OLTRE IL PIACERE (DEL CORPO)
“Camminare da se stessi. Ecco l’unica cosa che conta. (…) Il punto di Archimede – scrive Buber in Il cammino dell’uomo – a partire dal quale posso sollevare da parte mia il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio, uno qui nella mia anima e l’altro là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente”.
E trasformare se stessi altro non significa che quella azione, quel fare di adattamento all’altro, al mondo esterno che è l’unica strada che consente la relazione: allora dalla relazione trarremo piacere, altrimenti ci dovremo accontentare del “godimento” che è una condizione precaria e spesso non rispettevole del patto con l’altro. Trattare il corpo dell’altro come se fosse il nostro e trattare il nostro come fosse quello dell’altro è la legge della relazione. La trasformazione di cui parla Buber, è il lavoro a cui tutti noi siamo chiamati nel momento in cui l’altro “ci” chiede, ci desidera, ci ama, ovvero è necessario non opporsi al rapporto. Dopo avere formulato il nostro giudizio sull’altro, guai infatti a comperare a scatola chiusa, noi dobbiamo avere fede, e per fare questo è necessario lasciare che l’altro “faccia” con noi ciò a cui il suo desiderio lo spinge: è più difficile lasciarsi amare che amare. Non opporsi al rapporto non significa passività, anzi. Significa disponibilità al movimento dell’altro “con” noi e anche “su” di noi. E su questo movimento noi calibreremo il nostro, anche se è chiaro che nelle questioni dell’amore e della passione la questione della razionalità occupa un posto marginale. In poche parole se voglio amare mi devo rendere amabile, ovvero “trasformarmi”, se non lo sono, in un soggetto che accetta le regole dell’adattamento alla diversità dell’altro e del suo desiderio. E per fare questo è necessario che io sappia cogliere, attraverso il mio “saper essere solo”, il mio rapporto con me stesso, la mia alterità interna, il moto verso l’antico “conosci te stesso”.
Io posso vivere un rapporto di solitudine con il mio corpo nel momento in cui lo avverto esso stesso come una alterità, come una istanza che mi trascende. Quando io riesco ad avere un “dialogo” con il mio corpo, che in quanto tale diviene “altro” da me. Lo devo saper ascoltare per essere disponibile all’adattamento mio ad esso e mio all’altro che mi desidera. Anche attraverso le orecchie dell’altro.
Io ho un rapporto con il mio corpo nel momento in cui lo sento appannaggio di altri. Lo sento nell’Universo. Lo sento altro da me stesso. Lo sento alla portata di altri come alla portata di me. L’empatia e la disposizione all’altro mi viene prima da una esperienza di alterità che io ho già dentro me stesso. Il non fare del male all’altro è lo stesso non fare del male a noi stessi. Il non fare del male all’altro e a noi stessi è pensare che il male, in noi, è ordinato da un contenitore che male non è. Come Dio in Agostino che crea lui stesso il male.
Il corpo dell’altro: è questo il luogo di incontro con l’altro, è il luogo in cui l’altro mi chiama a conformare e “dimensionare” il mio desiderio. Io sperimento nel campo la mia contraddizione interna non tanto nel momento in cui sono solo ma il corpo dell’altro fa attrito sul mio, quando il corpo dell’altro stringe la mia posizione, anche la mia posizione di partenza.
E ritorna ancora la questione del limite. Il limite del corpo è costituito, potremmo dire, dai suoi stessi buchi, ovvero da quei luoghi di comunicazione sensoriale e affettiva che ha con il mondo esterno. Questi “luoghi di comunicazione” (occhi, orecchie, sesso, ano, pelle, naso) non appartengono completamente al nostro corpo, anzi, noi siamo chiamati ad “ascoltarli” in riferimento anche alla voce dell’altro. Essi sono “informabili” dalla voce dell’altro e in quanto tali non sono propriamente “nostri” ma entrano a pieno titolo nella relazione. Solo in questo modo il nostro desiderio non sarà illimitato; solo se penseremo che i nostri buchi sono abitabili in pianta stabile dalla comunicazione, dalla voce, dalle parole, dallo sguardo, dal sesso, etc. dell’altro. La nostra libertà non può intendersi come libertà assoluta del nostro desiderio.
Il nostro corpo parla la lingua della “eccitazione”. Del chiamare e dell’essere chiamato (quando parliamo di un corpo sano). Mentre proprio la impotenza a desiderare e la noia sono la sua malattia.
Esquirol, uno dei padri della psichiatria moderna, parla nel 1838 di “ennui de vivre”, la noia di vivere che egli vede come “la malattia di chi ha abusato di ogni piacere ed è sprofondato nella impossibilità di desiderare”. La impossibilità di desiderare è la morte del proprio e dell’altrui corpo come alterità e come eccitazione (vocazione).
Il piacere è piacere. E rende Soggetto l’uomo. Rende l’uomo soggetto per altri che a lui si rivolgeranno parlando la lingua del piacere. E’ soggetto alla domanda di piacere dell’altro. E all’altro piace il suo potere di piacere: qui sta la ex-citazione: all’altro piace la potenza del nostro piacere, come sostiene Luhmann:
“Come plaisir l’uomo è soggetto. Il che vuol dire che si può discutere se il fatto del plaisir, non diversamente che il fatto del pensiero, operi con rappresentazioni giuste o false, con mezzi puri o impuri. Plaisir è plaisir. (…) Nello stato del plaisir un uomo si fa osservare ed esplorare particolarmente bene, si apre, la sua gioia lo esalta – ed è poi particolarmente esposto allo sguardo acuto altrui. Il Plaisir rende disarmati di fronte all’osservazione e al trattamento da parte degli altri (…) Il soggetto viene stimato come colui che può e trova il suo compimento nel fatto che piace il suo potere come natura”.
E questa relazione di piacere è una Relazione in cui la alterità dell’altro è da un lato un dato “sacro” e dall’altro la stessa dimensione del desiderio (l’unità con l’altro a partire dal saper creare distacco).
“L’elaborazione di questa forma di relazione ha il suo punto di partenza nel riconoscimento del carattere assoluto della alterità dell’altro – si potrebbe così definire la dimensione del desiderio – e nella rinuncia alla praticabilità della via di una unità sostanziale. L’unità con l’altro, a partire da questo distacco, verrà cercata per via della sottomissione alla sua legge, dopo averlo istituito come altro capace di volontà di separazione e poi come volontà di fonte di legge” .
Più noi pensiamo di dare all’altro e che questo “conosca” ciò che noi diamo come noi pretendiamo di conoscerlo, più andiamo incontro a delusioni.
La conoscenza di noi stessi è poca cosa. Cosa un po’ più grande è la conoscenza che gli altri hanno di noi. Soffriamo più quando gli altri non ci capiscono che quando a non capirci siamo noi.
E’ tuttavia difficile conoscere la conoscenza (ri-conoscenza) che gli altri hanno di noi. Essa non viene espressa con parole ma giace nel cuore dell’altro. E anche lui non è sicuro della sua conoscenza.
Siamo in difficoltà anche in merito alla conoscenza dei nostri ricordi, del nostro passato, forse della nostra intera storia.Il corpo parla una voce sempre diversa – con parole sempre diverse – E queste parole sono (anche) le parole del nostro presente, le parole dell’ora e del giorno che stiamo vivendo.
Basta ricordare in merito a quello che dice sulla nostra storia passata Eugene Minkowski nel suo Il tempo vissuto, in cui appunto il nostro “vissuto” non è un dato reale ma sostanzialmente un nostro pensiero, dunque mutevole e non già fisso.
Così la nostra storia (il cui scambio con l’altro ci permette di averne amore meritato in cambio) è una continua ri-narrazione (ri-conoscimento/ri-conoscenza) che usa sia le parole del nostro passato che quelle del nostro presente: le mescola. La conoscenza, se mai si potesse parlare di un concetto simile, è un mescolarsi di tempi. Forse invece chiedere all’altro di capirci è affidargli la responsabilità di non mescolare questi tempi. Offrirgli il potere (soggetto supposto sapere) di avere continuità o oggettività di lettura attraverso i tempi. Che ci definisca egli stesso, ma con le nostre parole. Ma l’altro non lo possiamo costringere a svolgere un lavoro per forza, non lo possiamo chiamare a fare quello che noi stessi non siamo capaci di fare. Noi chiamiamo l’altro per fargli fare quello che “lui” sa fare, e non diversamente. In questo consiste l’adattamento, la disposizione e la non opposizione al rapporto.
Obbligo e amore non possono sposarsi, non è plausibile l’amore tra due che non presupponga una norma fondamentale che si articoli sulla libertà. Altrimenti l’amore corre il rischio di essere un esercizio del Super-Io e non ci sarebbe più relazione Io/Tu ma relazione Io/Super-Io, che non sarebbe affatto un rapporto.
“L’obbligo è per l’amore ciò che per i religiosi sono le ore fisse degli uffizi rispetto alla preghiera. E’ una necessità per fare violenza al male che è in noi” (S. Weil, Quaderno III). Essendo l’amore libertà, la una concezione non libera ne usurperebbe la reciprocità, ovvero la norma fondamentale, in diritto sacro. Il diritto è il desiderio, non la stabilità.
Tuttavia il nostro desiderio di amore si dirige sempre verso la stabilità pur sapendo da noi che il moto del desiderio conduce alla precarietà. Ma è difficile anche la conciliazione di desiderio e di precarietà.
Il mio stare con l’altro è limitato nel tempo – Il tempo è breve – Poi la corsa al non-pensiero, alla solitudine, alla assenza dell’altro, al volerlo allontanare; affinché venga fuori io + la mia rappresentazione degli altri che popolano la mia vita ma che io in certi momenti non voglio in relazione con me. La assenza dell’altro presente. Dall’altro sfuggo fino a rifugiarmi con il pensiero in lui. Allora il pensiero mi è di gratificazione.
Meno io penso o vivo un altro reale nella relazione, più sono disposto a pensare e vivere altri (pensati in relazione).
Come nel mito dell’androgino nel Simposio di Platone, le due parti divise di noi si cercano in continuazione. Anche al nostro interno, anche all’interno della nostra divisione interna. Ma restano “divise”. Noi siamo Amore e Odio, non la mescolanza delle due istanze. Siamo tutti e due assieme. Qui sta la contraddizione e la divisione dell’uomo. Non si mescola Amore e Odio come acqua fredda e acqua calda che ne viene fuori acqua tiepida. Ognuno dei due mantiene le proprie caratteristiche. Sono dentro gli altri che con il loro sguardo e il loro giudizio mi definiscono. Platone nel Simposio voleva dire questo con il mito dell’androgino? Ma tale mito include anche la accezione dell’atto d’amore che ha a che fare con la continuazione della specie. Come se Necessità stesse sopra ad Amore. Come se i due dell’amore non vivessero in regime di libertà ma in regime di sudditanza a leggi della Natura. Come se… agli dei (al Super- Io) non ci si possa opporre (come accadde nel mito di Orfeo ed Euridice). Come se noi, nella nostra divisione ci sentissimo impoveriti dalla nostra stessa Necessità di perpetuare la specie. Come cioè se l’Amore poi alla fin fine potesse svilirsi nel Naturalismo.
Schopenhauer afferma che quando due si amano in realtà dietro di loro si muove la Volontà che usa il loro amore per la “perpetuazione della specie” Allora piacere è in realtà una “deliberazione” della Volontà? Di una nostra “Eternità”? Diventa una necessità e non una libertà?
Se si afferma che l’Io viene fuori dal Tu si intende che io sono “fuori nel tu”. E’ il “fuori” il nostro luogo, il nostro percorso e soprattutto la nostra libertà non è illimitata. Vi troviamo di sicuro istanze ingiuntive quali la Necessità, la Natura, la Perpetuazione della Specie, la Volontà e quant’altro noi possiamo intendere di limitativo, tuttavia è nostra conoscenza e anche nostra condizione il fatto che solo “fuori” avviene il nostro essere, e nel fuori troviamo chi troviamo, se si tratta di fuori significa “non nostro”, ma appunto nel “fuori” troviamo il Tu. Rischio e libertà.
In fin dei conti noi siamo figli di un Padre che manda il figlio nel mondo. E questo Padre ha un rapporto di partnership con noi. Funziona come “tramite” verso il Mondo. Il Padre è “pattern” come la madre potrebbe essere “matrix”. E’ il Padre che ci libera indicandoci lo stesse regole restrittive sulla quali il mondo e la Vita si articolano.
Il Padre non è simbolico ma affida (nel senso della fede) al figlio il Simbolo che è il pezzo di sigillo che deve combaciare con quello dell’altro affinché ci sia rapporto, relazione. Il Padre insegna a “far combaciare” in questo senso mediatore e in questo senso soggetto del compromesso. Ma se non c’è stata prima divisione (la divisione del simbolo), distacco, il secare, non potrà esserci incontro futuro. Prima divisione (Padre) e poi rapporto.
Figlio è figlio. Padre è padre in quanto ha un figlio. Il posto che noi occupiamo (nella vita) è “secondo” a quello di un altro. Potremmo anche dire che “dipende” dall’altro. Senza che questo pensiero di dipendenza porti alla patologia. Noi siamo sanamente dipendenti e solo in questo modo possiamo essere liberi. Liberi solo se “visti” dall’altro. Il posto ci viene dato dall’altro. Adamo ed Eva sono nudi in quanto l’uno visto dall’altro e viceversa, non perché abbiano visto da soli il loro corpo nudo. Il concetto nasce dall’apporto dell’altro.
“Tanto per capirci” potrebbe essere la frase del rapporto. Le parole, il mito, la filosofia, anche la scienza non sono esaustive di sé. Sono strumenti “tanto per capirci” ovvero tanto per avere un rapporto, tanto per stare assieme. Rapporto/Amore che io ho a disposizione poi per potermi capire. “Tanto per capirci” mette in second’ordine tutto ciò che non è rapporto in quanto tutto è concepibile in funzione della finalità ultima che è appunto il mantenimento del rapporto.
OLTRE ANCORA
Per quanto profonda possa essere la comunicazione e l’empatia tra due persone che si amano, rimarrà sempre l’ineffabile. Ciò che non si può dire e ciò che non si sa dire e ciò che è impossibile che venga detto solamente perché è impossibile dirlo. L’ineffabile. L’indicibile diviene anche l’indecidibile. Non si può dividerlo e non potendolo dividere non si può comunicare all’altro (confronta l’angoscia). Ma l’ineffabile non è detto che ostacoli o impedisca per forza il rapporto. La culla, spesso, dell’angoscia.
C’è sempre un oltre. Oltre il corpo c’è il bello come meta dell’amore. Il bello è ciò che chiama nella sua universalità all’amore. E anche l’amore che chiama universalmente. L’universale sono Io che attraverso l’Altro nell’amore per arrivare all’universale (Bello/Buono) di Platone, ma forse più semplicemente sono quello che sente dentro di sé il desiderio, ma a volte è anche un bisogno, di amare Tutti. Se mi fermassi sull’altro reale nella mia azione di amore correrei il rischio di ucciderlo.
C’è sempre un oltre. Oltre l’altro. Lui o lei sono soltanto rappresentanti dell’Universo . Se mi fermo all’altro reale non arriverò mai alla salvezza mia e anche dell’altro. Oltre a tutto è a tutti, alla fine del moto del nostro desiderio, troviamo sempre qualcosa di nuovo. E’ solo la novità che ci chiama. Per questo è fondamentale il fatto che io mi presenti “nuovo” all’altro, e il fatto che la mia stessa identità abbia a che fare, come abbiamo visto, al mio saper essere “nuovo”.
La novità può anche essere il nostro non sapere, il nostro immaginare, anche il nostro aspettare, per non dire del nostro spasimare nei momenti della passione.
E’ il nuovo che ci chiama in continuazione. Ancora di più se questo nuovo è il “vecchio che ritorna”. “Il vecchio che ritorna” è il nuovo per eccellenza. E’ il nuovo a cui noi siamo chiamati a dare sempre un senso nuovo. Noi viviamo per dare senso alle nostre esperienze. Sappiamo poi che tutte le nostre esperienze noi le riportiamo a “qualcosa” di precedente, in un punto o in un momento anche molto lontano nella nostra memoria. C’è un “primum”, ma non è detto che questa sia una esperienza realmente vissuta. Il “primum” a volte è il semplice desiderio che così sia andata (mentre proprio così magari andata non è). Come in un imbuto le nostre esperienze si affondano nella memoria, nel ricordo, alla ricerca della prima esperienza. Per questo siamo assetati e anche portatori di novità: perché vogliamo continuamente alimentare il “rivivere” le nostre prime esperienze: amori, affetto, immagine, odore, altro reale, tutto ciò che sta nel repertorio della vita. Vorremo un “oltre” che non finisce mai, un oltre e un oltre ancora.
L’”oltre ancora” non è la catena (infinita) dei significanti di Lacan ma è la trascendenza pura. Stare al di là della materia e anche del pensiero. Vivere tutto nel nostro corpo. Questa è la trascendenza (malgrado la parola possa rimandare al contrario). Trascendere è passare dal pensiero al corpo: il corpo come strumento del nostro essere nel mondo. Trascendenza significa spostare di incontro dall’altro a “con” l’altro in un luogo che sta oltre l’Io e oltre il Tu.
Passione è sapere anche entrare nell’altro come un aratro. Tracciarne (darne traccia) nel corpo per oltre-passarlo. Non sempre è facile capire o sentire “dove” l’altro ci consente di oltre-passarlo. Forse non c’è nemmeno un “dove”.
L’oltre non è nemmeno un “dove” e nemmeno un “quando”. Ad ognuno la propria sensibilità.
Quello che conta è l’”intanto” tra il pensiero (o realtà) di vacuità della vita da una parte e l’ineluttabile dall’altra. Quello che conta è l’”intanto”, il particolare che avviene. In questo particolare noi incontriamo l’altro dell’amore. Lo incontriamo nella sua costante novità (anche quando l’altro è vecchio d’anni) del suo essere “chi” ci cambia proprio in merito al nostro lavoro di volerlo incontrare. “Intanto” non è il passare del tempo, bensì il tempo che si ferma nel momento in cui noi siamo in amore con qualcuno. L’amore ferma il tempo e nello stesso tempo lo riempie di senso. L’amore indica il futuro e nello stesso tempo ci fa vivere la gioia del “qui e ora” di cui l’amore è il portavoce.
GUIDO SAVIO