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GUARIRE NON E’ “CAMBIARE”

GUARIRE NON E’ “CAMBIARE”

Nella nostra vita, fin da infanti, bambini, ragazzini, pueri insomma… abbiamo via via accumulato dei “temi” “nella” nostra esistenza e “sulla” nostra esistenza. Ovvero via via ci siamo fatti dei pensieri su “chi” noi siamo in relazione a come gli altri ci hanno trattato e hanno parlato di noi. Ovviamente genitori in primis.

 

I temi possono essere la nemesi storica della nostra vita. Il tempo che è passato. Le esperienze che abbiamo fatto. I dolori e le gioie che abbiamo vissuto e sui quali il nostro pensiero si è esercitato (o meno) per costituire la nostra identità.

 

Metto lì a caso un esempio:

Il bambino si attacca di più alla parola del padre anziché a quella della madre.

Ovvero vive una predisposizione a sentirsi più protetto dall’abbraccio paterno anziché da quello materno. Ovvero il sentirci impauriti di fronte al buio (tanto paventato dalla mamma), che poi tanto pauroso non era se compariva in papà. Ovvero crescere con il pensiero che bisogna stare attento al buio. Ovvero che bisogna stare attento alla assenza delle persone nel mio raggio visuale. Ovvero che, se nel mio raggio visuale trovo una persona amata allora mi rassicuro. Ovvero che mio padre, con il suo modello, ha rappresentato per me fonte di rassicurazione, e di futura autostima. Ovvero invece che mia madre mi ha insinuato il dubbio che il mondo è cattivo e che io ci devo stare sempre attento.

 

Oppure, un altro esempio:

I bambini capricciosi esistono. A questo bambino capriccioso il padre comincia a dire che è uno “scemo”. Il bambino comincia a credere che il papà “abbia ragione”. Il bambino si confronta con i propri coetanei, magari all’asilo, e vede che agli altri bambini il papà non dà dello “scemo”. Comincia a capire che la identità degli altri è più “forte” della sua”. La sua mamma cerca di compensare il cattivo giudizio del padre. Ma il bambino non le crede più di tanto. Come si dice nella clinica…”si allea con l’offensore”. Comincia a presentarsi al mondo come uno “scemo”. Le prime donne che comincerà a frequentare (se mai le frequenterà) magari la diranno che tanto scemo non è. Ma lui non crede loro. E via di questo passo nel lavoro, con gli amici, al bar e nel resto.

Ed esempi di questo calibro sono infiniti, tanti quanti gli esseri umani sulla faccia di questa terra.

 

Il pensiero, il nostro pensare, è squisitamente lavoro sul ricordo nella costruzione e nella costituzione della nostra identità. Che è poi il biglietto da visita, di identità con cui ci presentiamo agli altri. E agli altri altri chiediamo quello che ci sentiamo nel diritto di chiedere.

Chi ha una buona carta di identità si sente più nel “diritto” a chiedere all’altro. Chi ne ha uno cattiva di solito sta zitto in merito. O balbetta.

“Il processo di responsabilizzazione (identità) del soggetto rispetto alla propria storia coincide anche, per come si può, con una operazione di arginamento e isolamento di detriti nocivi del passato, affinchè la loro tossicità non si propaghi senza freno nella costituzione della propria identità” (Francesco Stoppa, La restituzione, p. 103).

Ovvero. I “temi” delle nostre storie, delle nostre vite, spesso sono inquinati (ma anche sostenuti, ovviamente), da quello che i nostri genitori hanno fatto e detto “su di noi”.

Il bambino piccolo fa fatica a strutturare il pensiero di sé lontano da quello che fanno e dicono i suoi genitori su di lui. Ma non ne è per questo automaticamente condannato (o assolto).

La questione che pongo è se nel passare del tempo, nel crescere, nel maturare, magari nella cura psicologica o psicoanalitica questi, “temi” possano sostanzialmente “cambiare”.

Pongo la questione se si possa cambiare effettivamente la propria “pasta” nel corso della vita. Se guarire sia effettivamente “cambiare”.

La risposta è: “Certo che sì”. Anche nella apparente “immutabilità” dei temi. Ovvero che se uno è cresciuto in quella maniera lì non può cancellare il “tema” o i temi portanti della propria identità e del proprio pensiero su se stesso.

Ma li può capire correttamente e ad essi adattarsi. Il tema di base, il leit motiv non cambia ma si evolve. Noi del nostro tema possiamo avere maggiore o minore padronanza. Sta a noi farne “la solita musica” oppure una musica conosciuta e dunque per questo re-interpretabile via via che passa il tempo, sempre con meno dolore.

Credo che in questo stia la cura psicologica o psicoanalitica.

Essa sta nell’offerta al soggetto (a partire dal suo pensiero di essere stato bambino, dunque allevato da padre e madre, ma non sempre) di rivisitare la propria storia e il proprio pensiero di se stesso, di illuminarlo da una posizione diversa, di interpretarlo con un discorso diverso, più umano e meno doloroso. Dunque più aperto all’investimento sul futuro e alla soddisfazione.

Molti pazienti hanno, nel corso della cura (e giustamente), “paura di cambiare”. Io sono d’accordo con loro. Non si cambiano i “temi” ma si portano più avanti dalla condizione di dolore e sofferenza nella quale sono stati vissuti. Non si cambiano le persone. Si cambia la prospettiva.

Noi restiamo noi stessi ma ci apriamo una strada maggiormente percorribile verso il fare e verso la soddisfazione.

Tutti noi abbiamo fatto i conti con i “detriti nocivi” che la famiglia ha scaricato su di noi. Diversamente non avrebbe potuto essere in quanto (e ne sono convinto) non si può crescere né si può vivere senza una famiglia.

Ma questo è il destino di tutti gli uomini che calcano con il piede il terreno di questa terra: essere portatori di un dolore che altri a loro hanno trasmesso / essere portatori di un “diritto al piacere” che altri a loro hanno trasmesso.

Freud afferma, quando parla di “principio di piacere”, che la questione sta più sul principio che sul piacere. Ovvero sulla capacità del singolo soggetto di maturare un pensiero di avere diritto al piacere. Dipendentemente (in parte) dai “detriti nocivi”, ma anche indipendentemente (in parte) da essi.

La salute, in fin dei conti, non è cambiare la nostra vita, non è cambiare i “temi”, ma semplicemente renderli più ascoltabili e vivibili.

 

Guido Savio

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