DOLORE (IN)SOPPORTABILE
Vorrei prendere in esame due pensieri di Marco Aurelio dal suo celeberrimo SCRITTI.
I due spunti che prendo non sono casuali, almeno per me, per me psicoanalista che si confronta quotidianamente con il disagio-dolore-sofferenza di molte persone, specie, in questi ultimi tempi, giovani.
1 – Il primo tema è quello della malinconia, della depressione che, in certi momenti della giornata, ci prende un po’ tutti. E questi momenti sono (ahimè) canonici: il momento di mettere giù il primo piede dal letto (o il non metterlo).
2 – Il secondo tema è più complesso, più filosofico, più sofisticato ma credo, proprio per questo, più importante: della sofferenza che “qualcuno” ci dà (ci infligge), ci dà anche la garanzia che la possiamo sopportarla per non perire definitivamente?. Ovvero, dietro tutto il male che mi capita, c’è un disegno di qualcuno che sa che io lo posso sopportare (altrimenti non me lo infliggerebbe?). E io posso gestire il tutto (o una piccola parte)?
Al testo dunque (che va ben letto, alla lettera):
“Quando sei riluttante ad alzarti, al mattino, pensa subito <E’ per adempiere il mio dovere di uomo che mi alzo.. Perché lamentarmi allora, se mi avvio a compiere ciò per cui vivo, e grazie a cui sono al mondo? O sono stato creato per starmene al caldo tra le coperte?>. <Ma è più bello>. <Allora sei al mondo per godertela? Per provare sensazioni, insomma per non agire? Non vedi gli alberi, gli uccelli, le formiche, i ragni, le api? Non vedi come ciascuno adempie il compito che gli è proprio, contribuendo, nel suo piccolo,, all’ordine universale. E tu non vuoi compiere il tuo dovere di uomo; non corri verso ciò che è conforme alla tua natura>.<Ma bisogna anche riposare>. Certo; lo dico anch’io. Ma la natura ha fissato un limite anche a questo, come al mangiare e al bere, eppure tu lo superi, e vai oltre il necessario, mentre, quando si tratta di agire, ti tieni sempre al di sotto di quanto potresti….”.
La “forma” dei capitoli di PENSIERI di Marco Aurelio, è quella di un dialogo con se stesso o tra due aspetti di se stesso.
L’Imperatore Marco Aurelio prende a piene mani dallo stoicismo di Seneca e soprattutto di Epitteto. E i temi sono quelli risaputi: la misantropia, la morte, la coscienza acuta del vuoto, dell’impotenza umana e, soprattutto, della fuga inesorabile del tempo. E ancora più soprattutto, il tema del dolore e della sua sopportazione.
Marco Aurelio parla alla sua coscienza. E parlare alla propria coscienza spesso significa confessare (tacitamente) che questo “dialogo” tratta principalmente gli aspetti, i contenuti, le parti della personalità, i tratti del carattere, le sfumature delle relazioni, le questioni morali, le questioni della responsabilità, insomma il Weltanshauung (come direbbero i tedeschi) di una persona a cui i conti non tornano sul proprio modo (morale) di essere. E allora si scrive il “dover essere”. Si scrive quello che ha fallito nella mia vita.
Marco Aurelio scrive il “dover essere” di un uomo che certo non è lui (quello dei PENSIERI) visto che, parlando colà di rispetto, concordia, solidarietà, comunione, dell’uomo, rinuncia al piacere, rinuncia alla carne, rinuncia alla fama, rinuncia…. lui, da Imperatore, ha trucidato migliaia di Germani che fanno irruzione nel suo impero nel 167. Ha sostenuto poi guerre di contenimento contro i Salmati Iazigi, contro tribù transdanubiane, nel 179, Quattro anni prima aveva represso nel sangue la rivolta di Avido Cassio in Oriente. Eccetera. Comunque un bagnoi di sangue.
Ricordo solo che uno degli slogan più gettonati nel maggio parigino del ’68 era “Rinunciare a rinunciare”. Io in parte ero d’accordo.
Dunque un uomo di potere e del potere che, specie in quei tempi, era portatore di morte senza tanti preamboli, senza pagare tanti dazi.
Questa è la storia. Quello che più mi interessa è fare notare come Marco Aurelio, come infiniti filosofi, pensatori, profeti, prende per “argomento delle sue conversazioni” quello che egli nella vita non è riuscito a realizzare. Quello che gli “è andato male”, quello che non ha funzionato”. Ovvero il fallimento di una pace interna ed esterna.
Io sono convinto che i grandi scrittori e filosofi hanno fatto la loro fortuna sulle bucce di banana sulle quali sono scivolati per tutta la vita. Però sapendone parlare e scrivere . La loro arte è questa: scrivere ciò di cui gli altri normali (e alla pari sofferenti) sanno a malapena balbettare. Ma così è andata la storia. Così è andata la letteratura mondiale.
Ed è oltremodo affascinante come i grandi filosofi, i grandi ideologi, abbiano predicato e scritto i contenuti che essi stessi non sapevano governare, li sfuggivano di mano, costituivano, insomma, per loro, un grosso problema.
Allora Marco Aurelio scrive della depressione che attanaglia l’uomo di primo mattino e gli rende difficile poggiare a terra dal letto il primo piede.
Nel mio lavoro di psicoanalista ascolto molte persone nella settimana, e se c’è un indicatore infallibile, nel mio ascolto, che mi fa fare una diagnosi di malinconia o di depressione, è proprio ciò di cui parla Marco Aurelio: non sapere mettere giù dal letto il primo piede.
Allora passiamo alla clinica: “Perché il depresso non lo mette giù?”. Semplice: mettere giù il piede è domandare un patto con il mondo, è assumere una stazione eretta che dice che (guardando gli altri negli occhi) non sei malato. Se mi faccio guardare dagli altri nel mio letto (posizione orizzontale la mia, l’altro posizione verticale) stipulo un patto che prevede che “tu faccia per me (perché io sono supino e tu sei in piedi)”.
Ma che patto è? Non è affatto un patto: è un ricatto del tipo “Fai tu che io sono stanco” . Nella lingua del popolo, che è il massimo contenitore di verità, tale frase viene tradotta….”Fai tu che a me mi vien da ridere”.
Ed è così. Il depresso a letto sfrutta e allocca il suo stesso soccorritore.
Marco Aurelio poi parla delle persone che non mettono giù il piede dal letto come di persone che non contribuiscono al bene comune, della res publica, e che quindi non sarebbero nemmeno degne di tanta cura.
Io so che una infinità di persone non mette giù il piede dal letto proprio perché non ce la fa. E arrivano le undici, e anche mezzogiorno, con un aggravio terribile di ansia e di angoscia. Eppure non ce la fanno. Ne’ il mio consiglio di leggere Marco Aurelio le solleva. Non tutto, purtroppo lo sappiamo, è guaribile con concetti filosofici: “Pensa al posto che tu occupi nel mondo e come tu devi “fare uso del tuo presente”. “Alzati dunque”. Levati Lazzaro”. Sursum Corda”. Figuriamoci: se fosse così semplice…
Lascio qui sospeso il mio discorso e anche il giudizio. Il lettore, se vorrà, se ne farà uno di proprio.
Il secondo tema, più complesso e…filosofico.
“Rammenta, comunque, che sei per natura capace di sopportare tutto ciò che è in potere del tuo giudizio rendere sopportabile e tollerabile, convincendoti che sisa tuo interesse e tuo dovere farlo”.
Ed eccola la frase che io incriminerei. Libro V:
“Niente accade mai a nessuno che questi non sia per natura capace di sopportare”.
E’ una frase difficile, intrigante, che apre scenari contrastanti.
Che a fare accadere le “cose” (contra o pro) gli uomini, che sia il destino o un dio poco conta…Come farebbe questo Ente a calcolare la mia capacità di sopportazione della sofferenza (fisica e/o morale)?
Ovviamente questo Ente non ha fatto il Rorschach, il test del QI, il T.A.T delle nostre capacità di sopportazione del dolore per dire: “A te ne do tanto che tu lo possa sopportare. Se te ne dessi di più non lo sopporteresti”.
E a me questa domanda mi ha sempre fatto tanto riflettere. Che cosa ne è e ne sarà dell’uomo che non sa sopportare, che quell’Ente gli ha fatto male i conti e allora questo povero Cristo si trova a fare fronte a una forza che inevitabilmente lo travolge.
Ma lo sappiamo: per fortuna e per disgrazia, esistono gli Enti Inutili.
Allora il suicidio? Allora la paranoia, allora la perversione, allora tutte le altre modalità di fuga (o di soluzione) che l’uomo ha di fronte a quello che non riesce a sopportare? Allora la soluzione di Vitangelo Moscarda? O quella del fu Mattia Pascal? O quella di Enrico IV? O quella del padre-figlio di tutte queste questioni: il principe di Danimarca Amleto?
Che cosa accade dentro di noi quando qualcosa di molto ma molto più grande di noi ci assale, ci prende e non ci dà scampo? Possiamo salvarci con la tenue e new-age riflessione di Marco Aurelio che vorrebbe rassicurarci che …tanto, per quanto acuminata sia la punta della freccia, chi te la ha scagliata, te la ha scagliata sapendo che tu avresti potuto sopportarne il dolore?
Stoicismo e Marco Aurelio a parte, il tema della sopportabilità del dolore è un tema vitale per ogni uomo per poter, appunto, sopravvivere, poi vivere.
E noi, uomini e donne moderni, quanto “pesiamo” i nostri simili sulla loro capacità di sopportare il dolore? Il dolore che mi impedisce di mettere giù il primo piede dal letto al mattino. O il dolore che mi lancina il corpo senza che io possa capire se un dio, da qualche parte, l’abbia pesato e calcolato da me sopportabile. E se non ce la faccio più? E se le forze mi abbandonano e io sono perfettamente cosciente che è così? Che se anche insistessi ad autoconvincermi che ho ancora margine di sopportazione se medito, se prego, se vado in terapia, se mi voto al primo santo che passa per strada?
Non so se a questo punto i due spunti di Marco Aurelio siano commensurabili. Forse sì, ma anche forse no. Sta di fatto che quando il corpo soffre, fa soffrire anche lo spirito e (ahimè!) viceversa.
La malinconia è il dolore soggettivo per antonomasia: dal letto si fa fatica a scendere. Con il corpo e cn lo spirito.
Per tollerare certi dolori mi farebbe salire sul letto e starci là. Ad libitum.
Un dio della misura “ad personam” è difficilmente credibile.
E allora? Allora solo solidarietà tra noi uomini e passo, per quanto possibile, leggero. Leopardi nella sua Ginestra ci ha dato una indicazione precisa. La strada è ancora lunga.
GUIDO SAVIO