GUIDO SAVIO: PADRE – FIGLIO – SESSO
Tutto sta “dentro” alla relazione
Essere padri ed essere figli significa occupare un posto e questo posto ci è dato solamente dalla relazione che noi abbiamo con l’altro. E’ l’altro che ci definisce, come il figlio definisce il padre (in quanto nessuno è padre se non ha almeno un figlio), così il padre definisce il figlio (che è tale per l’appunto in quanto ha un padre che lo ha generato in identità), cioè intercorre una reciproca distribuzione di posti e di identità.
Fuori dal rapporto esiste solo malattia, nel senso che non esiste conoscenza di se stessi e non c’è sapere in merito al proprio posto.
Dire che l’Io “vive” solo nel momento in cui ha relazione con l’altro è come dire che noi tutti siamo figli del Tu, figli dell’amore e dagli amanti dai quali, a nostra volta, ci siamo lasciati amare. Figlio è il lasciarsi amare al di là e al di sopra di ogni forma di passività, passività che invece la tradizione aristotelica lascia intendere, come annota Remo Bodei:
“ L’amare è inoltre migliore dell’essere amati, in quanto coincide con l’attività e la scelta in favore del proprio essere: ‘L’affetto assomiglia ad una creatività, mentre l’essere amato ad una passività. Perciò l’amare e ciò che concerne l’amicizia conseguono a chi è superiore nell’azione”. 1(Amare/essere amati in Aristotele in Bodei, Geometria delle passioni, p. 347)
Chiaro che è la reciprocità la forza che permette alla relazione di sostenere il tempo e sostenersi nel tempo. Reciprocità che è una continua offerta all’altro non tanto di oggetti o di sentimenti (certo, anche questo) ma soprattutto di “possibilità-potenzialità”, come abbiamo già visto in più di una occasione. La reciprocità recita la frase: “Ti offro la possibilità di darmi una possibilità”. Solo in questo modo possono essere sorpassati vecchi schematismi quali quello di attività/passività, in quanto esistono forme di “passività” che sono in realtà “invito” all’altro a farci del bene, a trattarci bene e dunque si rivelano più “attive” dello stesso fare diretto per qualcosa o per qualcuno.
La reciprocità è il “qui e ora” della relazione nel senso che il Tu e l’Io, che entrano in rapporto, sono certo dei “già esistenti”. La storia della relazione certo costituisce un elemento basilare di supporto, ma poi tutto avviene nell’immediato. Quasi “totus novus”. Due persone che si amano rilanciano in ogni momento il loro essere amanti e non riproducono una storia passata; semmai se ne servono, pur non misconoscendola affatto, anzi. Verrebbe da dire quasi che prima della relazione, di ciascun momento della relazione, non esiste garanzia di sopravvivenza, ma questa sopravvivenza (ammesso che questo termine possa passare per buono) richiede tanta fede e tanta speranza fornita proprio dalla reciprocità, fede e speranza nel Tu e nell’Io come attori ognuno della propria naturalità.
Chi si ama cerca nell’altro ciò che lui conosce di se stesso ma cerca soprattutto il diverso, ciò che va a riempire la mancanza. L’amore è il coesistere del “sapersi” e del “non sapersi”, proprio perché l’altro vada ad occupare questo secondo posto. Identità e vocazione verso la alterità come scrive ancora Bodei:
” Gli amanti devono avvertire simultaneamente la piena identità e la piena alterità reciproca. Se essi fossero troppo simili, se prevalesse l’identità, l’interesse e l’attrazione reciprochi finirebbero. Se, al contrario, fossero troppo diversi, se l’alterità diventasse assoluta allora ogni rapporto sarebbe sbarrato. Bisogna che questo delicato equilibrio venga continuamente infranto e riprodotto, anche artificialmente, che questo presunto sentimento spontaneo venga attizzato affinchè la norma si trasfiguri in sorpresa” 2 (Amare/essere amati , bodei, g.p., p. 357)
L’”equilibrio” va infranto affinché possa intervenire la novità all’interno della relazione, ma soprattutto l’equilibrio va infranto in quanto non può accadere altrimenti. L’allontanamento fisico degli amanti è il presupposto del prossimo incontro. E’ la vitale separazione. E’ l’aprire al pensiero con il quale noi elaboriamo gli “atti”, l’ esperienza del nostro amore. Il pensiero è un filo conduttore ma nulla di più, fino al prossimo incontro. Non a caso la relazione è un avvenire di volta in volta nella scoperta della sorpresa, a volte anche del mistero, come sostiene Martin Buber.
Siamo tutti, in fin dei conti, un secondo tempo: il primo è il Tu (poi viene l’alternanza dei posti S/A). L’Io è il secondo tempo. Ma proprio nel senso che il Tu viene cronologicamente e topologicamente prima. Come la mamma è venuta prima del bambino noi ci formiamo, in questo comprendere la successione, alla relazione con l’altro. Poi l’altro da noi: questa è la reciprocità.
Si può facilmente notare come tanta psicopatologia, quella fallica in primo luogo (come abbiamo avuto modo di vedere), abbia a che fare con il non ammettere tale successione. La patologia recita sempre: “Prima ci sono io, prima vengo io”, mentre poi ci si accorge che la salute è il pensare prima l’altro, come la persona gentile apre la porta e lascia passare prima l’altro. Gentilezza qui diventa salute. Formalità diventa salute.
Del Padre e del Sesso
Figlio del Tu siamo tutti noi in quanto nati da madre e da padre. La questione è fondamentale in quanto padre e madre hanno posto al figlio la questione del sesso. Siamo tutti nati da un rapporto sessuale il quale rapporto è prima “unione” e poi “distacco”. La questione del rapporto sessuale, prima che la questione dell’incontro, è la questione del distacco. Dove esiste sesso esiste la possibilità di rapporto. Ed esiste possibilità di rapporto laddove esiste distacco, distanza, agio, posti diversificati.
Come afferma Luce Irigaray: “Tu chi sei? Tu che non sei né sarai mai me, né mio” 4. (p. 123).
Ovvero: “La differenza sessuale – continua la Irigaray – è un dato immediatamente naturale, ed è una componente reale e irriducibile dell’universale. Il genere umano nel suo insieme è composto di donne e di uomini. (…) La differenza sessuale rappresenta probabilmente la questione più universale che si possa affrontare. Nel mondo intero ci sono, e ci sono soltanto degli uomini e delle donne.
Questo è sesso, questa è la divisione che consente tutti i rapporti, altrimenti è l’albero che nasconde la foresta.
Sesso è il riconoscimento che l’Io è possibile solo dal riconoscimento del Padre, che è colui che pone la questione della differenza alla coppia madre/bambino. Se introduco il pensiero di Padre nella mia giurisdizione, posso fare sesso con una donna, proprio perché il Padre è il pensiero della possibilità dell’allontanamento da lei. Il Padre è l’agente della spinta fuori dalla garanzia.
Non a caso è l’ assenza del padre reale che determina la nascita del mito materno (che possiamo qui definire l’attaccamento morboso tra madre e figlio/a). Il mito materno è poi madre e figlio o madre e figlia che formano coppia nella non ammissione della diversità sessuale, nella non ammissione del padre/Padre tra loro due. Non esiste sesso in quanto non è ammessa la separazione. Non è ammessa la separazione in quanto esiste pensiero che ci sia “un solo sesso”, il mio, dal quale, fallicamente, on posso separarmi. Un solo sesso è… quello che non si fa! Un solo sesso, come pensiero, preclude qualsiasi rapporto sessuale. Preclude qualsiasi rapporto tout court.
Nella salute vige una norma: l’impossibilità di non aver il pensiero di Padre come è stato sopra formulato. Nella malattia vige invece una fortissima aspirazione o alla negazione (Lacan parla di “forclusione”) o alla astrazione della funzione paterna. L’astrazione in particolare è un percorso viscido e ambivalente dove il Padre non viene negato ma viene usato appunto attraverso il suo slittamento da funzione che norma, che regola, a funzione di cui ci si serve a seconda del proprio bisogno e interesse. La astrazione è melliflua e si presta alla manipolazione. E’ interessante a proposito la declinazione che Galimberti offre del processo di astrazione.
“Così, ad esempio, per bere non dispongo di un bicchiere, posso ricorrere a qualsiasi oggetto che presenti una ‘cavità’. La percezione della cavità neutralizza gli altri caratteri dell’oggetto, rendendo possibile l’impiego dell’oggetto cavo presente al posto del bicchiere assente. Per una malintesa intellettualizzazione della vita siamo soliti chiamare questo processo ‘astrazione’ ossia ‘capacità di prescindere da’ (ab-traho) tutti gli aspetti dell’oggetto cavo, fatta eccezione per la sua cavità. ” 6(gal, eredità e ab-traho: cavità, p.t. p. 211)
La norma paterna non può essere un “a prescindere”, come la norma paterna non può essere astratta perchè non può essere “tirata fuori” dal contesto della relazione. Nessuna norma contempla l’”a prescindere”, ed è qui dove la norma paterna ha la sua fondazione, nel fatto che non può essere non considerata quando si inizia una relazione, sotto qualsiasi forma essa si presenti. Astrarre il Padre significa “neutralizzarlo”, come la mano di Galimberti, mentre il padre è colui che compie la azione opposta, quella di porre la questione del sesso tra i due della relazione.
Padre e inizio
Cacciari parla chiaramente del Padre nella sua accezione di Soggetto “che inizia”. Soggetto, attraverso il quale il figlio, dunque tutti noi, nel nostro essere singoli e nel nostro essere relazionati con l’altro, situiamo l’Inizio del nostro Io. Il Padre, per il solo fatto di essere Padre “inizia alla vita il figlio”.
Ma anche qui torna, come già visto all’inizio di questo capitolo, la reciprocità: non esiste Padre senza Figlio e non esiste Figlio senza Padre. Questo nella dominazione pura. Nella sostanza pura della questione è il Figlio che poi “segue” il Padre. Lo segue nella logica che ad un “iniziante”, affinché vita e continuità ci sia, consegue un “continuatore”: la salute del figlio sta anche nel pensiero di essere continuatore (non emulatore o successore) del Padre. Il Figlio rivela sempre qualcosa di nuovo del Padre attraverso la sua stessa esistenza.
“ La nostra età è la età della ‘perfetta natività del Padre – scrive Cacciari -. Il logos del Padre è infinitamente più del suo ‘eikòn’, è proprio il suo nome, il suo ‘unico’ nome, il suo unico Figlio, e nel manifestarsi pieno, nella reale nascita di questo Figlio, nasce il Padre stesso in quanto Padre (…) Egli si chiama così. Il Padre è intero in questo suo rivelarsi. Il rivelarsi, il dire, il comunicarsi dell’Inizio è perciò l’Inizio, senza riserva, senza oblio (…) L’Inizio è : ‘Che l’ek-sistere è’. L’Inizio è rivelazione” 7(Cacciari, Dell’Inizio p. 167-8)
Il padre “si chiama” figlio, “Il Padre ‘si chiama’ Figlio; questo è il suo nome, che Egli si è dato, ha concepito per sé dall’Inizio (Cacciari , idem,p. 168).
Come d’altra parte sostiene anche Agostino:
“Il Padre è il principio, e il Padre, non essendo mai senza dirsi, non è mai senza Figlio: Agostino In Ioh. Ev., 19, 13)
Figlio è passato/presente/futuro del Padre stesso. “ Il Futuro è visibile – continua Cacciari -, ma solo nella Facies del Presente che ne è essenzialmente distinto. Neppure il Figlio, appunto, può sapere l’Ultimo (il Futuro aionico), ma anela ad esso profeticamente, nella sua attuale viva presenza. Così egli articola il Futuro al proprio Presente e al Passato. Nel suo istante le tre dimensioni si mostrano, si esprimono, esattamente come nel Figlio si esprime, ‘nasce’ finalmente, l’intera vita intradivina.” 8. (Cacciari , idem,p. 511).
Tutto il tempo che il Figlio rappresenta sta nella divisione tra la dimensione del presente e la dimensione del passato. Ma la chiamata del Figlio è il futuro. Il nostro pensiero, soprattutto il nostro pensiero all’interno della relazione, è un pensiero di futuro: progetto, speranza, fede, tempo, etc. sono tutte declinazioni del futuro delle quali il Figlio è il primo portatore. Si potrebbe dire qui “portatore sano” se ha sanamente saputo usufruire della eredità paterna (che è il pensiero di avere diritto ad avere diritto). E la prima eredità paterna è stata il suo iniziare alla vita.
Ma se il futuro è il luogo del pensiero del Figlio è certamente il presente il suo luogo del farsi, del fare se stesso nella dimensione del proprio corpo, del proprio desiderio come continua Cacciari:
“Il Presente, metaxy, articolazione, snodo dell’intero; il Futuro, unità escatologica mai ‘vorhanden’, sempre profetizzabile, in cui l’amore, caritas, raccoglie la nostalgia del passato e la gioia del presente.” 9. (Cacciari , idem, p. 511)
E’ la charitas la istanza attraverso la quale il figlio esplica la massima aspirazione al suo essere con l’altro, ovvero ad occupare un ruolo esplicabile nella cura dell’altro che passa attraverso la cura di se stesso. L’amore (che è cura per l’altro e per sé) lo porta ad imparare, l’avere imparato l’amore per il Padre. Carità come mano protesa tanto a dare quanto a prendere. Carità del fare il proprio presente e il farsi stesso del presente.
Il figlio impara, il figlio impara perché è bello e perché c’è piacere nell’imparare. Imparare in quanto si impara “da” noi e “tra”di noi ma soprattutto “attraverso” noi tutti fratelli, in quanto “essere uomini è essere figli”. E noi impariamo attraverso l’avere imparato a imparare del Padre. Questa è la vera eredità che noi cogliamo dal Padre (cogliere più il metodo che la sostanza, più lo strumento che il contenuto, per poi da soli potersi arrangiare).
Imparare in quanto, per farlo realmente, si ammette prima la propria mancanza e la presenza da qualche parte di qualcuno in grado di riempirla: questo è pensiero di sesso, e in quanto tali ci possiamo riconoscere figli in quanto tutti “ce lo abbiamo” uguale se pensiamo al genere umano, diverso se pensiamo ad Uomo e Donna.
Imparare in quanto c’è lavoro: “si va da… a”, cioè dal un prima a un dopo, si va avanti, ci si muove. Vivere è solo guardare il futuro, l’avanti, l’oltre (a partire dal più possibile adattamento al principio di realtà, a partire dunque dal presente). Imparare in quanto si diventa più svegli, il che non significa più furbi, ma solo più attenti, più presenti, più capienti nei confronti della propria e della altrui debolezza, più capienti anche verso la ricchezza, in quanto per certi aspetti a volte è più impervio il percorso di amare la propria ricchezza (e quella altrui) rispetto che la propria e altrui povertà.
Sembra del tutto plausibile che la pratica dell’amore mentre da un lato “sveglia” chi ama, dall’altro ne acuisca oltre che la sensibilità anche la intelligenza. Intelligere è sempre rivolto a cogliere una istanza che sta fuori di noi e, una volta colta, ci alleggerisce il peso che la vita ci chiede di portare. Mi sveglio se “intelligo” meglio l’altro della relazione, ma anche se faccio questo con gli oggetti reali. Imparo se imparo a trattare meglio di prima gli oggetti che popolano la mia scrivania. E’ l’uscire da se stessi, appunto la charitas, per dirigerci verso Altro, che ci porta alla veglia. Il sonno è il nostro pensiero non operativo introflesso. Nel sonno le mani rimangono ferme.
“Allora Gesù andò con loro in un podere chiamato Getzemani e disse ai discepoli:’ sedetevi qui mentre io vado a pregare là. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo disse loro: la mia anima è triste fino alla morte. Restate qui a vegliare con me.’. E avanzatosi un poco si prostrò con la faccia per terra e pregava dicendo:’ Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice, però non come voglio io ma come vuoi tu’ Poi tornò dai discepoli e trovò che dormivano e disse a Pietro:’ Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me. Pregate e vegliate e così non cadrete in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole.”. E di nuovo allontanatosi pregava dicendo: padre mio se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. E tornato di nuovo trovò i suoi che dormivano perché gli occhi loro si erano appesantiti. Si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta ripetendo di nuovo le stesse parole”. (Matteo).
Perché Cristo veglia? Perché aspetta qualcosa. Più che ad aspettare qualcuno che arrivi, che potrebbe essere uno dei capitoli della veglia, Cristo aspetta che arrivi l’’avvenire’ che comprende l’essere “continuatore” e nello stesso tempo “rinominatore” del Padre stesso. Avvenire sul suo corpo di Figlio in quanto questo è il patto di relazione con la parola del Padre, come abbiamo già incontrato Levinas: ’Io non definisco l’altro per mezzo dell’avvenire, ma l’avvenire per mezzo dell’altro, poiché lo stesso avvenire della morte lo abbiamo visto consistere nella sua alterità totale.” 10. (Emmanuel Levinas, Il tempo e l’altro, p. 53) .
Figlio
Figlio, il concetto di figlio, il pensiero di figlio è il prodotto, ottenuto con il fare delle mani, di quel soggetto che sta sveglio, che veglia, che si dà da fare ma soprattutto che accetta la finitezza del proprio posto, e che nello stesso tempo ne vede la potenzialità (avere il potere di…). Portatore di desiderio, insomma. Il figlio ha nella propria testa, nel proprio cuore e nelle proprie gambe la parola “scopo”, senza essere un forzato della programmazione. In quanto soggetto dello scopo il figlio è il soggetto della salute. Colui che ha pensiero di meritarsela (il diritto di avere diritto), come di meritarsi il piacere e la salvezza. Il figlio è il soggetto della intraprendenza. Quello che si muove per primo verso l’avvenire e quello che ad esso è più disponibile. E’ il soggetto che non ci pensa tanto in quanto ha “sentire” di futuro, non programmazione di futuro. Il suo “metaxy” è il passaggio continuo dal presente al futuro inteso come veglia. Accettazione del fine come accettazione della fine: questo è figlio. p. 151-55s
“Tutto mi è stato dato dal padre mio. Nessuno conosce il figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio lo voglia rivelare” (Matteo, 8, 27).
Queste parole di Cristo indicano come la “questione” del Figlio sia la stessa “questione” del Padre: fare e agire, il metaxy tra presente e futuro. : chi è l’uno… l’altro è. E ciò nella esperienza reale ma nella favorevolezza del pensiero. Il pensiero favorevole, ovvero il pensiero di qualcuno che, sempre, anche in questo momento, ha piacere che io provi piacere. Pensiero di ricchezza, di amore, di eredità e di perdono. Nell’essere uno passato attraverso la nascita dell’altro. Essendo il Padre passato attraverso la nascita del Figlio.
Se io mi penso figlio mi penso un… “chi inizia”. Il figlio è tale in quanto iniziatore, in quanto portatore di un pensiero di inizio, anche quando il viaggio fosse già cominciato, anche strada facendo. Sempre pronto a cominciare qualcosa. Il nostro amore per noi stessi è un pensiero di “capacità”, la capacità di essere capaci di iniziare qualcosa di nuovo, anche in corso d’opera. Ma figlio è anche colui che sa produrre un pensiero molto pratico: che se ci va male da una parte… da un’altra ci andrà bene. Il Figlio è allora l’artefice della Speranza in quanto sveglio nella sua esperienza di iniziatore e di continuatore (non soltanto della esperienza paterna) soprattutto nel momento in cui l’opera diviene difficile o non sortisce soddisfazione. Figlio in questo senso è produttore di alternativa laddove la soddisfazione al momento non è ottenibile. Figlio in quanto sa amarsi.
L’amore di noi stessi, l’”egoismo maturo” convivono nel pensiero che c’è sempre la possibilità di ri-cominciare. Qui sta l’ umanità dell’uomo e la forza del figlio: posso iniziare in quanto ho saputo dimostrare che già ho iniziato una volta, che sono stato iniziato una volta. Figlio è quel “tipo” che, per quanto esauribili, si dà sempre diritto a ulteriori opportunità.
Possiamo dire che noi figli abbiamo questo salvifico pensiero nel momento in cui “Abbiamo il pensiero di essere contenuti nella volontà di un Padre – come scrive Giacomo Contri – , quando anche non esistesse tale padre” 11. (Giacomo Contri, Il Pensiero di Natura, p…..)
Pensarci figli non ha assolutamente nulla a che fare con il pensiero di avere uno o cinque padri reali. Si tratta solo di un pensiero produttivo, quello di essere contenuto nella “volontà” di un altro che vuole il nostro bene, e questo altro svolge una funzione paterna nel senso… “Nessuno conosce il figlio se non il Padre e nessuno conosce il padre se non il figlio e colui al quale il figlio lo vuol rivelare”.
Eredità
Eredità significa il pensiero del figlio in riferimento al Padre: “Porta avanti tu il mio desiderio verso di te perchè questa è la mia volontà su di te”, e qui Padre e Figlio si ritrovano nella reciprocità del loro pensiero di desiderio reciproco. Il pensiero di figlio significa che esiste un pensiero che c’è qualcuno (non uno qualunque) che prova piacere per il piacere che provo io, e dolore per il dolore. Piacere per piacere dell’altro. Dolore per il dolore dell’altro. Questa è la legge del piacere (anche quando comprende il dolore). La legge del piacere è la legge che sorregge sia la condizione di lavoro sia del senso della vita stesso.
Se non sono sorretto da tale legge è impensabile che io, da solo, inizi qualcosa.. Io inizio qualcosa se ho un pensiero che questo qualche cosa possa piacere a me e all’altro (il Padre). Io inizio se ho il pensiero che ho me come compagno di lavoro. In questo senso io riconosco come sanzione che sono figlio di due (mio padre e mia madre) che sotto la legge dell’amore mi hanno messo al mondo perché io piacessi al mondo e perché il mondo mi piacesse. Questa è eredità.
Il pensiero del figlio è… che qualcuno, in qualche momento della mia vita, sta lavorando per me in quanto il suo bene è il mio bene, in quanto il suo piacere è il suo piacere.
“L’iniziare del figlio consiste nell’approcciare un moto che è mosso da una illuminazione – scrive Giacomo Contri – , quella della convenienza data dal fatto che qualcuno lavora per lui” (G. B.Contri, il pensiero di Natura) Non al posto mio, ma “pro” me. Nella auspicabile ipotesi che padre e figlio lavorino assieme: così come assieme vengono conosciuti e riconosciuti. p. 157
Il concetto di figlio può benissimo essere sovrapposto al pensiero di eredità (attraverso la pratica della intelligenza e della speranza).
Figlio è sempre pronto a cominciare qualcosa. O qualcuno. Anche se stesso; il figlio infatti è l’iniziatore di se stesso. Inizio che non è una esperienza “una tantum” ma, se si vuole, una ripetizione, come abbiamo avuto modo di vedere. Il nostro amore per noi stessi è il pensiero di essere sempre capaci di iniziare qualcosa di nuovo. Non tanto una avventura, una idea, un lavoro. Ma iniziare noi stessi, rilanciarsi ogni volta, alzarci in piedi, se è possibile, dopo ogni caduta: almeno il tentativo.
Iniziare non è “iniziazione”, lo abbiamo già visto in altra occasione. Iniziazione è “mistero negativo” in quanto si vuol nascondere per forza quando non c’è niente da scoprire. Iniziare invece significa potenza. Pensiero di essere il più possibile “capaci” di “altro”. Ma badiamo bene che non si tratta di cercare il conforto di una esperienza: questo altro può anche non esistere (e in realtà spesso si nasconde). Ma si tratta di un pensiero: cioè attività normativa che il soggetto decide per se stesso nel momento in cui si ama: mi amo in quanto qualcuno mi ama (senza che questo “qualcuno” esista necessariamente). Allora la mia capacità di “altro” sarà per me una fonte inesauribile.
“Sono nato attraverso il piacere” non è una frase fatta ma un dato esperienziale. Se non c’è il piacere… non ci si mette! Non si nasce nemmeno! E le esperienze di piacere di Uomo/Donna non si verificherebbero se prima non fosse stata sgombrata la strada dal pensiero: il mio piacere piace a qualcun altro, a partire dal Padre. Onora il Padre significa onorarlo attraverso il lavoro verso il piacere. Non verso l’obbligo o la colpa.
“Il rapporto tra due amanti è sempre asimmetrico” afferma Levinas. Inserita questa regola nel rapporto con il pensiero di Padre equivale a porre la questione della meta, dello scopo: da un lato per raggiungere l’altro (Padre); dall’altro perché di per sé la differenza chiama al fare. Non allo strafare.. p. 153-166
Figlio e colpa
Proprio così. E’ il riconoscimento della “storicità” della propria colpa il momento in cui il soggetto diventa figlio (avvero assume in pieno il proprio posto di soggetto imputabile), cioè di un soggetto in moto verso qualcosa al quale si arriva non senza prima aver commesso colpa reale (errore), senza tuttavia “astrattizzarla” in un “senso di colpa”, figlio in moto anche nel tentativo sempre vano di colmare la colpa storica, dunque reale, nella relazione (a partire da quella con il Padre). A stare al mondo si commettono colpe reali, si fa per davvero del male ad altri, anche nella pratica dell’amore, che sembrerebbe sentimento che tiene a riparo più di altri da tale evenienza. Nel momento della assunzione del principio di imputazione, la colpa sarà passata dallo stato patologico del “senso (di colpa)” alla condizione realistica della ammissione e della conseguente remissione della colpa realmente commessa): il soggetto impara così a perdonarsi a partire dalla differenza che egli saprà rinvenire nel rapporto con il Padre.
Si sdogana la colpa rinunciando al “senso” cioè rinunciando alla teoria (o astrazione) che la aveva sorretta fino a quel momento impedendo qualsiasi lavoro su di essa. Si esce dal senso di colpa, in fin dei conti, perdonandoci le nostre colpe (dopo averle riconosciute) e soprattutto perdonando quelle degli altri.
Essere figli equivale dunque ad un pensiero di crescita nel senso di fare e essere fatti anche nel proprio diritto alla “passività” (l’essere perdonati). In quanto il pensiero di Padre è anche un pensiero che recita “qualcuno lavora per me”, per cui la “passività” diviene sana: “Che l’altro faccia in vece mia” fidandomi io di lui, solo allora posso mettermi nel posto della passività.
Eredità si diceva: se si toglie il pensiero di Padre resta la eredità materiale, mentre la eredità del Padre è il traghettare se stesso, oltre il senso di colpa, da parte del figlio, ponendosi egli davanti la questione della colpa reale (ovvero del limite e dell’errore), e nello stesso tempo offrendosi opportunità, offrendosi ”potenza”.
Allora l’”Ubi bene, ibi Patria” può benissimo trasformarsi in “ Ubi bene, ibi Pater”.
E il posto del Padre sappiamo che è il posto del sesso in quanto sancisce la differenza che, per l’appunto, prima di tutto è sessuale. La nostra Patria è una Patria di figli. Cioè di soggetti capaci di “concepire” il sesso come “strumento” della loro capacità tanto di unione quanto di separazione dall’altro.
E il sesso, quello che andiamo definendo come sesso (pensiero/divisione), viene ben prima dei rapporti sessuali proprio perchè ha a che fare, ma sarebbe meglio dire “si regola” sul corpo pulsionale e non sul corpo biologico. E pulsionale significa, freudianamente, “che sta a metà tra lo psichico e il somatico” Ovvero desiderio. Noi siamo la nostra competenza a desiderare, il nostro “saperci fare” con il nostro stesso desiderio. Il sesso sta nel pensiero di esso.
Bella e nello stesso tempo inquietante, cartina di tornasole della fragilità umana, sono queste riflessioni di Simone Weil sull’amare ed essere amata, sul desiderare ed essere desiderata:
“Amore. Vorrei che colui che amo mi ami. Ma se è interamente dedito a me, non esiste più. Io smetto di amarlo. Sazietà. E finchè non è interamente dedito a me, non mi ama abbastanza. Oppure: io vorrei il suo bene. Ma quale bene? Quello che io mi raffiguro come il suo bene? Ma lui non lo vuole (Se invece è completamente docile non lo amo più” 12.
Simone Weil dimostra proprio come sia il pensiero di Padre che non funziona in queste sue pur umanissime riflessioni. Manca il concetto di separazione e di limite. Meglio, questi concetti vengono intesi solo razionalmente, ma evidentemente questo non basta per mettere a tacere la angoscia della filosofa francese che vorrebbe il tutto dell’amore dell’altro e nello stesso tempo lo rifiuta. Quello che rifiuta in realtà è il sesso come sanzione della divisione dei due desideri. Il desiderio del tutto è il contrario del desiderio sessuale che recita che alla soddisfazione (umana) ce ne manca sempre un pezzo.
Il Padre inizia questi discorsi proprio a partire dal discorso della divisione del desiderio (dei due desideri dei due che si amano). Ma divisione anche interna allo stesso desiderio. Per questo il sesso viene prima dei rapporti sessuali, in quanto divisione del desiderio stesso, ovvero “il mio desiderio non sarà mai sovrapponibile al tuo desiderio” Se così fosse ci sarebbe un solo sesso. Ma anche il mio desiderio non è univoco e chiaro dentro di me, è diviso anche là.
Un solo sesso, un solo desiderio: allora niente sesso. In quanto destino del desiderio è una parziale insoddisfazione: l’altro non mi soddisferà mai del tutto e qui sta la separazione sana, la divisione del desiderio. (Weil 3°, p. 191)
“Ciò che hai ereditato dal padre… conquistalo” scrive Goethe nel suo Faust.
Il concetto di Padre si pone come “conciliatore” (metaxy di S. Weil) tra i sessi proprio perché ne pone la questione della possibilità (Cacciari) e della libertà nella loro (allora diviene tale) pratica. Il Padre è conciliatore in quanto consente l’appuntamento, proprio perché è conoscitore dell’inizio e nello stesso tempo “indicatore” della speranza.
Il regime giuridico dell’”appuntamento” è una ulteriore voce del concetto di Padre (Dio Padre ad esempio ci ama nel non intervenire, lasciandoci liberi, nelle nostre questioni di esseri umani). “L’amore è sul versante della non-azione – scrive ancora la Weil – , dell’impotenza. L’amore, che consiste nell’amare che qualcosa sia, nel non volere intervenire. Dio ci ama così; altrimenti cesseremmo immediatamente di esistere. Saremmo annientati. Acconsentire per amore a non essere più, ed è questo che dobbiamo fare, non significa annientamento, ma trasporto verticale nella realtà superiore dell’essere” 13. S. Weil, 3°, p. 253)
Accedendo ad un linguaggio colloquiale potremmo intravvedere un certo passaggio da Bambino a Figlio in questo scambio di battute tra Bambino e Padre. Domanda del Bambino: “Sono ancora privilegiato?” Risposta del Padre: “Ce n’è un po’ per ciascuno”. E tale risposta è sempre una risposta paterna, e questo dimostra che il Padre è autonomo e funzionante prima ancora dell’Edipo, ovvero ancora prima della comparsa nella scena dell’attaccamento del bambino o della bambina nei confronti della madre e del successivo e sanatore intervento del Padre che rompe la patologia dell’attaccamento.
E’ patologico dissociare il pensiero d’amore e il pensiero di conoscenza in riferimento al Padre, ne andrebbe della formazione della intelligenza del figlio. Il connubio tra amore e conoscenza lo potremmo anche rinvenire nell’adagio “Chi sa dorme”, nel senso che non esiste alcuna necessità di “dimostrare” la propria conoscenza in merito all’amore. L’amore è solo se è tenuto lontano dalla presunzione e dal presupposto. Il pensiero d’”amore presupposto” (cioè quello che mi sarebbe dovuto per forza) è un pensiero poco intelligente in quanto è antieconomico. Pensare che esiste da qualche parte un amore che mi è dovuto di certo non mi fa lavorare. Mentre il lavoro accende la categoria del merito, e dunque del sesso. Intendere l’altro come “partnership”, socio in affari: quelli reciproci che solo l’amore rende possibili.
Il figlio pensa al Padre non come ad un “ente” ma come ad una partnership. Il Padre come “ente” potrebbe anch’ esso costituire una forma di elargizione una forma di “amore garantito”, quello che non comprende domanda. Invece nella salute, per avere salute… “basta chiedere”, “ basta lavorare”. Ma non lavorare per me (per il mio egoismo immaturo), bensì, per il tuo bene, il mio bene lo faccio passare attraverso di me, passando attraverso il mio concetto di Padre. E’ in questa espressione “passare attraverso il Padre” che si può vedere quella che Freud, ma non solo lui, ha visto come la cosiddetta uccisione del Padre, il parricidio. Oltrepassare il Padre per essere Figli, farlo morire per vivere.
Salvare il Padre
Freud nel Mosè afferma che gli uomini hanno sempre saputo di avere un figlio (fratello) primigenio, che essi stessi hanno ucciso. Appare quasi nella economia della analisi freudiana, un allucinato tentativo, da parte dell’orda dei figli, di conquistare una propria identità, un proprio posto, sopprimendo l’Altro che ha imposto loro la migrazione, la dislocazione, la vacanza. In “Totem e Tabù” Freud parla chiaramente della uccisione del padre da parte dell’orda dei figli. In qualche modo anche questa è una questione di eredità. Tuttavia è l’uccisione del Padre che fa pensare: il parricidio è un chiaro atto (simbolico o reale) di sostituzione del figlio nei confronti del padre. Ma non è questa la questione della eredità.
Il pensiero di Padre che qui elaboriamo è un pensiero di vita. Il Padre dà la vita. Il pensiero di Padre come lo intendiamo qui, è il pensiero di colui che in quanto Altro, non va ucciso. Il pensiero di Padre è il pensiero di un Altro che in quanto Altro va salvato perché salva noi.
Sta qui il connubio tra amore e intelligenza di cui si parlava in precedenza: salvo l’altro in quanto salva me. In quanto da solo non mi salvo ma ci si salva sempre in due. E’ questa anche la voce della speranza: “Salva me, fons pietatis”.
“La religione del Padre si fonda sulla ri-mozione della soppressione (estrema dislocazione) dell’Altro che ci ha guidato-costretto all’esodo” scrive Massimo Cacciari.
Ma nemmeno questo è il nostro pensiero di Padre. Non è il pensiero di colui che ha errato inizialmente e del quale gesto noi ora noi figli paghiamo le conseguenze.14 L’assassinio del Padre(assassinio del padre, Cacciari (I.d.l.), p. 146
Certo il Padre è stato un errante e certo noi possiamo anche pagare la conseguenze dell’iniziale errore paterno (vedi “Gli Spettri” di Ibsen), e certo anche che la Religione del Padre ne comprende la rimozione, tuttavia la soluzione non può essere la rimozione in toto, ne cadrebbe la formulazione statutaria di Padre come Inizio e concessore dell’”inizio” al figlio.
La rimozione dell’errore del Padre fermerebbe (o avrebbe fermato) anche il percorso di civiltà (di salute di ciascun individuo che non può avvenire al di fuori del processo di civiltà).
Nemmeno come uccisore del figlio il Padre è proponibile in quando l’uccisione del figlio è la forma della antieconomia, in quanto, si sa, i figli portano danaro ( sia per il Padre che per il Figlio, che potrebbe essere anche la morte definitiva per tutti e due) e poi perché sarebbe uccisione del singolo, dell’individuo che poi conferirebbe nome, esistenza e posto al Padre stesso. Sarebbe uccisione del futuro e della speranza. Allora che il Padre “attraversi” il figlio nel suo errore e nel suo dolore e che il figlio “attraversi” il Padre nella sua volontà di affermazione e nel suo pensiero di futuro. L’attraversamento è l’andare “oltre” che provvisoriamente potrebbe essere inteso anche come “perdono”.
Parlando di Francesco di Assisi e del suo rifiuto verso il Padre (Da un testo di Ernesto Balducci) scrive lo stesso: “All’Ordine del Padre si sostituisce l’Ordine dei Fratelli e al patrimonio, che come dice l’etimologia è il vero fondamento dell’Ordine del Padre, si sostituisce “sorella povertà”. ‘Il gioco si fa serio, – continua Balducci – è la fraternità che prende il posto della paternità, è il disordine che si pone come nuovo ordine in cui non c’è più rapporto servo-padrone, ma ognuno è, nel contempo, servo e padrone dell’altro, la fraternità si fa paterna e la paternità si fa fraterna”15 (Gal. Idee, p. 190)
E la servitù diventa allora la servitù nobile di Platone che vede il “comes” come forma più appropriata di relazione.
La legge non è paterna in quanto il Padre la fonda ma è tale in quanto introduce il concetto di eredità. E la eredità diviene eredità nel momento in cui la paternità diventa fraternità (con Padre e Figlio vivi). Ciò avviene esclusivamente e squisitamente nella accettazione dell’errore reciproco in quanto correggibile. Tu Padre nel tuo errore diventi mio fratello.
Eredità è una vera e propria “condizione di forma” come lo può essere lo stato di un atleta, un investimento che recita: “Si comincia da lì a fare fruttare i talenti”. La eredità tuttavia non è una acquisizione “a babbo morto”, ma l’inizio di un investimento su se stessi quando la vita arride ad entrambe le parti.
Freud in “Il Disagio della Civiltà” compie un percorso che procede da uno stato di guerra (indetta dai figli contro lo strapotere paterno) senza tuttavia pervenire, nel suo percorso, alla conquista di un ordinamento che sani la guerra stessa. Egli passa dal disagio alla risoluzione del disagio stesso, senza passare attraverso l’ordinamento.
L’ordinamento è fondamentale in quanto è un ordinamento che noi compiamo nel corpo “dentro” la esperienza della relazione, durante la relazione, meglio sarebbe dire “durante l’atto di amore” in cui “amarsi” significa intendere il nostro corpo come “altro” da noi stessi, e “farsi amare” significa intendere il nostro corpo “amabile” dall’altro, ma ancora una volta “altro” da noi. L’”altro” del nostro corpo è il Padre stesso. La alterità e la diversità (che consente la pratica sessuale, è il Padre)
Tutto ciò presuppone un sapere pratico sul corpo e una volontà di fare e di ricevere, come esplicita Galimberti citando Platone:
“Questo passaggio è ben descritto da Platone per il quale fare qualcosa (tèchne) presuppone la possibilità di poterlo fare (dynamis), ma questa possibilità si dà solo se si ha la scienza (episteme) della cosa che si intende fare, per cui la tecnica, a parere di Platone, risulta indissolubilmente connessa a scienza e a potenza, a episteme e a dynamis:’ Si potrebbe fare qualcosa che né si sa, né si ha potenza alcuna per farla’ domanda Socrate a Ippia. ‘In nessun modo’ risponde Ippia ‘ Come si farebbe quello che non si sa e non si può fare? (Platone, Ippia minore, 296b)’”16 (Potere, Platone, in Gal, t. e p., p. 61
Qui allora sta il connubio tra intelligenza e speranza, ovvero nasce il pensiero di “possibilità” di fare quello che si pensa, anche se è difficile pensare all’amore come ad una conoscenza scientifica. Sapere e potenza sono due componenti che nella relazione non possono escludersi, pena il peccato di ingenuità, che è uno dei peccati che in amore… non si perdonano.
Figlio e sesso
Il sesso è la legge riuscita. Ma il rapporto sessuale potrebbe essere anche una condizione che impedisce o ostacola il rapporto tout court di un soggetto con un altro . Ma nel momento in cui avviene lo si intende come responso della legge riuscita. Legge che recita: “Il piacere mi viene dall’altro”. La posizione di questa legge è addirittura ontologica: “Se sesso… allora legge”. Perché tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge! Allo stesso modo in cui siamo tutti uguali di fronte al sesso se viene riconosciuto come indicatore della differenza e della domanda di un soggetto verso l’altro (o la reciprocità della domanda).
C’è l’ente piuttosto che nulla, come abbiamo visto sostenere Heidegger, e tanto per rispondere alla sua domanda, in quanto il sesso come legge ha permesso alla umanità di darsi prima di tutto una esistenza e in secondo luogo una garanzia di sopravvivenza. Il sesso nella sua pratica consente che nel mondo ci sia la vita anziché il nulla: tutto qui. Ma ciò non tanto nel senso biologico, bensì in quello strettamente giuridico. Esser-ci è solo in quanto figli “capaci” di sesso, cioè di separazione e nello stesso tempo di comunione.
Tornando ad un quesito precedente riguardo il sesso, la risposta è: il sesso è la prima realtà (entità) che si tenta di negare proprio perché è il nostro primo “coglimento” del nostro in-essere.
“Che cosa significa in-essere – si chiede Heidegger – ? Di primo acchito completiamo l’espressione con: in essere ‘nel mondo’ e tendiamo a intendere questo in-essere come un ‘essere dentro’. Con questa espressione si denota il modo d’essere di un ente che è ‘dentro’ un altro, come l’acqua è ‘dentro’ il bicchiere o la chiave ‘dentro’ la toppa. “. (….) “’In’ deriva da ‘innan’, abitare, habitare, soggiornare; ‘an’ significa: sono abituato, sono colito con..: esso ha il significato co ‘colo’, nel senso di ‘habito’ e ‘diligo’”. (…) “L’espressione ‘sono’ è connessa a ‘presso’. ‘Io sono’ significa, di nuovo, abito, soggiorno presso… il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo” 16
(In-essere, Essere e tempo, Heidegger, p. 77-8 / sex = in habitare
Il solo tentativo di farsi un concetto (pensiero) di sesso è quello di intenderlo normativo nel senso di “uno dentro l’altro” (un uomo dentro alla donna, una protuberanza dentro una cavità) e questo diviene automaticamente articolo di legge: la terra di due (che si amano l’uno dentro l’altro). Un Nomos, una familiarità della terra di due persone che si trovano, toccano i rispettivi corpi come se toccassero una terra alla quale “appartengono”.
In amore ognuno degli amanti va ad abitare il corpo dell’altro e solo in questo “abitare” trova compimento il moto del proprio desiderio.
Annota Cacciari che questo moto del corpo verso l’altro è una “sedazione”. Non certo una “calmazione”, ma un dare-sé all’altro. Tutti noi altro non desideriamo: avere un altro da riempire: delle nostre parole, delle nostre idee, del nostro spirito, della nostra anima, del nostro corpo, etc.,in quanto da soli non ci bastiamo. Il bambino corre dal papà o dalla mamma per avere conforto e confronto sulle proprie teorie; se io guardo un film o leggo un libro che mi ha particolarmente interessato la prima cosa che desidero è “entrare” con il mio corpo nel corpo dell’altro per farlo partecipe della mia scoperta (questo è desiderio di comunione). E così è l’amore che disdice il deserto proprio perché non ha sponde, non ci rimanda indietro il nostro corpo, non ci sazia. Solo il corpo dell’altro è “corpus recipientis” per la nostra volontà di dare una dimensione normale e normata alla nostra esperienza. Soprattutto all’esperienza d’amore:
“Il deserto non sazia, non diviene scrive Cacciari – ; immagine dell’assenza di forme o della vanità delle immagini, esso insegna a ‘durare ad esistere’; esso chiama, nel modo del suo silenzio, all’esserci mai sazio, mai ‘a casa’ nel tempo-soltanto-tempo del divenire”. “Il Nomos appare originariamente e indissolubilmente legato alla terra, ‘sedato’. Esso governa, giudica, media, in quanto ancorato ad una terra, assegnato a un confine. (…) Nomos salvabile solo nel suo positivo rapporto con la terra, il luogo, il topos”17. ( Nomos, terra/corpo, Cacciari p. 47).
Sesso come luogo, terra e dunque legge. Sesso come posto, terra, esser-ci dell’altro che non può venire negato, come l’inconscio non nega.
Sesso come confine. La legge della differenza sessuale è la legge della confinazione dei due desideri che, proprio perchè confinati, possono pervenire alla soddisfazione, il che non accadrebbe se fossero sconfinati, peggio, infiniti. Fratelli (anche i fratelli di San Francesco) nel sesso, è come dire fratelli nella legge.
Il sesso è la fraternità della legge che recita: ”Sessualmente disponibile: a- non fare del sesso un motivo della indisponibilità all’altro; b– non avere nel proprio pensiero determinato il fine di sesso.
Il sesso deve essere lasciato libero dal pensiero (teoria) di sesso come un “da farsi” tra due per testimoniare o dimostrare qualche cosa. Se sesso, allora legge c’è già: non occorre pensare ulteriormente. E infatti la cosiddetta “patologia sessuale” ha a che fare al pensiero di sesso come un “da farsi” quando invece… è già fatto di per sé. Il pensiero diviene una teoria nel momento in cui si pone come opposto al giudizio. Giudizio vuol già dire “fare”, non avendo altre storie per la testa.
Il caso di Freud è l’unico, nelle dottrine morali, in cui il sesso non viene trattato da “oggetto” della legge morale, bensì come “componente” della legge morale. “Oggetto”, di qui o di là, si è chiamati a pensarci se… vada bene o vada male: significa che si è chiamati a sentirlo come oggetto finchè lo si fa. E sappiamo che non è possibile fare sesso se si ha il pensiero di sesso in testa. Per fare sesso basta solo avere corpo (“habeas corpus”). La liberazione è data non momento in cui io vivo il corpo che fa sesso come un corpo in norma in quanto sta portando piacere ad un altro attraverso il portare piacere a se stesso.
Il sesso infatti è l’unica esperienza sensibile che si presti ad una logica “negativa” (trarre piacere dall’agire dell’altro.
“Amore. E’ per noi del tutto naturale – scrive Simone Weil – ritenersi il fine di un essere che ci è necessario, che è per noi condizione di esistenza, e ci sembra orrendo, impossibile, contro natura non esserlo. (…)” 18(Weil 3° p. 308 attività della passività).
Questa la legge dell’amore (leggasi “sesso”) predicata da Simone Weil: la attività della passività: lascio che l’altro faccia il mio piacere in quanto sono sicuro che in questo modo fa il suo senza averne pensiero. Ma non tanto perché ha pensiero del mio, quanto perché “avviene”, e qui potrebbe starci anche il deserto di Cacciari.
La disponibilità deve essere attribuita al sesso: si potrebbe dire, non basta l’altro senza che egli sia “portatore” di sesso. Allora il sesso è terra e norma, corpo che è pelle e pelle che è geografia dei moti dei corpi l’uno verso l’altro nella reciprocità e nella comunione. Poi quello che avviene avviene.
Corpo e rapporto
Corpo è conviver- “ci”, e “ci” è la relazione. Non esistono dubbi che il “ci” è la reciprocità. Ma reciprocità data da un luogo. Il luogo è sempre il luogo del corpo, proprio per questo si parla di Nomos.
Lunga è la storia del presente dei corpi, ma soprattutto lunga è quella del passato (storico) dei corpi. Il nostro corpo è sede e nello stesso tempo fonte della storia che è il “dato” o il “darsi” che noi diamo all’altro nel momento in cui ci meritiamo il suo amore. L’amore meritato si distingue dall’amore garantito dal fatto che l’uno amante dona all’altro amante (e viceversa) non il proprio Io ma la propria “storia” (un discorso già affrontato), che è costituita dall’Io e da tutti gli altri che quell’Io ha incontrato nel suo tempo fino ad allora.
La nostra storia non siamo noi. Essa è “oltre noi” ed è anche “altra” da noi. Ed è proprio perché noi doniamo (per-doniamo) all’altro anche una esperienza “altra” rispetto al nostro Io che il donare la storia è atto massimo di fiducia e anche di speranza nell’altro dell’amore. Ancora tornano intelligenza e speranza come accoppiata di virtù. Che dalle sue mani non cadrà la nostra storia e che, se cadrà per terra, noi sapremo raccoglierla in quanto abituati a frequentare e battere una terra normata, regolata, “componente” e non “oggetto” della legge.
“Nel suo essere effettivo, l’esserci è sempre come e ‘che cosa’ era –scrive ancora Heidegger -. Esplicitamente o no, esso ‘è’ a partire dal suo passato. E ciò non soltanto nel senso che esso, per così dire, spinge il proprio passato ‘dietro’ di sé e possiede ciò che è passato come una qualità ancora presente che, di tanto in tanto, reagisce su di esso. L’Esserci è il proprio passato nella maniera del ‘proprio’ essere, essere che, detto alla buona, si ‘storicizza’ via via in base al proprio avvenire”. 19
Il sesso è la storia di ognuno di noi, a partire dal passato, in quanto condizione della relazione. E nello stesso tempo è Nomos in quanto ‘posto’ di questa storicizzazione, terra, se vogliamo, promessa.
(Essere-ci = storia, Heidegger p. 38)
Figlio in quanto attore dell’amore e uomo/donna amato/a è coraggio al maschile e al femminile.
Figlio è cercare il rapporto. “’ Pensare il suono di una mano’. Significa cercare il rapporto – scrive ancora Simone Weil – . Cose che non hanno altro essere che il rapporto. Tutte le cose rientrano in questo caso. La verità si produce al contatto di due proposizioni nessuna delle quali è vera; è vero il loro rapporto”. (Weil 3° p. 75)
GUIDO SAVIO
1 Remo Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003, p. 347.
2 Remo Bodei, Geometria delle passioni, op. cit., p. 357.
4 Luce Irigaray, Amo a te, op. cit., p. 123.
6 Umberto Galimberti, Psiche e Techne, op. cit., p. 211
7 Massimo Cacciari, Dell’Inizio, op. cit., p. 167-8
8 Massimo Cacciari , idem,p. 511
9 Massimo Cacciari , idem, p. 511.
10 Emmanuel Levinas, Il tempo e l’altro, op. cit., p. 53
11 Giacomo Contri, Il pensiero di Natura, Edizioni Sipiel, Milano 1994, p. 54.
12 Simone Weil, Quaderni, Vol III, op. cit. p. 191.
13 Simone Weil, op. cit., Vol. III, p. 253.
14 Massimo Cacciari, Icone della Legge, op. cit., p. 146
15 Umberto Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Feltrinelli, Milano 1992, p. 190.
16 Umberto Galimberti, Psiche e Techne, op. cit., p. 61.
16 Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1972, p. 77-78.
17 Massimo Cacciari, Icone delle legge, op. cit. p. 47.
18 Simone Weil. Quaderni, Vol. III, op. cit. p. 308.
19 Martin Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. p. 38.
GUIDO SAVIO