“NELLA VITA C’E’ SEMPRE DA IMPARARE”
SOGNO E CONOSCENZA
Mi sono trovato spesso di fronte a questa frase. Me la ricordo fin quasi da bambino e mi ricordo che anche pensavo a “tutta la vita davanti”, a quante occasioni avrei avuto per imparare, per apprendere, per “sapere” cose nuove. Pensavo alla aspettativa di vita come aspettativa di conoscere. Mi aspettavano praterie popolate da indiani, bisonti, tipì, squaw da andare ad incontrare: quello era il mio immaginario. Ne avrei potuto avere (e di sicuro li ho avuti) altri immaginari, altri scenari in cui inscenare la mia cavalcata dell’imparare. Però quella che ricordo con maggior vigore e chiarezza è questa.
Perché così l’ho sempre intesa la questione dell’imparare: una cavalcata a raccogliere quello che gli altri avevano lasciato, quello che gli altri mi donavano, quello che gli altri mi facevano “patire” per averlo.
Ricordo anche un sogno di bambino in cui io correvo in mezzo ad una altissima e verdissima erba forse del Wyoming o del Nebraska, forse del Minnesota. Insomma un’erba indiana (dei popoli “natives” d’America). E la mia corsa terminava tra le braccia allargate e aperte di un grande capo indiano (mio padre, forse). Ricordo che l’impeto della corsa mi faceva sbattere il viso sulla sua “corazza” di ossa di animali che portava al petto. La mia felicità assoluta era che lui…mi aspettava.
Io ero atteso, qualcuno si aspettava qualcosa da me, e mi aspettava che io cogliessi.
Questa immagine, questo sogno, per me si è sempre sovrapposto alla frase: “Nella vita c’è sempre qualcosa da imparare”. C’è sempre una corsa da fare e soprattutto (ma forse non per tutti) c’è sempre un grande indiano che ti aspetta.
Nella vita c’è sempre qualcuno che ti aspetta, che ti ha un po’ (ma non troppo) tracciato la strada, e tu ci sbatti contro alla fine di una corsa (nel bene e nel male del fatto che la corsa sia finita). Io in questo ho sempre cercato di metterci il mio pensiero. Cercavo di pensare, e non solo sognare, dove sarei andato.
SOGNO E ILLUSIONE
Ho finito ieri di leggere per la terza o quarta volta “Uomini e topi”, di John Steinbeck. Anche lì dentro c’è un grande sogno: quello di George e di Lennie: quello di avere la loro fattoria e allevarci i conigli.
“La voce di George si fece più cupa. Ripeteva le parole, cadenzate, come le avesse pronunciate tante volte”.
Lennie è il gigante bambino e povero di spirito, dalla forza smisurata che chiede a George, all’amico a cui ha affidato la vita, di ripetere sempre la stessa storia, con le parole sempre uguali (come chiede e impone il bambino alla mamma o alla nonna, guai se cambia una virgola).
La storia è quella del loro sogno, del loro futuro, di che cosa sarà della loro vita, di che cosa riusciranno ad imparare dalla vita. Ma il lettore percepisce immediatamente che il sogno e l’imparare dalla vita presto sarà tragedia. Tragedia proprio perché non c’è pensiero. E dunque non c’è imparare. George e Lennie non potranno imparare perché non hanno il pensiero dell’imparare. Lanciano solo le loro vite oltre il ponte, oltre il fiume, oltre il lago senza…sapere.
Dunque Lennie chiede che George ripeta la narrazione del sogno, parola per parola.
“ Gente come noi che lavora nei ranches, è la gente più abbandonata dal mondo. Non hanno famiglia. Non sono di nessun paese. Arrivano nel ranch e raccolgono una paga, poi vanno in città e la gettano via la paga, e l’indomani sono già in cammino alla ricerca di un lavoro d d’un altro ranch. Non hanno niente da pensare per l’indomani”. Ovvero, al contrario di noi, non hanno sogni.
Ma Lennie attendeva la seconda parte della narrazione, quella in cui emergeva la differenza tra i normali cow boys ( termine che Pavese traduce goffamente in “cavallanti”) e loro due.
“Lennie era felice. “E’ così, è così”. E adesso dimmi com’è per noi”.
Lennie ha atteso la narrazione al negativo di George, la pars destruens. E adesso si aspetta quella construens. Quella che tutti i bambini si aspettano: Quella che dice che…noi siano diversi dagli altri, che a noi ci andrà bene, che noi non siamo come gli altri “cavallanti” che si bevono la paga tra donne e whisky.
Ma l’imparare di Lennie è ridotto alla fiaba, alla illusione, ristretta al cervello che non ha, e che suo malgrado è stato costretto a cedere ad un altro. Un altro buono. Per fortuna sua. Un altro che, quando lui avrà commesso l’ennesimo guaio (accarezzare troppo forte topolini e cagnolini fino a ucciderli), lo toglierà dal dolore che avrebbe dovuto sopportare per aver commesso l’’ennesimo guaio (E qui rivolgo al lettore il mio invito a (ri)prendere in mano il libro di Steinbeck).
Lennie ha un pensiero primitivo. Fa uno più uno. Fa…”se…allora”. Se gli altri cattivi sono cosi….allora dimmi George come siamo noi che siamo i buoni e i destinati all’avverarsi del sogno?
“George riprese: ‘Per noi è diverso. Noi abbiamo un avvenire. Noi abbiamo qualcuno a cui parlare, a cui importa qualcosa di noi”.
E’ la disposizione americana del concetto di Nome del Padre “a qualcuno piace che”. Forse il Grande Capo indiano del mio sogno di bambino.
“Non ci tocca di sederci all’osteria e gettar via i nostri soldi solamente perché non c’è altro posto in cui andare. Ma se quegli altri li mettono in prigione, possono crepare, e a nessuno gliene importa. Noi invece è diverso”.
E’ questo il discorso della illusione, della fiaba, delle sirene di Ulisse, del destino favorevole senza averne una pur pallida conoscenza.
Noi siamo diversi perché? Perché siamo unti dall’olio di quale conoscenza? No. George e Lennie non erano che unti dall’olio delle mucche che andavano a pascolare. Niente sapere. Niente avere.
Io sono convinto che qualsiasi sogno debba avere dentro di sé una parte di sapere, di conoscenza, di avvedutezza, di stima della realtà e di se stessi.
“Lennie interruppe. ‘Noi invece è diverso! E perché? Perché ci sei tu che pensi a me e ci sono io che penso a te, ecco perché”. La illusione che calpesta la realtà.
Mentre tra i due non c’è pensiero. C’è solo assistenza. Forse reciproca.
E poi il ludibrio, l’orgasmo del sogno (non conoscenza) di Lennie si spalanca nella frase. “”E vivremo del grasso della terra”.
Si spalanca nella frase evangelica: “ Guarda gli uccelli del cielo… guarda i gigli del campo…”.
Ma questa non è conoscenza, questo non è imparare. Dal sogno si impara fino ad un certo punto. Dalla speranza lo stesso. Dalla fede anche.
George e Lennie, nel libro di Steinbeck, finiscono come gli eroi nella tragedia greca (perchè “Uomini e topi” altro non è che la trasposizione nell’ America contadina degli anni trenta di una tragedia greca (Edipo re? Edipo a Colono?).
La frase allora: “Nella vita c’è sempre da imparare” non appartiene a coloro che scambiano illusione con sogno, non appartiene agli ingenui, non appartiene agli ultimi della terra (purtroppo).
CONOSCENZA E “FLESSIBILITA’”
Un signore, padre di due figli piccoli, viene oggi alla seduta e mi dice che fa fatica a fare “imparare” ai suoi due figli a mettere al loro posto i giocattoli quando loro hanno finito di giocare e quando lui torna dal lavoro. Secondo lui i figli, comportandosi a questo modo disordinato, “non imparano dalla vita”.
Poi afferma (revisione del pensiero malato) che nella relazione con i propri figli ci vuole “flessibilità”, ovvero non si può imporre l’ordine: “ Metti in ordine tutti i tuoi giocattoli”.
Io approvo. Poi lui dice che la “flessibilità” è una cosa importante, vitale nella distribuzione della regola presso i propri figli.
Io gli dico molto semplicemente che la “flessibilità” altro non è che piegare le ginocchia nella sala da gioco dei propri figli e raccogliere i giocattoli assieme a loro.
Solo in questo modo i figli “imparano” quando vedono la “flessibilità” del padre applicata alle propria ginocchia. Allora il padre non dice imperioso: ”Mettere apporto i giocattoli” ma dice paterno: “Mettiamo apposto i giocattoli”. Dal singolare al plurale.
Imparare dalla vita altro non è che passare dalla prima persona del verbo alla terza persona. “Facciamo assieme (in modo che il nostro fare comune possa costituire la regola).
Io dico a questo padre che appunto il padre è “accreditato” presso i propri figli se sa essere flessibile. I figli imparano dalla vita solo nella logica della flessibilità. E la flessibilità è proprio il piegare le ginocchia per abbassarsi all’altezza dell’altro.
Per abbassarsi all’altezza dell’altro bisogna avere contezza e conoscenza del proprio stato, del proprio desiderio, del proprio posto, ma soprattutto del proprio desiderio di “conoscere assieme all’altro”.
“Nella vita c’è sempre da imparare” purchè si abbia pensiero, capacità di distinguere la “salute” del sogno (dei sogni della propria vita) dalla mortifera illusione.
Ed ecco la conclusione. E’ solo il “Pensiero di Padre” che apre all’imparare.
Alla fede che c’è qualcuno di “flessibile” (leggasi “umano”) che da qualche parte del mondo, del mio mondo, mi aspetta.
Sia esso il Grande Capo indiano del mio sogno da bambino. Sia esso Il padre reale di due bambini reali che si mette in ginocchio per raccogliere i giocattoli.
Invece e purtroppo George e Lennie di Steinbeck non avevano “il Pensiero di Padre”, ma solo una confusa illusione che scambiavano per “sogno della vita”.
Loro, per davvero, non avevano nessuno che li aspettava.
GUIDO SAVIO