Se l’esperienza del piacere noi la “incollassimo” alla nostra memoria, cioè ci ricordassimo più di “lei”, potremmo costruire un patrimonio a cui attingere nei momenti di solitudine, debolezza , malinconia, disperazione.
Avremmo un serbatoio di riserva che ci permette di andare avanti anche nei momenti più aridi. Il serbatoio della vivezza e vivibilità della vita.
Invece noi siamo inclini alla dimenticanza (dell’esperienza del piacere, della buona giornata, del bell’incontro, della passione con la nostra donna, del caffè o del bicchiere di vino con gli amici, del tempo passato a vivere il tempo e basta, dell’aria fresca dopo tanti giorni di arsura,del fare niente con il gusto del fare niente, del lavorare con il gusto di lavorare, etc.).
Mentre assai meno inclini siamo alla “dimenticanza” del dolore e dell’offesa ricevuta. Ci “incolliamo” a quella roba lì che non ci serve a niente, ci incolliamo al patetismo del piangere su noi stessi. Eppure umani siamo e tutti, indistintamente (chi più chi meno) la pratichiamo questa lacrima.
Perché (mi domando tuti i santi giorni, ascoltando me e le persone che vengono da me) siamo fatti così…”male”? Perché ci facciamo preferenzialmente e a volte preferibilmente del “male” ricordando il dolore e dimenticando il piacere?
Eppure ci deve essere una spiegazione “universale”, del tipo (più o meno) “così fan tutti.
Io penso che il dolore sia una attrazione maggiore del piacere perchè più ci fa sentire vivi, sofferenti ma vivi, doloranti ma presenti, patenti ma in qualche modo rassicurati che la morte…è ancora lontana.
GUIDO SAVIO