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UNIVERSO: IL TEMPO DI STARE IN REGOLA IN AMORE

L’UNIVERSO (IL TEMPO DI STARE IN REGOLA IN AMORE)

 

 

Universo

 

Afferma Simone Weil: ” Tutto ciò che è meno dell’universo è destinato ad essere sofferenza “. Ciò significa che se io ho un pensiero che sta al di fuori del consorzio umano, della comunicazione umana, io mi ammalo; se poi io ho un pensiero che qualcosa o qualcuno sia al di fuori del consorzio umano, sono io che automaticamente che lo ammalo.

 

Se io isolo l’altro al di fuori dell’universo, al di fuori delle pensiero che egli, attraverso il suo orecchio, possa capire tutto il pensiero umano, significa che io voglio ammalarlo.

 

Ammalare l’altro significa semplicemente tenerlo fuori di noi. Essendo noi per lui una parte integrante di un universo di simili, nel regime della salute.

 

Scrive ancora Simone Weil che: ” Anche se io muoio l’universo continua “. ” Che l’universo intero sia per me in relazione al mio corpo quello che per un cieco è il bastone, in relazione alla sua mano, realmente la sua sensibilità non e più nella sua mano ma sulla punta delle bastone “.

 

La mia visibilità è nel mondo. Il mio io non è più nella mia mano ma nello strumento attraverso il quale io entro in relazione con il mondo. È la propaggine che mi fa essere in relazione con il mondo e questa propaggine è rappresentata dal mio desiderio e della mia volontà.

E il nostro bastone è allora l’amore. La legge dell’amore che è legge in quanto ci unisce all’altro. Attraverso la propaggine sensibile del bastone noi entriamo nell’universo degli altri e da questo universo tiriamo fuori e il nostro sentimento e la nostra emozione. Sensazioni, cuore, sudore, emozioni, tutto ciò che entra nel nostro repertorio attraverso il quale noi possiamo comunicare.

 

Nel suo profondo vidi che si interna legato con amore in un volume ciò che era l’universo si squaterna “. Questa è la terzina di Dante, XXXIII del Paradiso , che prendiamo come punto di riferimento.

 

Tutti gli amori, tutti gli odi, tutte le domande, tutte le risposte che gli uomini che hanno caricato con il loro piede il suolo della terra, si stanno dentro ad un unico volume.

 

Tutti gli amori, tutti gli odi, tutte le domande che sono passate per l’universo si inquaternano all’interno di un unico pensiero. Il pensiero è quello di un Universo che ci allinea, noi tutti esseri umani, alla parità assoluta. Il pensiero è quello che siamo tutti figli dello stesso Padre. Il pensiero è che leggiamo tutti dentro alla stesso libro.

È lo splendore della possibilità e della ricchezza degli uomini tutti di poter dire che tutto, il tutto, sta a dentro ad un contenitore.

 

 

L’amore che mi fa vedere l’altro e sentire l’altro in quanto io sono infilato per lo stesso spago nel quale l’altro è infilato, questo amore è il tramite (il “metaxy” di Platone), è il percorso, l’amore che mi fa sentire l’altro nella sua diversità e nella sua somiglianza a me.

 

Quando Dante parla della donna, dell’amore per la donna, a partire dalla preghiera di Bernardo alla Vergine Maria con cui si apre il Canto XXXIII, in realtà egli afferma che apparentemente è la donna che cambia lo sguardo, che cambia tono di voce, che cambia il mondo di camminare, ma in realtà siamo noi a cambiare. Siamo noi a cambiare in virtù dell’amore che stiamo provando per l’altra persona.

 

 

Amore fa cambiare

 

 

È l’amore che mi fa cambiare. L’amore mi cambia attraverso la legge di relazione che viene posta da me verso la persona che ha amo e dalla persona che ha amo verso me. Immaginiamo che cosa possa essere la nostra vita in rapporto agli altri se noi con questi altri non fossimo infilati per lo stesso spago: un disastro, la perversione della non comunicazione, bensì la malattia della solitudine, il dolore del nostro essere muti.

 

 

L’amore è dunque la condizione per cui si muove tutto l’universo e tutto l’Universo tiene unito. Si potrebbe dire che…. o così muove tutto o non si muove niente. Bene. L’amore fa muovere tutto. Diversamente non ci muoverebbe niente.

 

L’amore non è fermo. L’amore non è il motore immobile di Aristotele. L’amore di Dante e l’amore del moto. Per noi moto è il desiderio del soggetto verso l’altro e la attuazione di tale desiderio: nulla di più ma nemmeno nulla di meno.

 

Dall’amore muove tutto ciò…” Dante afferma che nel momento in cui io amo una altra persona ciò avviene perché io potenzialmente posso e so amare tutto il mondo, tutto l’universo. Nella persona amata c’è tutta la mia potenzialità di amare il mondo. Io non posso amare un singolo e tutto l’universo metterlo da parte. Questo non è possibile. Quando amo “uno” significa che posso amare tutti. Questa e la salvezza che mi è data dalla pratica dell’amore.

 

Ciò che mi ha portato ad amare quella singola persona è il percorso di abilitazione che io ho attuato verso l’amore per tutto il mondo. Pensate a quanta gente ora nel mondo ci sta muovendo per amore. È un pensiero magnifico. Certo c’è anche gente che si sta muovendo per odio o per altri affetti, ma chi si muove per amore lo sta facendo perché sta parlando la stessa lingua che stiamo parlando noi in quel preciso momento. L’amore è universale perché regolato da una unica legge e noi sappiamo che questa legge è la legge istituita da i due i singoli soggetti che in questo momento fanno l’amore. Fare l’amore significa fare la sua legge. Fare l’amore significa fare il bene reciproco cioè la legge vera e propria.

 

 

Che cosa è in fin dei conti la Divina Commedia: errore e correzione. Che cosa è in fin dei conti il viaggio di Dante: errore e correzione. Che cosa è in fin dei conti l’amore? È il passaggio dall’errore alla correzione, è il passaggio dalla malattia alla salute.

Meglio ancora: Dante dimostra attraverso il suo viaggio di guarigione che da guariti si è meglio nel senso dell’amore di quando si era sani prima di ammalarsi, prima di entrare nella selva oscura.

 

Molti santi sono dei guariti e dunque tanto più forti perché passati attraverso la malattia, sono passati attraverso il peccato, sono passati attraverso l’errore. Uomini reduci, pensiamo noi, dalla esperienza dell’errore senza che questo significhi allora vaccinati verso i futuri errori? Affatto. L’errore è inevitabile anche dopo che si è guariti, e la guarigione sancisce la stessa possibilità di errore assieme alla pensabilità pratica della correzione. Noi siamo tutti uguali in quanto predisposti all’errore. Tuttavia la correzione dell’errore ci porta su di un piano di superiorità rispetto alla inesperienza, al non aver avuto esperienza dell’errore stesso.

 

Noi siamo figli di un unico Padre proprio perché siamo passati dalla condizione di errore alla condizione di volontà di correzione dell’errore stesso. Siamo figli in quanto abbiamo lavorato per raggiungere questa meta. La quale meta stabile e fissa non è, ma una meta per così dire in movimento, ri-raggiungibile in ogni momento, traccia per il nostro cammino, strada verso un luogo al quale noi tutti tendiamo: la salvezza.

 

La malattia è inevitabile, la psicopatologia è inevitabile. Se siamo dei guariti, significa che siamo più forti di prima. Nulla di più e nulla di meno.

 

 

La Legge guarisce

 

 

 

La legge guarisce dalla malattia. La legge guarisce dalla psicopatologia. E l’unica legge è la legge dell’amore. Tale legge e istituita da due soggetti che si amano e che si guardano negli occhi. Senza astrazioni dietro le loro spalle, senza fedi, senza religioni, senza ideologie, senza ruoli, senza partiti. Tutto ciò può venire dopo ma non al posto della legge di due soggetti che si scambiano la loro identità e il loro limite.

 

L’esperienza e la clinica affermano che se due persone che non sanno regolarsi nell’amore vanno in cerca di una agenzia terza, di un terzo polo, di una terza e entità che faccia “al posto loro” il lavoro di dare legge all’amore, è il fallimento garantito. Nessuna agenzia esterna può svolgere il lavoro di ricostituzione della legge che due soggetti che si amano fanno tra di loro, guardandosi negli occhi.

 

E il mondo in cui viviamo purtroppo è una continua offerta di agenzie esterne che si prefiggono di regolare “i due” dell’amore: queste agenzie quali la morale, la religione, la moda, il rispetto, il dover essere, l’etichetta, il bon-ton, etc., possono anche funzionare semmai, ma come integrativi , non certo come sostitutivi di una legge che due persone non riescono a darsi da sole.

 

Vangelo, Matteo: se prima di avvicinarti all’offerta ti viene il pensiero che hai una questione aperta con uno dei tuoi fratelli, che hai una rogna con un tuo fratello, fermati, torna indietro e va’ a sanare la questione con l’altro. Dopo torna all’altare e fai pure la tua offerta. Se ho una rogna piantata con il fratello significa che ho una rogna piantata con tutto l’universo. Nel Vangelo la parola “fratello” altro non significa che “universo intero”.

 

Edo Ridotti scrive: “La legge che si fonda sulla questione della regola. Per non peccare e per non errare è necessario seguire una regola. Regula è lo strumento del muratore, regola, una spiaggia per costruire muri diritti. La regola garantisce la correttezza della linea in longitudine. L’altitudo doveva poi fondarsi sul perpendicolo”.

 

Con questa regola io vado in giro per il mondo a fare le mie costruzioni. Con questa regola io vado in giro per il mondo a incontrare l’altro. Con questa regola io vado in giro per il mondo ed entro nel corpo dell’altro nel senso dell’amore. Anticiperei qui che questa regola altro non è che la mia soggettività, la mia spontaneità, la mia naturalità, il mio essere me stesso.

 

La regola non è frutto della ragionamento o della conoscenza ma è frutto del sentire io stesso il mio corpo in relazione all’universo degli altri corpi. Per fare questo è necessario che l’ altro che io incontro nel mondo abbia una “apertura” abbastanza grande per fare e entrare la mia regola.

 

Ma qui si può insinuare subito un pensiero patologico, un pensiero malato che in realtà molti formulano: se io per entrare nell’altro devo restringere o rimpicciolire la mia regola allora significa che non sono più “io”, che non solo più naturale, che ho perso la mia identità, che tu non mi ami e non mi prendi per quello che sono: mi vuoi ridimensionare: questo è il pensiero patologico. E se anche io entro in te, ci entro con una riduzione, con una rinuncia, con una mancanza, con l’amaro in bocca. Pensiero malato.

 

Sappiamo come il pensiero di integrità alla fin fine sia una pensiero isterico. Il passaggio nella relazione attraverso i buchi dell’altro mi garantisce non una perdita ma una acquisizione di ricchezza anche nel momento, anzi soprattutto nel momento in cui io per passare mi restringo.

Il fatto che io abbia ristretto il mio regolo per passare dentro all’altro, questo costituisce la fonte della mia ricchezza, questo costituisce la legge dell’amore.

 

 

Terenzio, il Talmud, e mille altre fonti ci hanno insegnato come il desiderio sia solo quello che è possibile desiderare, non quello che non si può ottenere. Sappiamo benissimo in questo senso che la legge dell’amore è una legge di “compromesso”, (il “metaxy” ancora una volta). La correzione stessa è un atto di compromesso che porta ad avvicinare la mia regola alla regola dell’altro.

 

 

 

 

Compromesso e Giudizio

 

 

Il compromesso è un pensiero di giusta rinuncia senza il patologico correlato pensiero che per me questa giusta rinuncia abbia costituito una perdita.

Il compromesso è quell’atto giuridico che precede il “rogito”. È un atto interlocutorio attraverso il quale due persone saggiano la loro disponibilità ad entrare in relazione per un bene comune, che è concludere l’affare.

 

A questo punto mi sembra evidente che a fare funzionare tutto questo meccanismo, il meccanismo del compromesso, il meccanismo della correzione di un errore iniziale, possa essere solamente la facoltà di giudizio. Giudizio significa stima della convenienza reciproca. Noi due concludiamo l’affare in quanto capiamo che la rinuncia è funzionale all’arricchimento reciproco, anche se inizialmente ognuno parte con il tirare la coperta dalla propria parte.

 

Per questo motivo il giudizio è un atto di amore, anche se a volte io amo anziché giudicare. Amore significa che penso l’altra persona capace di supportare il peso del mio corpo nel momento in cui entra in relazione con lui attraverso il giudizio stesso. Se non avessi questo pensiero di forza nei confronti dell’altro, all’altro porterei una offesa: di essere un incapace. Giudizio significa affermare la propria posizione senza volere offendere, nel senso di non vulnerare, quella dell’altro.

 

Giudizio significa mettere ognuno al proprio posto. Giudizio significa io dico la “mia” senza la pretesa che sia quella giusta e senza l’offesa che la “tua” sia quella sbagliata. Esiste una giudizio di condanna ma esiste anche una giudizio di approvazione. Il giudizio non è un indulto, non è un atto di carità a tutti i costi: è un atto conoscitivo e nello stesso tempo economico che guida la relazione fra un soggetto e un altro.

 

Io penso che noi ci amiamo sapendo anche buttare il nostro peso sull’altro. L’altro può sopportare, ma l’altro può anche cadere. L’amore non può essere garanzia di funzionamento e di riuscita a tutti i costi ma certo è un atto di giudizio (non del tutto disgiunto dalla fede) attraverso il quale io vedo l’altro capace di prendere il mio corpo dentro al “suo” corpo; poi quello che succede succede. Nel momento in cui io ho portato il peso del mio corpo verso un altro significa che lo ho amato per davvero in quanto ho espresso su di lui un giudizio di capacità di amare almeno pari a quello che ho espresso sulla “mia” capacità di amare. Tutto ciò al di fuori di qualsiasi garanzia.

 

Freud nel saggio La negazione è esplicito quando parla di giudizio: giudizio è il bambino di fronte alle cibo: se lo ingoia il giudizio è positivo, se lo sputa il giudizio è negativo. Quello è il bambino, quello è il figlio, quello è l’uomo universale capace di responsabilità di saper rispondere: o sì o no. L’amore ha a che fare con il passare dal sì al no e dal no al sì. Ma l’amore non è certamente forma di censura sul mio stesso giudizio.

E io nel mio giudizio ci credo. Proprio come Dante, crede e dunque ha fede. Poi sul mio credo possiamo anche lavorare in due ma inizialmente il mio credo è un credo al quale io credo. Per la “comunione” dei credo si parte da due singoli credo.

 

Quando io vado dall’altro a porre una domanda, a fare una offerta voglio sentirmi dire dall’altro: o ingoio o sputo, poi farò io i miei conti sulla convenienza della mia relazione con l’altro, ma là sta la logica del giudizio e la formula preliminare per il funzionamento della relazione. Il dramma avviene quando alla mia domanda l’altro non risponde. Il dramma avviene quando non c’è giudizio, il dramma avviene quando non c’è né un ingoiare nè uno sputare. Chi non risponde è perduto nella relazione.

È perduto anche chi risponde male, è perduto anche se si fa finta di non rispondere ma soprattutto il dramma fallimentare della relazione avviene quando i due giudizi non si confrontano su un franco piano di domanda e offerta.

 

 

L’offesa

 

 

 

Ma veniamo al punto. Veniamo alla questione di tutte le questioni: quando non c’è risposta che cosa accade? Si sa che può andare perduta realmente la relazione. Ma quando la risposta che otteniamo, che il bambino ottiene è una cattiva risposta, e spesso la cattiva risposta è una offesa al suo pensiero, allora il bambino si ammala. Il bambino che va dal padre a fargli vedere i suoi disegnetti , frutto di ore di piacere e di sudore, per sentirsi dire un giudizio, e il padre lo tratta con sufficienza, con fare distratto, altro non fa il padre che ammalare il figlio in quanto non risponde correttamente alla domanda. Risponde pane per polenta alla pertinenza della domanda del figlio che sta chiedendo: “Papà, dimmi chi sono” con il suo disegnino in mano. Se il papà risponde tanto per rispondere offende il figlio nella pertinenza della sua domanda che afferma che devi essere tu padre a darmi l’avvio per la definizione di me stesso. Ma se tu ti giri dall’altra parte…

 

Il bambino si ammala nel momento in cui viene offeso nel suo pensiero di costruzione di una propria strada per arrivare alla propria soddisfazione. Se il padre non interviene con una competenza in merito alla domanda del figlio, lo ammala. Se in questo senso il bambino può retrocedere ad un rapporto duale e mitico con la madre. Può crearsi un ambito consolatorio nel rapporto materno dove cercare consolazione, calore, approvazione e altro. Il padre con la sua assenza di giudizio ha cacciato il bambino all’interno del mito materno. Gli ha fatto fare coppia con la madre proprio per il fatto di essersi dichiarato assente di fronte alle sue domande. La stragrande maggioranza delle patologie nevrotiche ha a che fare con la assenza del padre reale in questi termini e con la costituzione di un mito materno della quale il padre è pienamente responsabile. Intendiamo qui per mito materno l’amore garantito: ovvero il bambino non sa andare oltre il pensiero malato che l’amore gli è garantito dalla madre al di fuori di qualsiasi categoria di merito.

 

 

 

 

Il bambino si ammala per davvero nel momento in cui “crede” alla offesa della proprio genitore e se ne fa una propria teoria di vita della quale si servirà nel futuro. Nel momento in cui abbraccia la teoria offensiva del proprio genitore, nel momento in cui si ” allea allo stesso offensore” attraverso il proprio giudizio, il bambino diventa un nevrotico.

 

 

Purtroppo per lui, il bambino non ha capacità giuridica e di stima attiva capace di dare ragione della propria soddisfazione e quindi è costretto a ricorrere al pensiero dell’altro. In questo senso egli si espone al giudizio dell’altro ma anche alla scelta dell’altro che può essere positiva ma anche contraria a quella che egli si aspetta. Il padre che non gli risponde a tono suscita nel bambino una vuoto di giudizio una aspettativa che egli da se stesso non sa a colmare. Tuttavia per fare ammalare il bambino è necessario che egli creda all’eventuale giudizio negativo del padre che molto spesso altro non è che una vera e propria offesa. In questo senso si parla di alleanza con l’offensore. Il bambino poi avrà una vita di relazione per dimostrare il contrario tuttavia sempre una vita impiegata per controbilanciare un giudizio offensivo.

 

Non pensiamo tuttavia che il bambino sia una “vittima passiva” di tutto ciò. Egli si allea con l’offesa, crede al giudizio negativo del padre, che potrebbe anche essere vero, proprio per non lavorare per conto proprio per costituirsi come una soggetto attivo, produttivo, positivo. Il bambino a volte compie un risparmio di fatica e si appoggia passivamente al giudizio anche offensivo dell’altro. In questo senso noi parliamo di “imputazione”: il bambino che a questo tipo di comportamento non è ancora una soggetto imputabile.

 

Amo l’altro nel momento in cui offro anche all’ altro la sicurezza, la relativa sicurezza, che io ho verso il mio giudizio. Dopo, con la regola, il reciproco giudizio ce lo misuriamo tra di noi, ce lo facciamo andare bene attraverso la azione del compromesso. Tuttavia il punto di partenza è un punto di fede. Fede del proprio giudizio e nella capacità che l’altro sopporti il mio giudizio.

 

Del momento in cui l’altro si sottrae al mio giudizio, sottrae la possibilità che il mio corpo possa essere gettato su di un altro corpo nel senso dell’amore.

 

Noi tutti uomini di passione abbiamo fede e coraggio per le cose che diciamo. Dopo sta a a me dare un giudizio di assolutezza o di relatività alle cose della mia passione. Dal momento in cui le giudico relative le posso mettere all’interno della relazione. Dal momento in cui le giudico assolute è meglio che le lasci fuori della relazione. La passione colla cui forza un soggetto sostiene le proprie idee è una garanzia per l’altro. Sincerità e fermezza delle giudizio con cui io manifesto la mia identità. E tale manifestazione avviene sempre nella relazione con l’altro. Nell’amore con l’altro. Per questo la legge dell’amore ha a che fare con l’essere essi stessi. Essere essi stessi limitatamente alla nostra capacità di credere in noi stessi. È sempre una questione di fede.

 

Il giudizio dunque non può che situarsi all’interno di una prassi universale che chiama tutti gli uomini a rispondere, pure nelle loro differenze, in merito al principio di “imputazione” che è un patrimonio tanto soggettivo quanto universale. E’ la regola comunicativa che permette che il Tu e l’Io si “capiscano”.

 

 

Figliol prodigo

  

Il figlio potrà avere una pensiero di correzione del proprio errore soltanto se avrà saputo maturare un altro pensiero, quello che tutto l’universo sbaglia e dunque essendo lui parte dell’universo, anche lui può sbagliare. Sappiamo noi che la parola contraria, la parola avversa alla parola giudizio è la parola “esautorazione”. E esautorazione significa che io demando nelle mani dell’altro la principale forma di autonomia e di identità che io posseggo, ovvero il mio giudizio.

 

“Quanti salariati in casa di mio padre hanno di che sfamarsi ed invece io sono qui costretto a mangiare le carrubbe” così continua il discorso o la ammenda del Figliol Prodigo. E il nostro ragazzo comincia la sua redenzione muovendosi, passando alla azione, così come l’amore del Paradiso è ciò che “move il sole e l’altre stelle”.

 

“Mi leverò, andrò da mio padre e gli dirò: – Padre, ho peccato contro il cielo e contro di Te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni -”.

 

Finora il ragazzo ha solo pensato, forse ha espresso una desiderio o una promessa, ma finora non ha ancora concluso niente: solo parole. Affinché la sua “redenzione” possa avere una realizzazione è necessaria la pratica, è necessario il passaggio dalle parole alla azione. Le parole senza azione costituiscono una ripetizione che va contro il volere stesso, va contro la salvezza stessa, va contro la stessa soddisfazione.

La vera richiesta di perdono avviene quando il figlio getta le braccia attorno al collo del proprio padre e ripete la frase: “Padre ho peccato contro il cielo e contro di Te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.

 

Il figlio esprime al padre come giudizio il pensiero che egli aveva avuto da solo come promessa o come progetto di ritorno alla casa del padre. Il corpo che tocca un altro corpo: questa è richiesta di perdono e dunque possibilità di redenzione. Tutto rimane una mera sospensione fino al momento in cui non si verifica il fatto, l’atto; le parole esprimono la cosa ovvero il desiderio del figlio di essere perdonato dal padre guardando negli occhi il padre stesso. Sovrapposizione di pensiero e azione: questo è l’atto del giudizio e nello stesso tempo è l’atto con il quale avviene domanda di perdono dunque possibilità di redenzione.

 

Il padre, di fronte alla frase del figlio, ha saputo concretizzare il percorso del figlio stesso dal suo pensiero alla azione. Infatti il padre quasi nemmeno bada alle parole del figlio, ma dà ordine ai servi di uccidere il vitello grasso e di festeggiare immediatamente il ritorno del figlio che prima era considerato perduto.

Al padre basta la presenza del corpo del figlio. Il quale corpo si presenta al cospetto del padre dopo aver maturato il congiungimento, la concomitanza di pensiero e azione: penso questo e lo faccio. Proprio per questo il padre ha perdonato il figlio e ha ucciso il vitello grasso. Ha visto il moto del corpo del figlio e tanto gli è bastato.

 

Il padre ha capito che al figlio gli è funzionato il giudizio in entrambi i morti: il moto di andata (“ papà dammi la mia eredità” ) e il moto di ritorno (“ papà perdona il fatto che ho consumato la tua eredità “).

 

Il figlio è il figlio della coscienza e della conoscenza dell’errore. Attraverso questa conoscenza il figlio ha saputo divenire migliore di quello che era prima di sbagliare e dunque si presenta al padre con un vestito nuovo, con occhi nuovi, con una voce nuova, con una nuova identità. La quale identità é la identità del guarito che si pone sempre su di un livello superiore rispetto alla identità del sano. Il figlio verrà perdonato in quanto ha saputo passare attraverso l’errore e attraverso la propria umiltà recedere dalla logica dell’errore per avvicinare nuovamente il padre attraverso la correzione.

Si guarisce soltanto attraverso l’umiltà. Umiltà deriva da “humus”, terra. Cioè uguale per tutti. Tutti per terra.

 

In tutta questa storia, nella parabola evangelica, c’è un solo protagonista: il figlio. Il figlio in quanto ha saputo accedere alla risposta del padre in riferimento al giudizio positivo che egli ha avuto il merito alla sua domanda. Il figlio non ha proceduto con incertezza nella domanda di perdono rispetto al padre (anche se non era sicuro del “si”) in quanto aveva il pensiero sano di padre, cioè quello di una soggetto, di una agenzia, di una identità, di una entità metafisica, trattandosi di Dio, che ha primariamente nel proprio repertorio il volere il bene dell’altro, nella fattispecie il perdono.

 

Il Padre è proprio qui la creazione del pensiero del figlio.

 

In questa parabola ha fatto tutto il figlio, in quanto egli ha saputo avere quel pensiero di Padre, il pensiero di padre all’interno della legge del beneficio: ovvero l’altro vuole primariamente il mio bene. Sta a me chiedere, sta a me porgere la domanda. Il figlio guarito è colui che ha una particolare pensiero di padre: il padre che dice di sì.

 

Il Padre è l’Universo, quello di Dante. “Nel suo profondo vidi che si interna, legato con amore in un volume ciò che per l’Universo si squaterna”. Quello lì è il Padre in quanto amore universale.

 

E quel figlio lì, attraverso il proprio giudizio, è stato anche partigiano di se stesso, ha creduto fortemente nelle proprie cose e anche nelle proprie passioni. Ed in quanto tale, solo in quanto tale, ha avuto accesso all’amore del Padre e dunque all’amore di tutti gli uomini. Esiste una verità, ma noi siamo portatori di tante verità, ed ognuno è partigiano di essa, ognuno ha fede in essa, nel proprio giudizio. Ma direi che è proprio nel momento in cui io mi dimostro fiduciario, entusiasta, partigiano del mio giudizio o della mia fede che posso entrare in libero amore con l’altro. L’altro saprà accettare tutto il mio peso, tutti il peso del mio corpo, se io lo presento con un giudizio sincero e temperato. Temperanza del giudizio. Temperanza della relazione. Temperanza dell’amore. Temperanza che è sapere aspettare e sapere dire il proprio tempo dell’attesa.

 

Il giudizio sul nostro essere non è tanto un giudizio, potremmo dire, epistemiologico, sulla oggettività dell’errore. L’errore di cui parliamo noi ha già insita la accezione della sua correzione. E dunque l’errore funziona per traghettare l’errante verso il guarire. Si passa dall’errore, non se ne può fare a meno. Quando si sbaglia? Direi che non è tanto questa la questione. La questione è rinvenire dentro al proprio errore la possibilità della correzione. Il giudizio di errore non è un giudizio “positivo” ma un giudizio “propositivo”. Attraverso l’errore ci si passa per forza.

 

 

Il Vangelo, quattro o cinque pagine prima, in Luca, dopo della Parabola del Figliol Prodigo parla di come noi possiamo correggere il fratello che sbaglia. Quando il tuo fratello sbaglia, se non capisce il suo errore, parlagli, se ancora lui non capisce il suo errore, chiama un amico per convincerlo, se ancora non capisce, trascinalo davanti all’Assemblea e fallo convincere dagli Anziani. Ma non è questo che ci interessa. Non è la correzione tecnica dell’errore che ci interessa, bensì il pensiero che il soggetto ha di errore e della sua correggibilità in merito alla sua capacità di rapporto con l’Altro, con il Padre. Potenza. Sovranità di entrare come beneficio nella relazione con l’altro. L’errore è ricerca, che se vogliamo è anche sbattere la testa, in ogni caso percorso verso la acquisizione della legge che recita che il mio beneficio deriva dal beneficio dell’altro, cioè dal mio presentarmi bene all’altro in modo che egli mi accolga nel mio stesso errore.

 

Correggere è anche il latino “cum regere”, portare assieme all’altro. Il bene dell’altro io lo ottengo sostenendo l’altro, “cum regere”, facendo la strada assieme dove proprio la strada si fa difficile. Errore, afferma ancora Rigotti, è “perdere la via”, vagare e quindi “de-linquere” e andare “gradus” al di là del solco giusto. Errore è sempre un “aegraedior”, un progredire, non tanto un andare verso la strada giusta o verso la soluzione. Errare è sempre perdere la via, e anche a sbagliare, se si vuole essere ingannati. Ma noi sappiamo che nella storia dell’uomo è inevitabile l’offesa, è inevitabile l’altro patogeno, quello che non ce la racconta giusta. Magari a partire dai nostri genitori stessi, come diceva Agostino.

 

 

 

La debolezza

 

 

Pavese scrive: “Sarai amato il giorno in cui potrai dimostrare la tua debolezza senza che l’altro se ne serva per dimostrare la propria forza ”.

Io correggerei aggiungendo…un pensiero: “senza pensare che l’altro….”. Non possiamo avere la certezza che l’altro non usi forza contro di noi. Ciononostante siamo chiamati a lavorare con il nostro pensiero di fiducia che l’altro non lo faccia.

 

L’altro che mi ama nella mia debolezza me la trasforma in forza. Solo l’altro è portatore della trasformazione, a patto che io ammetta la mia debolezza.

 

 

In amore si dà quello che non si ha. Si offre la propria debolezza, la mancanza perché venga dall’altro riempita. E’ il senso della domanda. E noi veniamo amati per quello che non siamo, per la mancanza che costituiamo di fronte agli altri.

 

 

 

Quello che di verità viene fuori è quello che sentiamo nel corpo. Quello che viene fuori da noi nella nostra natura: Quello che “si consuma”. Lo scambio con l’altro è il mettere la debolezza (della nostra verità) in comunione con l’altro. E’ chiaro che noi abbiamo bisogno di paletti. Ma mi chiedo se poi il parzializzare le nostre conoscenze sia una modalità perversa per non avere relazioni con gli altri.

 

 

Mettere in mezzo qualcosa di terzo, di esterno, o peggio, di estraneo alla relazione, per esempio il rispetto o la tolleranza, cioè agenzie morali o legali che non pertengono la relazione nel suo nascere ma semmai la integrano successivamente (come abbiamo visto in precedenza), significa mettere in mezzo tra me e l’altro una obiezione, un ostacolo. La famosa frase “lo faccio per rispetto” sta ad indicare che se non fosse per questa… parola, io per te non farei un bel niente. Allora lo faccio perché sento un bisogno, una necessità, una sudditanza esterna che mi fa muovere, altrimenti non mi muoverei. Ma questo non basta nella relazione, anzi, la manda in malora, proprio perché la relazione chiede una sua “legge interna”, pattuita tra i due che la vivono e la spartiscono tra loro.

 

Io posso anche vivere con attrito la relazione, purchè sempre abbia il pensiero di un IO e un TU che vivono una certa comunione dei corpi.

 

Mettere in mezzo una istanza terza nella relazione spesso significa pervertire la relazione stessa. Il Tu della relazione è uno che incontro, non che programmo.

 

Dalla “Imitazione di Cristo”. Commento al Salmo 31 che recita: “Confesserò contro di me il mio peccato”.

 

La frase non è perversa in quanto può richiamare una non ben distinta punizione, o cilicio, o fustigazione, o cenere sul capo, ma perché è una frase con una profonda finalità che “va fuori” dalla naturale relazione con l’altro. Non è possibile rivolgere un proprio peccato contro di sé. Semmai io parto dal mio peccato per arrivare da qualche parte, magari alla “redenzione”. Ma non certo per fare peggio… sarei un masochista… oppure un bugiardo.

Uso la mia debolezza, il mio peccato, attraverso la bugia, come strumento per offendere qualcuno.

 

La mia debolezza – si legge ancora – mi appare in modo chiaro dal fatto che proprio i pensieri che dovrei avere in orrore sono molto più facili a piombare su di me che andarsene” (dalla Imitazione di Cristo)

 

Chi dice di non essere capace, chi si mette in un angolo, chi sfrutta la propria mancanza per non avere relazione franca e sincera con l’altro, per non costruire, costui usa in modo perverso la propria debolezza.

 

 

Altro piccolo esempio di uso perverso della debolezza.

Montaigne, Saggi, II, cap. XII: “La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più disgraziata e la più fragile di tutte le creature è l’uomo e, tuttavia, la più orgogliosa. Si sente e si vede alloggiata qui, tra la melma e lo sterco del mondo, attaccata ed inchiodata alla peggiore, alla più morta e corrotta parte dell’Universo, all’ultimo piano della casa, ma al più lontano dalla volta celeste, con gli animali della peggior condizione, tuttavia s’immagina di porsi al di sopra della sfera lunare e di poter mettere il cielo sotto i propri piedi”.

 

A parte la truculenza similmasochista di questo passo, io non posso considerarmi “lo sterco del mondo”. Non posso impunemente nominarmi “vittima, imbrattatore, untore, o peggio”. Non posso “usare” la mia diversità. Se mi considero lo sterco del mondo significa che sto lanciando sterco contro tutto il mondo. Peccato mortale è la strumentalizzazione della propria debolezza. Strumentalizzazione significa quel “fuori misura” che mi tiene lontano dal lavoro di correzione e di redenzione.

 

 

L’uguaglianza deriva e discende dal Padre. Questa è la nostra vera eredità.

 

Il Padre giovane. Se quelle cose le ha fatte lui, le posso fare anche io. Il padre mi ha sdoganato la mia libertà e il mio piacere essendo e dimostrandosi egli stesso debole. Accettando la debolezza del Padre io sdogano la mia “forza”, superando la mia vergogna, perché non mi vergogno a farmi vedere ubriaco fradicio per terra (Noè docet), in quanto ho bevuto e ora sto bene. Lungi io dall’essere un alcolizzato. Domani è un altro giorno.

 

 

Il limite della debolezza ha a che fare con l’etica della responsabilità.

 

E l’etica della responsabilità ha a che fare con lo stare al proprio posto.

 

 

Universo II

 

 

Universale è uguaglianza in quanto si nasce dal Padre ed è diversità in quanto si nasce dal Padre.

 

Tempo soggettivo e tempo oggettivo non sono poi tanto lontani da loro come a prima vista potrebbe apparire.

 

Scrive Remo Bodei: “Ma è proprio attraverso questa visione ‘sub specie aeternitatis, attraverso il ‘filtro’ di un universale, che incorporandosi nel concreto, ha perso la sua natura generica, che io conosco il singolo oggetto o persona nella ricchezza delle sue determinazioni. In tal senso l’univeralità travalica la scienza intuitiva e la sua potenzialità e si attualizza nelle ‘res particulares’: ormai non è più conoscenza disinteressata e freddamente equilibrata, ma lucido interesse sbilanciato sul multiforme ‘squadernarsi’ della sostanza divina che si manifesta perfino in quei combattimenti di ragni contro mosche che Spinoza, a detta di Colerus, primo biografo del filosofo, sembrava osservare volentieri e perfino provocare”

(Filtro universale, Bodei, in G. P. p, 358)

 

Il nostro senso di essere ha bisogno di universo per essere senso. Ha bisogno di distendersi dentro un bacino di capienza molto più ampio della contingenza perchè l’esperienza stessa, e specie l’esperienza d’amore, proceda verso uno stato di soddisfazione. Noi siamo soddisfatti quanto “facciamo come fa il mondo”, ovvero quando “sentiamo” quello stato paritario con gli altri per cui la nostra esperienza ha appunto un rispecchiamento. L’Universo è il rispecchiamento senza il quale esiste il pericolo di perdita di senso della nostra singola esperienza. Ecco perché Universo è Padre e Padre è universale: perché rende comprensibili e comunicabili e dotate di senso le nostre singole esperienze, specie le esperienze relazionali.

 

E nello stesso tempo abbiamo soddisfazione quando riusciamo a lanciare la nostra esperienza verso l’infinito, verso un tempo infinito. Quando sentiamo che il nostro amare ha ed è un “oltre”. Come se il passato e il futuro della nostra relazione a sua volta avesse bisogno di un contenitore che ne fissi il valore ma anche l’esistenza stessa. Come ha modo di scrivere Cacciari:

“Ciò che è sempre AION spiega e ‘salva’ il sempre di Cronos. (…) Certo di Cronos si predica l’”era” e il “sarà”, cosa impossibile per l’AION (l’aion è la fissità dell’infinito che serve per permettere le funzioni del tempo)”.

(Cacciari,p. 263 e segg.)

 

 

In altre parole, la nostra esperienza d’amore, per avviarsi nella strada della soddisfazione ha bisogno di un campo più ampio, che può anche essere non del tutto conosciuto e non del tutto intelligibile, per collegarsi all’esperienza dell’altro (degli altri esseri umani) che al pari nostro amano. Ci si riflette sugli altri e ci si riflette sul mondo. Un dare – avere. Un domandare rispondere.

 

“ Ri-flettere non è dunque costruire il mondo – scrive Galimberti – ma restituirgli la sua offerta, non è nemmeno un atto deliberato, ma lo sfondo senza il quale nulla potrei deliberare (AION, UNIVERSALE).Per quanti sforzi faccia quando ‘rifletto su di me’, ciò che trovo non è mai la mia interiorità, ma la mia originaria esposizione al mondo.”(Gal. P. 36)

 

E il Diritto come Costituzione del singolo soggetto viene sempre dall’altro.

 

Diritto significa: parto da me (e non potrebbe essere altrimenti), nel mio autorizzarmi ad essere soggetto e dopo questo primo passo, vado per il mondo a toccare altri corpi nelle relazioni che io mi autorizzerò a ritenere più vantaggiose per me. E questi corpi in questo modo sanciscono e legalizzano il mio: la costituzione viene sempre da fuori. Tutto ciò può addirittura entrare nell’ambito, anzi, ci entra a pieno titolo, della “appartenenza”. L’appartenenza è quella dell’esperienza dell’amore che a pieno titolo diviene L’universale da esperire, senza il quale due che si amano non troverebbero il bandolo della matassa per passare dalle parole alle azioni. Come scrive Kierkegaard.

 

“Mio non è ciò che mi appartiene, ma ciò a cui appartengo”.

 

O come esalta Levinas:

 

“Io non ho mio figlio. Io ‘sono’ in qualche modo mio figlio”. E solo in questa logica di appartenenza ad una esperienza universale noi possiamo accettare la Necessità come un dato che favorisce anziché impedire o ostacolare la soddisfazione (ricordiamo il punto di partenza di Agostino)

 

Tutto quello che apparentemente sembra una privazione della libertà del soggetto (e noi la possiamo chiamare benissimo ‘necessità’), in realtà è l’unico modo che noi abbiamo per guadagnarci il piacere come esperienza universale. La necessità è per tutti. Il piacere è per tutti. Esperienza.. In quanto se ci si ribella alla legge della necessità (chiamiamola anche alterità dell’altro), va a finire che il nostro pensiero e anche la nostra azione si riducono ad autoerotismo. L’autoerotismo non è necessario. L’autoerotismo è volontario. E nella volontà è custodita anche la psicopatologia.Limitazione inevitabile / Necessità, p. 67

 

Articolo del Corsera di mercoledi 12 dicembre 2001. Presentazione del libro di Severino ‘La Gloria’: nell’aldilà ci spetta necessariamente la felicità?”. L’intervistatore chiede: “Le pongo una domanda antica: se questa è la vera dimensione (la felicità garantita nell’aldilà); perché nel mondo esistono male e sofferenza? – Risponde Severino: “la gioia è completa perché non è oblio del dolore, ma lo conserva integralmente, oltrepassandolo. (…) Senza il dolore non ci sarebbe la gioia. “katà tò kreòn”. Si ritiene che con queste parole inizi il testo più antico del pensiero occidentale. Il frammento di Anassimandro tramandatoci da Simplicio nel suo commento alla ‘Fisica’ di Aritsotele. Una loro traduzione letterale potrebbe essere :’secondo necessità”. Oppure ‘secondo ciò che deve essere’, ‘secondo l’inevitabile’, ‘secondo il destino’”. Il “il y a” di Levinas” C’è ed è così. Non esiste evasione possibile. (Necessità e felicità (Severino, p. 68-69).

 

 

Ancora sulla norma in Kelsen e il Beruf in Weber

 

 

 

“Essa stessa (la legge) non è una norma prodotta dalla consuetudine o da un atto di organo giuridico, non è una norma positiva, una norma ‘posta’: è una norma ‘presupposta’, poichè si considera l’istanza costituente come la massima autorità e dunque non la si può considerare autorizzata a statuire una costituzione in base ad una norma costituita da una autorità superiore”(Kelsen p. 71-2) Questo afferma Hans Kelsen nel suo capitale “La dottrina pura del Diritto”. Noi potremmo tradurre che la legge dell’amore è statuita da sé in quanto autorità superiore che “voca”, chiama tutti gli uomini, indipendentemente poi dalle singole loro esperienze.

 

“ Ciò che l’uomo deve accettare, a cui si deve adattare” è la “Beruf” weberiana, la chiamata rappresentata dall’Amore.

 

La norma è già presupposta. La norma dell’amore è già lì significa che esiste come contenitore delle esperienze che i desideri degli uomini vogliano intendere come legali. E solo il loro essere legali li porta al piacere. Potrebbe essere nel corpo dell’amore questa legge, nell’amore come corpo. Ma questo è un dato secondario. Importa che la norma sia già là, esistente anche quando noi eravamo nel pensiero di nostro Padre.

La forza della norma sta nel fatto che esiste un antagonista. Il Padre può essere un antagonista nel senso dell’invito al moto del corpo per arrivare alla meta. Il Padre è il punto di appoggio, come quello del barone di Munchausen, appoggio che è necessario affinchè venga accettato il principio di necessità, ovvero che le cose stanno così e non in modo diverso da così. Che noi due saremo sempre due realtà distinte, ma sempre due realtà che vivono soltanto se possono restare nell’ambito della relazione. Appoggio è il modo per sollevare il mondo. Apoggio all’altro. Appoggio al proprio corpo.

 

“Se l’altro è il termine del nostro desiderio, non lo si accoglie, lo si mangia. L’altro lo si accoglie se si vede in lui la corrispondenza, una fraternità, se in lui ci si completa. Da questo punto di vista, e paradossalmente, si diventa liberi attraverso la preliminare, giusta e profonda esperienza del legame: un legame di liberi, non di dipendenti. Accomunati dal progetto, nel compito, nella disperazione” scrive Natoli.

 

 

L’uomo della “mano”, della potenza, che riesce a pervenire alla soddisfazione passando dal budello della clessidra senza sfondarlo (e qui lego il mio pensiero di potenza al Beruf) è l’uomo che si sente chiamato, che si sente chiamato dall’altro a fare quella roba lì e assieme a quella roba lì una infinità di altre cose, sempre pensandosi un soggetto sul quale qualcuno ha fatto un investimento, un soggetto chiamato da qualcuno, un soggetto il cui successo piace a qualcuno. Troppo semplice qui l’aggancio al pensiero di Padre. La chiamata del Beruf è il chiamare del Padre che autorizza il Figlio verso la soddisfazione. Chiamato e conosciuto da qualcuno, come afferma Levinas: “L’uno è per l’altro ciò che l’altro è per l’uno; non c’è per il soggetto un posto eccezionale. L’altro è conosciuto per mezzo della simpatia, come un altro me stesso, come un alter ego”.

 

Scrive Weber: “Nel concetto di Beruf trova dunque espressione quel dogma centrale di tutte le chiese protestanti che respinge la distinzione cattolica degli imperativi morali (…) e secondo cui l’unico modo di essere graditi a Dio non sta nel sorpassare la moralità intramondana con l’ascesi monacale, ma consiste esclusivamente nell’adempiere ai doveri intramondani, quali risultano dalla posizione occupata dall’individuo nella vita, ossia dalla sua professione, che appunto perciò diventa la sua ‘vocazione’ (Beruf)”.

 

Lavoro come… professione di fede. Lavoro come ricerca di un segno che da qualche parte esiste e che testimonia come a fare di noi quello che facciamo nella vita… qualcuno ci ha chiamati. A noi interessa relativamente la disanima weberiana e la sua distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo. Tanto ci basta questa splendida idea che il lavoro è chiamata. Cioè facciamo quella cosa lì e non altro, e chiamati siamo a farla con passione. Qualcuno ci ha chiamati, ci ha chiamati al nostro posto, ad avere un posto nel Mondo. Afferma Laing in L’’o e gli altri: ““Ciascun essere umano, fanciullo o adulto, ha bisogno che gli venga riconosciuto un significato, e cioè un posto nel mondo di un’altra persona”. Lo sappiamo: viviamo nell’altro e dell’altro. Il nostro desiderio è il desiderio dell’altro.

 

 

E la chiamata non si ode nel rumore assordante del vortice del mondo, ma si ode nel silenzio. Anche il silenzio della solitudine, come ha modo di annotare la Irigaray: “Ti ascolto: favorisco l’emergere di un non-avvenuto, di un divenire, di una crescita, talvolta di una nascita. “Ti ascolto” lascia spazio al non-ancora-codificato, per il silenzio, preserva un luogo di esistenza, di iniziativa, di libera intenzionalità, di sostegno al tuo divenire. (…) Questo silenzio è possibile grazie al fatto che ne io né tu sono un tutto, che siamo entrambi limitati, segnati dal negativo, differenti senza gerarchia”. Il nostro essere segnati dal negativo è la nostra ricchezza, unico richiamo per l’altro. Necessariamente la mancanza deve vivere.

 

E ricordo che vorrei, se ci riesco, legare il concetto di Beruf a quello di necessità. Scrive qualche pagina oltre ancora Weber: “Il Beruf è ciò che l’uomo deve accettare, a cui si deve adattare perché esprime una disposizione divina (noi ci accontentiamo di dire “paterna”): questa tonalità soverchia l’altro pensiero che pure è presente: come il lavoro professionale sia un compito, o meglio, il compito assegnato da Dio”. Mi pare che sia bene sottolineare il concetto di adattamento e di accettazione della realtà esterna a cui Weber fa riferimento. Per noi questo pensiero corrisponde alla accettazione della necessità, alla visione del mondo come un mondo libero se io lo intendo libero e carceriere se io lo intendo carceriere.

 

Parliamo sì di dovere, ma un dovere più umano, più sciolto dal Super-Io, più libero appunto, meno cogente. Il dovere che sta dentro alla necessità non è il dovere della costrizione o del “devi per forza” o peggio del “devi patire”. Stiamo parlando del dovere che nobilita chi di esso ha un pensiero di libertà. E castiga chi di esso ha un pensiero di castigo. Il dovere ci lancia verso la libertà. Il Beruf è ciò che l’uomo deve accettare, ciò che egli deve naturalmente intendere come necessario. Abbiamo visto come il Talmud reciti che “Felice è chi è contento della propria parte”. L’adattamento del soggetto all’altro, l’adattamento del desiderio ad Altro è un dato di libertà, non può che essere inteso come un dato di libertà, allo stesso modo in cui io intendo che le regole della necessità (che sono quelle del mondo e della realtà) sono un dato di libertà.

 

Poi per me, soggetto laico, che il mio lavoro professionale sia un compito che mi è stato assegnato da Dio può essere un completamento di un mio pensiero precedente di chiamata che sento io autonomamente . Che poi dietro, sopra a sotto, ci sia Dio, questo viene in una seconda istanza.

 

Norma

 

 

 

Natoli nel suo L’esperienza del dolore parla della “innocenza” del Destino e del Dolore a fronte del tentativo delle religioni giudaico-cristiana di darne una “giustificazione”.

 

Ritratta della scoperta dell’attrito che avviene nella relazione tra soggetto e altro, l’attrito che avviene quando il mio desiderio incontra il desiderio dell’altro. E’ l’attrito dato dal fatto che il mondo esiste nel modo in cui vuole lui e non in quello che voglio io, l’attrito dato dal fatto che ciò che avviene, avviene per necessità, all’interno di regole necessarie. Anche se il corpo vorrebbe andare oltre le regole come sostiene Galimberti: “Ma il corpo trabocca dalla legge, da quell’istanza che tenta di fondare una lingua unica per uniformare i molteplici linguaggi del corpo”.

 

Giuliana di Norwich. Lady Giuliana di Norwich faceva parte di un gruppo di mistici che vivevano a cavallo tra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300 che si chiamavano Friends of God, Gli amici di Dio. Si scrivevano delle lettere, delle poesie, tipo chat o e-mail di adesso, in cui ognuno interveniva sul lavoro dell’altro, sulla scrittura dell’altro, e ne venivano fuori delle composizioni a tema mistico-religioso a, possiamo dire,… cento o duecento mani!

 

Giuliana scrive: “ Tutto sarà bene, ogni sorta di cosa sarà bene, malgrado l’incombente”. Io mi sono permesso qui questa lettura. Andrà tutto bene nella nostra vita. Tutto. Ecco, l’incombente a mio modo di vedere non esiste. Non esiste niente che ci minaccia da sopra alla testa. Non esiste nessuna spada di Damocle che ci limita i movimenti… pena la morte.

 

Scrive Ricoeur nel suo saggio titolato Il Male : “Allora noi crediamo in Dio a dispetto del male (conosco la confessione di fede di una comunità cristiana in cui ciascuno degli articoli, secondo un piano trinitario, comincia con la parola nonostante). Credere in Dio, nonostante… è uno dei modi di integrare l’aporia speculativa nel lavoro del lutto”.

Ovvero: pensare che prima c’è il male, e poi il bene ci farà i conti assieme e forse ne uscirà vincitore, è un pensiero perverso. Nel senso che si parte dal Nulla. Per affermare il bene bisogna prima sconfiggere il male preesistente: questa è perversione. Certo Giuliana intendeva il male incombente, le rogne del mondo che certamente esistono. Ma un conto è vedere il male nella realtà (che c’è) e un conto è farlo entrare nel nostro pensiero e nella nostra volontà.

 

Dunque noi siamo la nostra stessa volontà che è il nostro lavoro all’interno della legge della necessità. E per tornare all’ incombente di Giuliana mi sento di dire ancora una volta che tutto va bene basta che noi lo vogliamo. Poi può andare anche male, ma… va bene lo stesso. Di più, ragionando, non saprei dire. Ma sento che è così.

 

Ancora. Un pensatore che ci potrebbe apparire mille miglia lontano, Ludwig Wittgenstein scrive: “Seguire una regola è una prassi. E’ proprio per questo che non si può seguire una regola privatim.

 

Come a dire che la regola vale solo se vale per tutti. Ma non solo. La regola vale se io la faccio funzionare nella relazione con l’altro. Nel mio essere io la regola è monca di una parte, cioè dell’altro. Continua: “Come potremmo descrivere il modo di agire degli esseri umani? Solo descrivendo le azioni degli esseri umani nel loro brulicante intreccio. Non quello che uno fa in questo momento, ma l’intero brulichio delle azioni è lo sfondo sul quale noi vediamo la nostra azione”. Noi vediamo il nostro agire, il nostro fare, il nostro fare morale solo sullo sfondo dell’agire di tutti gli altri, sullo sfondo dell’universo, sullo sfondo del nostro essere uguali agli altri.

 

In questo senso lo slogan “essere uomini è essere figli” trova qui una sua ulteriore e più profonda significazione. Privatim (ognuno per conto proprio, ognuno nel proprio orticello…) non c’è legge, non c’è regola. Quello che facciamo noi non lo vediamo solo in quanto lo facciamo noi ma lo vediamo… proiettato in un contesto universale costituito dallo sfondo degli altri. Solo in questo senso c’è salvezza. Io sono convinto che noi non possiamo avere un nostro pensiero privato di salvezza. La salvezza è un pensiero comune e universale al quale noi attingiamo come singoli individui, è già là. Oltre che una pratica di questo tipo. Ci si salva con l’altro.

 

 

Legge e rapporto (Wittgenstein p. 137)

 

 

 

 

Obbedienza

 

 

Obbedienza è ob-audire latino e ipo-akuein greco che significa sostanzialmente “ascoltare ciò che sta dietro”. L’obbedienza non è un comando del tipo “ascolta quello che ti dico io”, ma è un lavoro di ragionamento per cui io capisco quello che sta dietro le parole che l’altro mi dice. L’obbedienza è un mio lavoro personale sulle parole dell’altro, non è un prendere alla lettera, un bermela. C’è differenza tra dire e fare capire.

 

Scrive ancora Natoli, : “Ob-audio, ascoltare, non significa porgere un generico ascolto alle parole degli altri ma l’intendere le parole dell’altro come potenzialmente normative per sé”. Ciò significa, che quando uno parla, se io sono un cretino sto sempre lì a sindacare, se sono furbo cerco di tirare fuori quello che di buono l’altro mi dice e il tristo lo lascio a lui o lo restituisco al mittente. Questo significa ascoltare.

Molti genitori per definire il figlio disobbediente usano l’espressione: “Non ascolta mai!”. Non è questo l’ascoltare di cui stiamo parlando. Obbedire significa usare la propria Psicologia. Questo significa avere un buon pensiero di economia: ascoltare ciò che sta dietro, ciò che non appare subito. E’ anche qui una questione di tempo, di saper usare il tempo nel senso di saper aspettare. E con questo ho chiuso la postilla sulla obbedienza.

 

 

 

 

 

Libertà e Legge del Padre

 

 

 

Edipo è rapporto con il Padre in quanto padre . Il Nome del Padre è normativo in quanto esiste un padre reale che ne sostiene la voce.

 

“Dal punto di vista della semantica e delle immagini sociali, la madre è schematicamente dal lato della natura, della animalità, dell’incesto, del crudo in cucina, del reale non rappresentabile e non simbolico, mentre il padre starebbe dal lato della cultura, del cotto, dal simbolico, della regola della strutture elementrari, della parentela, dei miti, del linguaggio”

( Nome del Padre, Funzione paterna p. 83-83)

 

Non esiste alcun dato inconfutabile che il Padre sia al maschile per “storicità” o materialismo della sua posizione e del suo ruolo in seno alla famiglia il rappresentante della autorità. Realmente il Padre è una metafora. Non linguistica ma utilizzabile da ciascun pensiero operativo, come evidenzia J. Dior:

“ Riassumendo la concezione lacaniana, J Dior scrive così: ‘ Operatore astorico nel momento stesso in cui – e non contraddittoriamente – è punto di origine della storia, depositario di una legge che gli viene da altrove, determinazione terza nella logica di una struttura, detentore del fallo, il padre simbolico come entità astratta e universale ordina una funzione. Unico padre veramente operante nell’Edipo (in rapporto al padre reale e al padre immaginario) esso è di fatto una metafora, un puro significante. Il nome del padre proponendo all’infans uno spazio di ripartizione, assegnandolo ad un a parola, struttura il suo ordinamento psichico (.La funz. Paterna, p. 82)

 

Non è portatore di eventi storici il Padre ma di accadimenti mitici. Ma c’è da intendersi sulla parola “mitico”. Mitico è una istanza “pronta per l’uso” che serve per “spiegare” razionalmente ciò che razionalmente spiegabile non è, come scrive Kereny. E mitico è un pensiero assolutamente pratico perché porta ad una “soluzione”:

 

“Per la stessa ragione la teoria fondamentale di Freud ancora domina – e dominerà . Anch’essa è mito, un mito che indossa l’abito adatto alla ‘nigredo, alla coscienza nera del materialismo scientifico (…) Scrisse Freud ad Einstein: ‘ Lei ha forse l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza ad una sorta di mitologia? Non è così anche per lei oggi nel campo della Fisica’ “(Edipo/Mito/Legge, Kereny, p. 86)

Il Padre non è rappresentante della Scienza ma della Legge, proprio perché non può “incarnare” il cosiddetto “soggetto supposto sapere” al quale il nevrotico delega il proprio non conoscere la propria competenza in merito alle sue stesse questioni. Ma non solo il nevrotico, bensì anche il sano esprime un “sano” desiderio che esista un altro, o un Altro, che conosca al posto suo. Un altro a cui delegare la propria competenza (che diviene incompetenza): il Padre non raccoglie questa delega, ma rimanda al “figlio” la sua stessa incompetenza perché la curi e la corregga. Tutti noi siamo figli proprio perché “tendiamo” verso l’altro, anche nel senso della delega. E la delega è debolezza, se vogliamo “sana” debolezza. Debolezza del Figlio che si pone libero e desiderante verso un Padre altrettanto debole. Come Freud nel suo famoso episodio del padre e del cappello e dello schiaffo:

 

“Così, sotto i travestimenti abili o trasparenti, sublimi o grotteschi di cui il sogno si compiace, Jacob Freud è il vero eroe della ‘Traumdeutung, un eroe molto poco eroico, è vero, ma teneramente amato e circondato da un immenso rispetto; venerato ma anche odiato in quanto ostacolo e rivale”.Jacob padre amorevole,   (Robert, p. 121)

 

Freud è figlio dell’Edipo, è… figlio di… dunque competente in amore per il genitore. Il pensiero di essere figli di… è il pensiero della salute. Il più pratico dei pensieri perché ci rimanda direttamente verso l’amore. E l’amore rimanda sempre alla nostra identità: siamo “Noi” in quanto amati. Altrimenti non saremmo nessuno. E non essere nessuno significa vagare nel disordine. Le psicopatologie che hanno a che fare con la identità infatti riguardano sempre una questione di ordine. E l’ordine riguarda sempre una questione di limite. Scrive Galimberti:

 

“L’identità non è una sostanza autosufficiente, ma è una sintesi coordinata che conferisce un determinato ordine ai rinvii ad altre esperienze possibili. In questo senso l’identità è sempre un sistema, la sua stabilità non è basata su un nucleo essenziale invariabile la cui scoperta è compito della conoscenza, ma sul mantenimento della sua funzione ordinatrice di una esperienza coerente e orientata in senso sociale.(Identità non è autosufficiente ma spazio di libertà, Luhnman in Galimberti P.T. p. 574)

 

La costituzione della nostra identità è sempre una offerta che viene da fuori, che viene da qualcun altro, il Padre nostro pensiero ordinatore che ci rimanda in continuazione verso un lavoro su noi stessi, un lavoro del capire ma soprattutto del sentire la norma.

 

 

 

Norma che recita: il piacere non è vincolato ma sta nella relazione. A partire della prima relazione che il bambino può pensare e sperimentare. Dalla prima che può, anche a malapena, immaginare:

 

Renè Diaktine scrive:’ Non si può pensare la funzione paterna senza pensare la funzione materna e senza pensare i legami privilegiati del padre e della madre’. Tocchiamo un punto importante: il bambino ha bisogno di un padre e di una madre e di pensare che i suoi genitori si sono amati e lui è il frutto del loro amore”. (la funz. Pat. P. 144).

 

Questo pensiero lo immette direttamente su di una dimensione universale. Lui bambino che, per merito di questo pensiero, diventa Figlio uguale a tutti gli altri figli di questo mondo. Dimensiona la propria identità sul fatto che “deve” relazionarsi con altri bambini che, proprio in virtù di questa relazione, diventano per lui Figli, uguali e lui. Si forma la sua personalità perché personalità è innanzitutto stare dentro all’Universo. Dove la sua conoscenza presto acquisisce il dato economico che sostanzialmente recita:

“Il prezzo lo fa il mercato”, cioè la relazione. Il mercato è l’universo e il suo prodotto diviene la soddisfazione. Il suo produrre (soddisfazione). Il mercato è il lavoro, qui la soddisfazione (e il bambino sano è colui che impara “presto” a lavorare, ovvero a usare la domanda. Il profitto è il profitto che tutti sanno che si trae dall’amore.

 

 

 

Non esiste norma “in” qualche cosa ma norma “come” qualche cosa: e la norma è solo paterna. Tutte le norme successive emanano dalla norma paterna che recita che il Figlio è “stato voluto” da un atto che ha la sostanza dall’amore. E l’amore è un atto puro. Non nel senso della morale ma nel senso della logica. Atto puro aristotelico: avviene nel suo avvenire e lascia le conseguenze del suo avvenire.

 

 

Il diritto non è subordinabile ad un altro diritto: l’incipit è un atto puro. E la purezza dell’atto è data da un “ri-conoscimento” della nostra identità frutto a sua volta della purezza del primo atto: il rapporto sessuale tra un Io e un Tu che si amano.

 

 

 

 

La posizione della norma vede sempre due soggetti: a) che dice: “ tu sei il mio sposo”; b) che dice a sua volta: “ tu sei la mia sposa”. Ognuno, l’uomo e la donna dell’amore sono portatori del loro diritto ad amare e del loro diritto ad essere soggetti. Diritti dei quali il primo, quello di amare (ed essere amati) è un diritto giuridico, come scrive ancora Kelsen:

 

“La persona fisica o giuridica che “ha” (come titolare dei medesimi) doveri giuridici e diritti soggettivi, ‘è’ questi doveri giuridici e questi diritti soggettivi. (…) La persona è soltanto la personificazione di questa unità.”(persona fisica, kelsen, p. 197)

 

E questa “persona” è chiamata a fare un percorso. Un percorso verso la propria libertà dalla inibizione, verso il proprio giudizio a “rinunciare a rinunciare” che è la massima della salute. Sta a questa persona confrontarsi con il male insito nelle cose, nelle esperienze, nelle relazioni, nell’amore stesso, ben tenendo presente tuttavia che è solo il proprio giudizio sancisce il bene o il male, come Kelsen afferma chiaramente:

“Non ci sono ‘mala in sé’, ma soltanto ‘mala prohibita’. Del resto questa è soltanto la conseguenza del primncipio generalmente riconosciuto in diritto penale ‘ nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege’”.(mala in sé, Kelsen, p.134)

 

 

La norma fondamentale della relazione (come quella della analisi) è non omissione e non sistematizzazione . La stessa norma che regola un rapporto analitico: non taccio nulla del mio pensiero (ma posso fermarmi dove il mio pensiero potrebbe diventare offesa) e nello stesso tempo non sistematizzo, ovvero non faccio scienza del rapporto, in quanto il rapporto è libero se i due accettano l’avvenire del rapporto stesso. Se lo sistematizzassi determinerei ancora offesa al rapporto.

 

La modernità è che la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge (debolezza, Spinoza/Agostino)

La fantasia di onnipotenza infantile, ad esempio, potrebbe essere una tentazione (non un peccato) nel versante della sistematizzazione, l’avere tutto sotto controllo, nell’avere “tutti” sotto controllo (imbecillitas sexus imbecillitas aetatis). Ma il bambino imparerà crescendo che anche questa sua fantasia si sistematizzazione è sanzionabile. Ma in questo modo il bambino impara anche la strada della libertà che recita che egli è responsabile dei suoi responsi, dei suoi atti e dei suoi pensieri pratici.

 

Kelsen a proposito afferma che ad ogni comportamento consegue una sanzione individuale: esiste solo la sanzione individuale in quanto siamo liberi perché siamo imputabili. E proprio perché imputabili noi siamo amabili, amabili non da uno o da una ma da tutto l’universo.

 

 

L’universo infatti si costituisce dal momento in cui esiste almeno una partnership con un rappresentante dell’universale. Come annota Galimberti, sostituendo al concetto di universo il concetto di società/civiltà:

“Ciò significa che le singole identità non esistono prima che le regole giuridiche, riconoscendole, le istituiscano, e perciò al singolo individuo con la peculiarità delle sue caratteristiche subentra il ‘cives’, prodotto dal riconoscimento della legge che, trasformando la realtà sostanziale della singola identità in categoria funzionale dell’ordinamento, cancella la ‘tipicità’ degli individui nella ‘uniformità’ dei cittadini”:

(L’io non viene prima della legge/rapporto, Galimberti, P.T. p. 552)

 

 

 

 

Dire allora che “uomo e donna non si nasce ma si diventa” significa ribadire i due tempi del nostro giudizio quando entriamo in partnership con un rappresentante dell’universo in quanto vediamo in lui a) l’altro che soddisfa il nostro desiderio (primo tempo del giudizio); b) l’altro del nostro desiderio è un altro sessuato, e qui è accettata la differenza (secondo tempo del giudizio).

 

 

Il secondo giudizio significa “genitale” / “universale”, che vuol dire che non ci sarà perversione, ovvero i due sessi sono presenti ovunque. Saranno sempre presenti da quel momento in poi.

 

La universalità è il soggetto concreto di Freud, è l’Io, cioè quello della competenza, ovvero della imputabilità . L’uomo non è libero perché è imputabile ma è imputabile perchè è libero.

 

 

“Il fatto che l’uomo, in quanto parte della natura, non sia libero – scrive Kelsen -, significa che il suo comportamento, considerato come un fatto naturale, secondo la legge della natura, deve essere considerato come causato da altri fatti, cioè come effetto di questi fatti e quindi come determinato da essi.. Il fatto però che l’uomo, come personalità giuridica e morale, sia ‘libero’ e quindi responsabile, ha un significato totalmente diverso (…) Si ha l’abitudine di dire che si imputa il merito, il peccato ed il reato alla persona responsabile del comportamento così qualificato”(Kelsen, p. 111).

 

E allora il soggetto è “compiuto”, come si compie un lavoro (che poi mai compiuto non è) quando è imputabile del merito ma anche dell’errore. In quanto libero. Ma quello che più conta e ci distacca da Kelsen è che questo processo è un processo civile e non penale. Significa che è compreso il perdono. Forse che il perdono è garantito. Il perdono è forse garantito dalla stessa accettazione della differenza sessuale che potrebbe a questo punto recitare la frase:

 

“Loro sono come me” è la stessa cosa che dire “ Io sono come loro” (differenza sessuale della Irigaray). Frase della fratellanza che ci rende tutti uguali proprio perché abbiamo accettato la differenza sessuale nel pensiero che siamo nati dalla differenza sessuale “in atto”. In un atto d’amore che Donna e Uomo hanno compiuto. “Essere uomini è essere figli” significa questo: la assunzione di un precedente a noi e dal quale noi procediamo atto d’amore che diventa la nostra Legge di vita.

 

 

 

GUIDO SAVIO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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