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IL PESO DELL’ALTRO

DIPENDENZA

 

 

E la questione della dipendenza è sempre la questione della solitudine, meglio, del saper (o non saper) essere soli (stare da soli). L’indipendente è chi da solo sa stare. E perché poi noi da questo saper essere soli non riusciamo a trarre la nostra stessa salvezza? Perché noi da soli facciamo fatica a cogliere e praticare il nostro limite e assestare su di esso la nostra soddisfazione?

 

“Sentirsi vuoti (…) equivale a sentirsi soli, perché ‘vuoto’ significa innanzitutto vuoto di sentimenti personali, di affetti eterodiretti” (Maggini e Dalle Luche,Il Paradiso e la noia).

 

Chi o che cosa ci impedisce di restare da soli per un giorno senza avvertire il vuoto melanconico? Due giorni con il nostro passato? Con i nostri ricordi? Con le persone che abbiamo amato e che ci hanno amato e con le quali ora non è più possibile ripetere la stessa esperienza? Perché noi non potremmo avere un “rapporto” con il nostro stesso pensiero, senza la presenza dell’altro reale? Non il pensiero del compiacersi o dall’altra parte del piangersi addosso, ma il sano pensiero di noi viventi, in vita dentro al nostro corpo che è sano e salvo al momento (e questo ci basta). Esiste un “rapporto” con noi stessi che è impenetrabile dall’altro: è forse questo il punto in cui massimamente noi cogliamo il pudore e la dignità del nostro stesso limite, della nostra stessa vita, della nostra stessa natura umana.

 

A volte l’altro della relazione ci dà un peso, ci fa portare un peso anche gravoso. Allora che cosa c’è di male se noi possiamo riposare, possiamo “riposarci dall’altro”, vivendo dentro al nostro stesso pensiero. Perché il pensiero e la pratica del riposarsi dall’altro spesso sono intesi come posizioni psicopatologiche? La frase “lasciatemi stare” è una frase del Cristo stesso. E se lo ha fatto lui perché noi non potremmo avere umanamente bisogno di “riposarci dall’altro”? Ciò non significa rinunciare alla relazione e scegliere la solitudine. Nessuno sceglie di stare solo deliberatamente pensando di scegliere il proprio bene. Se sappiamo essere in buona relazione con il nostro pensiero, non siamo soli. Non vogliamo stare bene a tutti i costi, ma di questo stare bene ne abbiamo diritto e se questo diritto lo esercitiamo attraverso una certa forma di “ritiro” dall’altro non necessariamente esiste patologia. Anche se è difficile   la conservazione del nostro stare bene e facile è il ritorno al nostra stare male. Ma questo è il limite della nostra esistenza, il limite che il fascino del dolore esercita in noi anche quando noi vorremmo farne a meno.

Per questo quando stiamo bene dobbiamo stare fermi, non muoverci. Solo “liberando” l’altro da me lo faccio stare bene, e soprattutto “lo tratto bene”. Trattare bene l’altro è il senso della nostra esistenza perché ha a che fare tanto con il nostro “pensiero operativo”, tanto con la prassi. Le mani in pasta a impastare il bene dell’altro senza stancarlo di noi.

 

Ma a volte è l’altro che ci stanca, soprattutto quando noi non ce la sentiamo di dirgli tutto. Ma sappiamo anche che dire tutto è impossibile. Come capire e farsi capire. È una delle più grandi illusioni che determina la “recriminazione” di cui si parlava in precedenza: quella della pretesa del “tutto” rispetto all’altro. Per questo una delle grandi scommesse della relazione è la “fiducia nel sentimento” dell’altro.

 

Allora continuiamo a monitorare l’altro dell’amore alla ricerca di una o più possibile pecca, della mancanza, della assenza, della vacanza. E così l’eccesso di attenzione sull’altro ci porta a macroscopizzare inevitabilmente i suoi limiti (negativi) e a nascondere i nostri. Per questo l’amore fa tanto soffrire; per questo si parla di “pene d’amore”: perché l’amore, questo tipo di amore, spesso si avvicina alla paranoia, alla persecuzione: l’altro mi è portatore di male perché io non so tenere la giusta distanza, non so stare al mio posto, e dunque io devo difendermi. Le pene da amore hanno a che fare con l’eccesso di attenzione nei confronti dell’altro nel nostro timore di abbandono e di conseguente angoscia.

 

Nell’eccesso di attenzione verso l’altro noi riproduciamo sicuramente uno schema infantile: quello della ricerca presso la madre dell’amore garantito, che già in precedenza abbiamo visto. Ovvero quello senza limite. Il pensiero di amore garantito non accetta nessun limite, e per questo fa soffrire, fino alla angoscia della dipendenza perché spesso la attenzione si trasforma in pretesa.

 

La pretesa è la voce dell’amore garantito, e, ovvio, in questo modo la angoscia è garantita come frutto di una frustrazione insopportabile. Se io penso che tu per me sia garantito, alla fin fine dipendo da te, e qui nasce la mia angoscia.

 

Angoscia di abbandono perché noi non abbiamo sufficienti forze autonome per tenere l’altro vicino a noi nella logica dell’amore sano. Paura che l’altro, anche con la sua stessa vacanza, ci tradisca. L’altro ci fa paura. Ma chi fa paura è poi anche chi ha paura. E si instaura in questo modo una logica perversa di confusione delle parti per cui non si distinguono più i posti e regna il disordine.

 

La accettazione del nostro limite indubbiamente ci chiama ad un atto di coraggio: quello di ammettere di fronte all’altro la nostra mancanza (e sappiamo che questo è poi in realtà l’atto di forza a cui ogni essere umano può umanamente accedere).

Solo se si accetta il proprio limite si può anche difendere la propria posizione, la propria causa, la propria idea, se stessi. Noi dobbiamo difenderci dall’altro che “invade” in nostro posto, difenderci dall’altro che tenta una esautorazione del nostro giudizio. Ma la legge fondamentale afferma che non è bene farci fare del male dall’altro e male all’altro non arrecare. L’altro ha un diritto “limitato” su di noi e non ha completa libertà di transito dentro alla nostra giurisdizione e non può dire e giudicare come vuole. Il bene è sempre nella ‘modulazione’ della relazione, quella che Platone chiamava “metaxy”.

 

“Il bene vero per l’uomo non risiede tanto nella rinuncia al piacere (…), quanto nel poter disporre liberamente di sé. E può disporre liberamente di sé solo chi è in grado ti tenere a bada le sue potenze. Ma tiene a bada le proprie potenze solo chi le conosce, chi ha preso davvero possesso di sé e si è istituito come ‘soggetto del proprio desiderio’. “Governarsi per essere liberi” (S. Natoli, La felicità).

 

“La continenza qualora la si intenda come un ‘breve contenimento’ del desiderio – quasi una sospensione – non coincide affatto con la restrizione (…) ma equivale ad una presa di sostanza che consente di cogliere l’oggetto nella sua interezza e nelle diverse facce della sua esposizione: senza mutilarlo e perciò senza impoverirlo” (S. Natoli, idem). Accettazione che tra me e l’oggetto della mia soddisfazione c’è distanza, e dunque non c’è dipendenza né angoscia (di perdita).

 

Accettazione del proprio limite è anche accertamento, attraverso il giudizio, del limite dell’altro e della sua eventuale patogenia. Oltre che della nostra e altrui effettiva libertà.

E’ vero che l’altro mi completa, valorizza i miei talenti, ma deve trattarsi di un altro che ha avuto da noi consenso per occupare tale posto, non se lo può essere preso con la forza.

E questa interazione con l’altro poi arriva fino ad un certo punto. Oltre a questo punto, specie dal punto di vista operazionale, ognuno “agisce da solo”. Le scelte le facciamo da soli anche se prima siamo andati in cerca di mille consigli. Agisco da solo anche nel momento in cui formulo il pensiero “chiedi e ti sarà dato” in quanto non mi basta il chiedere, da deve anche “volere” quello che chiedo. Ma voglio “quello”. Non il tutto dell’amore garantito o della domanda narcisistica (che ricaccia poi nella angoscia). Solo se io rinuncio al pensiero di infinito e di tutto posso pervenire alla soddisfazione, e allora davvero l’altro mi darà quello che chiedo, perché vede che ci credo, vede che credo che quello che chiedo sta dentro un limite plausibile, vede che io chiedo solo quello che posso ottenere, vede che chiedo la formulazione sana della risposta.

L’illusione è gratis ma porta a poco di pratico. Può portare ad un “ausilio psicologico” ma a nulla che abbia a che fare con una soddisfazione duratura. Non posso recuperare fantasmaticamente quello che ritengo di avere perduto, anche se il pensiero “melanconico” della perdita di certe porzioni dell’età dell’oro mi può essere di aiuto. Mi può essere di aiuto un mio isolarmi dal mondo presente e immergermi nello mia storia e nella mia memoria anche per non avere a che fare con il dolore che il presente mi porta. Ma devo tuttavia sempre avere coscienza di tale strategia. La attesa del perduto, dell’età dell’oro, è tempo perduto. “La noia, come l’’attesa da cui non si attende niente’ e ‘l’abbandono della lotta,, è per Green è un non stato in cui è all’opera il potere sospensivo del disinvestimento, e può quindi annunciare o seguire la depressione; è un indice dell’affacciarsi del ‘tempo morto, equivalente temporale dello spazio vuoto’” (Maggini, op. cit).

 

Se io “ci credo” veramente che posso recuperare un perduto attraverso i sogni ad occhi aperti, attraverso la fantasia, attraverso il gioco della memoria, l’illusione di recuperare il tempo perduto, posso entrare nella teoria patologica che in questo caso comprende:

a – il pensiero di perdita è spesso un pensiero di “perdita del tutto”

b – la possibilità di soddisfazione reale si allontana

c – prende il sopravvento il pensiero di povertà e incapacità di produrre ricchezza nuova

d -manca il pensiero di leggerezza: ovvero che nella vita accade quello che deve accadere e la nostra responsabilità è molto limitata (senza tuttavia pervenire a teorie meccanicistiche o deterministiche)

e – se non capisco la aleatorietà di questa tecnica di soddisfazione immaginifica posso entrare nella ingenuità e nella creduloneria, ovvero posso essere in balia completa del giudizio dell’altro.

 

La nostra capacità di conformare giudizio è la vera cura che noi abbiamo per noi stessi e per l’altro. Amore è amore che l’altro abbia cura per il proprio pensiero, come noi abbiamo cura per il nostro. Anche se poi sappiamo bene che le cose, specie nella relazione, meglio vanno meno ci si pensa: se qualcuno parla troppo di qualcosa significa che lì qualcosa non và.

 

Ma alla fin fine, nella relazione, forse che tutto si risolve in una questione di potere? E’ vera la famosa frase che “chi meno ama meno soffre”? Ad una prima lettura sembrerebbe che le cose stiano proprio così: se io mi sento “offeso”, in “credito” nei confronti dell’altro, posso assumere una posizione di potere in quanto “sta nel mio diritto” che sia l’altro il primo a muoversi per riparare e per ripagare. Il potere è dunque mettere in atto quelle strategie (di comportamento) per cui deve essere prima l’altro che si mette in moto verso di me in quanto io sono rimasto offeso. Giustizia deve essere fatta! E’ questo un chiaro comportamento isterico, che tuttavia non è del tutto estraneo anche a relazioni sane. L’uso del potere è un dato sano all’interno della relazione, a patto che come è sana la intercambiabilità dei posti S/A esista anche la intercambiabilità dell’esercizio del potere.

 

Fondamentale è che io sia “intercambiabilmente” Soggetto e Altro, ovvero che sappia domandare ma anche rispondere, dare ma anche ricevere. Proprio nella logica che “nessuno può tirare la carretta da solo”.

 

 

GUIDO SAVIO

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