nella vita, è assai più ricco di chi ha molto di più e si angustia per tutto quello che eventualmente potrebbe mancare (e dunque fare per avere).

 

In amore abbiamo difficoltà a capire il nostro “essere pieni” (dall’altro) e più spesso ci abbandoniamo al vuoto, all’assenza, nostra e dell’altro.

 

Per capire questo, dobbiamo conoscere la nostra debolezza: per poter arrivare poi un nuovo ordine di azione dobbiamo accettare che non possiamo vivere al massimo della intensità: la felicità non è questione d’intensità, ma di equilibrio, ordine, ritmo e armonia. O “coincide con un sentimento della propria illimitata espansione”, o con un “sentimento di fusione”, come dice Salvatore Natoli.

 

E la nostra felicità è la dote che offriamo all’altro, proprio perché la parola felicità significa “fecondità e prosperità”.

Della nostra sofferenza, d’altra parte, l’altro si accorgerà senza che noi facciamo tante parole. Non dobbiamo deformare la nostra vita per riempirla in ogni minimo spazio d’azione e di esperienze.

E sappiamo che la “felicità” è trovare quale sia proprio “l’unica cosa necessaria” della nostra vita e lasciare con gioia tutto il resto. Perdita è felicità. Perdere tutto il resto in funzione dell’altro: questa è la felicità. Ma questa è una posizione umanamente difficile da sostenere, giacché per molti la felicità è in un certo senso lo stato di “fusione” con l’altro: “in questo senso molti fanno coincidere la felicità con il divenire completi, con l’henosis, con il ‘farsi unità’. Nell’unità dovrebbe svanire il dolore. Forse.

 

ESSERE SE STESSI

 

“Sii te stesso”. “Sforzati di essere te stesso”, “Lasciati andare ad essere te stesso” , sono frasi che sotto certi aspetti abbiamo tutti sentito decine di volte nella nostra vita. Frasi o domande, pronunciate o poste dall’altro, perché desidera che “risolviamo” una nostra questione o “la” nostra questione. Ci dice che nella nostra “naturalità” possiamo superare il nostro problema (forse anche il nostro mal di vivere), ma la cosa è tutt’altro che facile.

 

L’espressione “essere se stessi” richiama ad una sovrapposizione, ad una coincidenza, che da un lato prevede essere/dover essere, dall’altro essere/naturalità. Si è se stessi solamente se si riesce a sentire e a sentirsi. Nessuno mi dice che quello che Io sento sia la Verità, la Realtà del mio essere. Ma è la mia, solo la mia.

 

Per essere se stessi è necessaria innanzitutto la Conoscenza. E’ necessario avere in testa almeno un abbozzo della nostra Identità (non la sua esaustività).

 

La questione infatti che è stata maggiormente trattata da gran parte delle filosofie è la essenza della Natura, la naturalezza del vivere umano, in che cosa essa consista. Tuttavia a noi interessa di più pratica questione di come facciamo noi a conoscere, ma meglio ancora a “sentire” la nostra naturalezza.

 

E’ evidente che se mi comporto in modo naturale con me stesso e con l’altro non posso non provarne beneficio e salute; natura è “stare bene”, e noi tutti sappiamo riconoscere quando stiamo bene o quando stiamo male. Resta tuttavia aperta la questione del “chi” sia io nella mia natura.

E’ il Tu che fa l’Io: senza l’altro, non siamo nulla. Il senso profondo del nostro essere è quello dello “scaturire” dalla relazione con il Tu. Dal “venirne fuori” non tanto nella logica dell’esserne contenuto passivamente, ma in quella che intende Roberta De Monticelli nel suo L’ordine del cuore, secondo cui la nostra identità stessa è sancita dalla relazione con l’altro. Se cambia l’altro della nostra storia, cambiamo anche noi. Senza l’altro è impossibile la nostra stessa identità.

 

Quando si usa l’espressione “tenere un posto per l’altro”, significa  usare disponibilità affinché l’altro entri in noi, avere capienza per l’altro, ossia volontà di capirlo dentro di noi, dare ascolto, offrire la nostra nicchia, un agente contenitore pronto per l’altro.

 

Ci accorgiamo che in noi, nella nostra capienza e volontà di essere riempiti, c’è “già” il posto per l’altro. Tale posto lo fa nascere l’altro, lo determina l’altro con il suo comparire davanti a noi. Non c’è la sedia vuota già pronta attorno alla tavola e… se arriva qualcuno ha dove sedersi. No. E’ il comparire dell’altro, il comparire del Tu che fa saltare fuori la sedia, che poi noi prendiamo per cenare tutti insieme con il nuovo ospite. E’ stato il comparire del Tu che ha determinato il fargli posto dentro di noi. E’ il tu che crea la condizione per la nostra capienza, per la nostra accoglienza.

 

Ha modo di dire la De Monticelli nel suo L’ordine del cuore  sull’essere determinante del Tu nei confronti dell’Io. “Quello che c’è di indubbiamente misterioso nell’amore, perfino nelle sue forme più naturali e familiari, perfino in quello materno e filiale è la circostanza che l’amore apre gli occhi a un suo fondamento non altrimenti dato: la realtà di un individuo”. La De Monticelli sostiene qui che la realtà, dunque la storia di un individuo, è data dal fatto che un altro ha amore per lui.

 

E’ il Tu della relazione che ci apre gli occhi su chi siamo. Siamo in quanto siamo amati. Proprio come tuona Giovanni della Croce quando afferma che “Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore”. Dato e ricevuto. In quanto è il dare e il ricevere amore che determina tutti gli Io e tutti i Tu che calcano la Terra con i loro passi. Esisto come individuo in quanto c’è un altro che mi ama. Diversamente avrò mille difficoltà (patologie) nel cogliermi come individuo. Individuum unico e irripetibile.

 

Per questo è fondamentale che nella crescita il bambino senta l’amore dell’altro, dei suoi genitori: è attraverso questo sentire che struttura la sua identità, il suo essere pensante, il suo essere pensante un buon pensiero di se in quanto “altri” lo hanno voluto e desiderato. Il suo amare se stesso è la foto di lui tra i genitori sorridenti.

AMORE E INTELLIGENZA

 

Aprire gli occhi. L’amore… sveglia. Nel momento in cui colgo l’amore dell’altro verso di me… mi sveglio, non mi annoio. Mi sveglio ad un sentire nuovo, ad un essere io “nuovo”, dunque me stesso, ad un annusare il mondo in modo diverso, quindi nuovo, a sentire con la pelle le fragranze che l’apparire dell’altro ha determinato. Mi sveglio a un capire nuovo , a un ricevere nuovo perché ogni altro Tu che incontro nella vita mi cambia. Cambiamo solo attraverso l’altro. Qui sta la banalità della cura, se si vuole: della cura psicologica. Un altro mi sveglia all’amore e con l’amore.

 

Nella mia vita non compare tanto l’Amore con la A maiuscola, quello dell’Andrea Chenier, non compare l’Amore dei libri, delle teorie, delle parole vuote. No. Compare un Tu in carne ed ossa. Carne e sesso. Non esiste l’Amore in generale, ma esiste quello di un Tu, unico e irripetibile e anche mutabile nelle sue manifestazioni; è sempre l’Io che dà il senso all’essere. Io come soggetto sono il gestore del mio amore, del mio odio, della mia noia, della mia volontà di arrivare.

 

E’ il viso dell’altro su cui apro gli occhi e l’amore diventa una “legge individuale” come la chiama Remo Bodei. Questa legge la fanno l’Io e il Tu che stanno in relazione. Non si tratta di una legge esterna o sovradeterminata, non c’è fede religiosa, filosofica, politica, non c’è ideologia che tenga uniti due nella legge dell’amore, ma ci sono solo loro due. Dopo verrà tutto il resto. Chi ama un altro non porta con sè il peso dei suoi pensieri, delle sue ideologie, delle sue astrazioni. Si porta dietro il proprio corpo e basta. E con il corpo dell’altro fa la legge nel momento in cui lo ama.

 

Questo è il dato che libera il desiderio. La libertà del desiderio diviene la legge che in altre occasioni potrebbe essere imprigionata dalla morale, dalla religione, dalla tradizione, dalle convenienze o dagli stessi doveri, anche reciproci. Niente di tutto ciò. La libertà del desiderio produce frutti nel momento in cui due corpi si amano. E tanto basta.

 

“Questa legge individuale – ancora Remo Bodei nel suo Destini personali – ha la sua icona nel volto inconfondibile di ognuno, il luogo simbolico più espressivo che si conosca, dotato di sfumature che possono moltiplicarsi all’infinito e in cui i più piccoli movimenti riescono a modificare il tutto” .

Il volto dell’altro è la mobilità che mi sveglia, che mi mette in moto, mi offre motivo, se vogliamo, di prestare attenzione, la stessa attenzione di cui parla Simone Weil, al volto dell’altro, ovvero la cura nell’entrare e nell’uscire dall’altro rispettando la legge individuale. La legge dell’amore. E questa legge è garantita proprio dalla “nudità” con cui ci si presenta all’altro. Nudità del volto e del corpo come leggibilità del desiderio e della stessa volontà. La legge è fatta dalla naturalità con cui io mi faccio vedere dall’altro (e per vedere intendiamo “vedere la nostra contraddittorietà e la nostra debolezza”).

 

Bene. Mi sono svegliato (fuori). Ho capito l’interesse della relazione. Ho capito la legge individuale dell’amore, ho capito che la relazione con l’altro è una consumazione. Bene. E’ una consumazione anche nel senso della seconda accezione del vocabolario, cioè un “andare a finire”. Quello che intendo dire è che nella relazione… ci si stanca anche. Ciò che era prima non è più dopo, e noi esseri capaci d’amare, dobbiamo riconoscere che la relazione d’amore può consumarsi anche nel senso che… va a finire. E in questo non vedo nulla di innaturale.

 

Io e l’altro, consumandoci a vicenda, forse che stando assieme non finiamo per consumarci per davvero? Ossia ci annoiamo e ci stanchiamo del nostro stesso rapporto? La candela raggiunge il suo scopo in una sua funzione. Dalla cera consumata poi che ne sarà? Sarà componibile in un altro rapporto? In altri rapporti? L’energia è rinnovabile e riproducibile nella relazione oppure è destinata a fine, come nella seconda accezione del vocabolario?

 

Perché noi uomini e donne di questo mondo facciamo così fatica (se di fatica si tratta) a far convivere in noi il pensiero e l’esperienza che se da un lato la candela produce vita, amore, ricchezza, dall’altro, proprio perché espleta questa funzione, la candela va a perdersi, ovvero può portare alla stanchezza e alla chiusura della relazione, può portare ad esaurimento, alla morte? Davvero la noia diventa inevitabile.

 

Ritengo che queste domande trovino adeguata risposta solo nell’intimo del cuore di ognuno, nella privatezza con cui noi viviamo noi stessi e anche nella onestà con cui lo facciamo.

 

Penso che tutto sia legato alla natura stessa del desiderio che per essere tale deve essere libero. La legge della vita a volte è la legge del paradosso e noi siamo chiamati a viverlo questo paradosso. Anzi, di sicuro siamo chiamati a questo compito. Il paradosso è che l’altro, come viene se ne và. E che noi come andiamo ci ritiriamo. Proprio perché l’altro è perdibile lo amiamo tanto. Proprio perché ci chiama dal suo luogo, ci andiamo. Non ci chiama da quello nostro. Il suo luogo è il suo, nel quale vi si può anche ritirare. La forza del nostro desiderio è data appunto dal fatto che il desiderio è il desiderio dell’altro. Non è altrimenti e l’altro come è incontrabile è anche perdibile. Il desiderio è il desiderio di stare vicino all’altro. Nella nudità dei corpi: non mi interessa null’ altro che quell’amore lì.

 

Prosegue la De Monticelli: “Per cancellare una credenza, una realtà, un altro reale, ci vogliono dei nuovi motivi. Non è in mio potere abolirla, non più di quanto lo sia il vedere la montagna che è davanti a me”.[1] Per allontanarmi da “una credenza, da una realtà, da un altro reale” devo vedere altro ancora. E’ la vita del desiderio questa, in base alla quale siamo attratti dall’altro, e il desiderio è sempre il desiderio dell’altro. Il nuovo che l’altro mi offre , il nuovo che vedo nel volto nuovo dell’altro.

 

Che il nuovo uomo poi sia un altro reale o diverso, oppure lo stesso che sa fare discorsi e avere desideri nuovi e diversi dal passato, che aveva portato alla noia e alla stanchezza, mi sembra non vi sia differenza. Ottilia da sola non ci sarebbe mai arrivata senza il Tu di Edoardo. La sua relazione con il medaglione del padre l’avrebbe inevitabilmente portata ad esserne schiava e quindi a stancarsi, magari senza staccarsi. Ancora una volta è il Tu che fa l’Io. Lei si sveglia perché guarda gli occhi di un’altra persona che le dà un nuovo motivo. Se avesse avuto una relazione reale con un altro uomo e non con il medaglione del padre, avrebbe potuto essere anche questo uomo a svegliarla, ma con discorsi nuovi e con nuovi motivi.

 

Poi può succedere che la stanchezza abbia un proprio e preciso significato nella relazione. Che non arrivi a caso, che introduca qualche cosa di nuovo. Oppure la stanchezza può essere patologica, naturalmente patologica in quanto inevitabile. Giacché stancarsi dell’altro è l’umano dell’umano. Il paradosso e la debolezza che ci fanno forti e vivi è l’umano. Dentro l’umano tutto trova posto. Ed esiste dunque una noia “umana”, come ne esiste anche una patologica. Non sempre il proprio posto, ma tutto trova posto.

 

GUIDO SAVIO

 

 

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