Transfert e controtransfert – Il transfert in Freud – Il terapeuta ideale – La teoria patologica
Transfert e controtransfert
Il transfert, la instaurazione del transfert tra terapeuta e paziente, nella relazione terapeutica è fondamentale, nel senso che pone le fondamenta della cura e della guarigione. Per un terapeuta, capire e intendere il transfert lo porta alla “acquisizione” di una diagnosi e anche di una prognosi: ovvero sulla possibilità o meno del paziente di guarire dalla propria malattia. La guarigione, poi, alla fin fine (alla fine della terapia) non sarà la “sconfitta” della malattia (sintomo angoscia) ma sarà l’uscita dall’unico vero “male” della malattia, ovvero la inibizione. Ovvero poter fare qualcosa della propria vita e non riuscire a farlo. La guarigione dunque è la capacità di convivenza con dolore e mancanza. Io sono sano non se sconfiggo i miei limiti, ma se ad essi riesco a limitarmi.
E il limite non è accettazione passiva di un quid che mi viene “dall’alto”, bensì il toccare con mano la humanitas della mia natura e della mia storia: “sono fatto così e non diverso da così”. Solo all’interno del rapporto transfert/controtransfert (ciò che il terapeuta “sente” per il paziente) si svolge (è possibile) la cura analitica, dunque all’interno di un rapporto di fiducia: condizione della cura, come in tutte le relazioni, è il pensiero che l’altro, qualcun altro, mi possa aiutare: “ a cambiare (un po’) la vita”, se vogliamo, a “lenire il mio dolore”. La domanda di terapia, sostanzialmente, è sempre la solita: “fammi vedere come si sta al mondo (lavoro/amore). Chi si rivolge al terapeuta lo fa fondamentalmente per questa domanda di indicazione di ordine che lo “porti fuori” dalla sua situazione di disordine, di stagnazione, di ripetizione, di inibizione, etc. che nella maggior parte dei casi induce come segno l’angoscia.
Laplance e Pontalis sostengono nella loro “Enciclopedia della psicoanalisi” che qualsiasi tipo di terapia non funziona se il paziente non parla di padre e madre (l’ Edipo, infatti, é la madre di tutte le relazioni). Il tema dell’Edipo allora è il tema della psicoanalisi. Il paziente che non lo affronta non può aspettarsi nulla a livello terapeutico. E nemmeno l’analista. Sta all’analista “portare “ il paziente sul piano edipico” (semplicemente parlare del padre, della padre e di se stesso bambino. Possibilmente “da” bambino).
Il transfert in Freud (1)
Freud, inizialmente (Sulla psicoterapia dell’isteria, 1895) parla di un “trasferimento di una rappresentazione ad un’altra” (quella dell’analista). Non è essenziale nella cura, anzi, può rappresentare una resistenza. Freud, nella sua prima topica intendeva il transfert addirittura come un intoppo alla terapia. Nell’opera succitata infatti Freud parla del trasferimento della paziente nelle figura del medico di rappresentazioni inconsce, ma non valorizza questa “connessione” : Il contenuto del desiderio era comparso dapprima nella coscienza dell’ammalata senza alcun ricordo delle circostanze ambientali che lo avrebbero ricollocato nel passato.
A causa della coazione a riassociare che dominava la coscienza, il desiderio prsente veniva allora legato a una persona che occupava legittimamente i pensieri dell’ammalata; e quest’ibrida combinazione, che chiamo falsa connessione, risvegliava lo stesso affetto che aveva indotto a suo tempo la paziente a respingere questo desiderio vietato” (S. Freud, Opere, 1895, vol. I, p. 309) Sulla psicoterapia dell’Isteria Probabilmente il transfert erotico non lo aveva lasciato indifferente (come era capitato a Jung).
Il transfert in Freud (2)
Dopo la scoperta dell’Edipo (1912) il transfert viene legato da Freud a “prototipi” (madre – padre – fratello). Edipo come “presente/passato” dunque, ovvero la possibilità per paziente ed analista di rivisitare la “storia triadica” ma nel presente della relazione analitica. Soprattutto nella valutazione della regola edipica che era presente nell’infanzia del paziente e quella che è presente nella relazione paziente-analista.
L’analisi ha la possibilità di questo trasferimento: “Piuttosto che considerare i fenomeni del transfert come semplicemente repressivi o ripetitivi, sembra più adeguato ed equilibrato affermare la multidirezionalità dei loro significati. (…) I transfert insomma creerebbero il passato nel presente, secondo speciali modalità analitiche e in condizioni favorevoli. Essenzialmente allora essi rivestirebbero dei movimenti in avanti, e non all’indietro ( Roy Schafer, L’atteggiamento analitico, p. 133).
È a partire dall’Edipo che si formula la diagnosi. E’ a partire dall’Edipo che il terapeuta può avere una relazione con il paziente . L’Edipo è l’unica garanzia per la cura (cioè che funzioni). Infatti la scoperta dell’Edipo permise a Freud di elaborare un concetto nuovo, quello di “nevrosi da transfert: “…noi riusciamo regolarmente a dare a tutti i sintomi della malattia un nuovo significato transferenziale, a sostituire la sua nevrosi comune con una nevrosi di transfert da cui il malato può essere guarito con il lavoro terapeutico” (S. Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare, 1914, p. 134-5)
Edipo dunque, visto in analisi, come madre di tutte le relazioni. Non nel senso che “noi possiamo dimenticare il nostro passato, ma il nostro passato non si dimentica di noi”, bensì l’intendere il proprio passato come patrimonio depositato per favorire il proprio futuro. Chi pensa che il proprio passato abbia lasciato un segno indelebile (malattia) nella propria psiche, avrà poche possibilità di trarre vantaggio dalla terapia.
Edipo è la regola, la legge, il posto, la distanza. La distanza tra madre/padre e figlio. La stessa distanza che determina il successo della relazione nel rapporto analista- paziente. Se l’analista non sa istituire e conservare distanza dal paziente corre il rischio di diventare una madre troppo apprensiva o addirittura fagocitante. Il transfert può ovviamente coinvolgere tutte le corde dei sentimenti e degli affetti dei diretti interessati. Freud, in questo senso, distingue un transfert positivo (sentimenti teneri) e un transfert negativo (sentimenti ostili).
E’ quello che si verifica nel rapporto edipico (analitico), che non può non comprendere (per essere sano) la conflittualità e la capacità della gestione della stessa. Il valore terapeutico della lettura del transfert, da parte del paziente e dell’analista è, come dice Freud, che : “Nessuno può essere giustiziato in absentia”. Ovvero che è la tra(n)slazione della storia dal passato al presente il valore aggiunto: “Se tu mi parli della “causa efficiente” rappresentata dal rapporto con tuo padre e tua madre nella motivazione (etiologia) della tua malattia, e ti fermi lì… non succederà niente in merito alla tua guarigione. Ma se tu saprai riportare tutto questo nella relazione con un altro presente (l’analista), allora potrà succedere qualcosa in merito alla tua guarigione”.
In Freud il transfert è un compromesso (come il sintomo) tra le esigenze della resistenza alla cura e quelle del lavoro di indagine del terapeuta e del paziente stesso. Il sintomo è un compromesso in quanto fa soffrire meno di quello che si soffrirebbe se non ci fosse. Il sintomo è un luogo dove il paziente ha posizionato il suo tentativo di uscire dalla angoscia, appunto rendendo visibile, sensibile, palpabile, etc. il proprio “malessere”. Il transfert allora è proiezione e identificazione da parte del paziente sul terapeuta ma solo su parti del terapeuta (e anche viceversa). La identificazione non può essere globale ma solo parziale.
Ovvero su parti dell’altro. Sta allora all’analista intendere quali sono le parti sue che il paziente ha inteso identificarsi: “Difatti la comprensione del transfert dipende dalla capacità dell’analista di indentificarsi sia con gli impulsi e le difese dell’analizzando, sia con i suoi oggetti interni, e dall’essere cosciente di queste identificazioni” ( H. Racker, Studi sulla tecnica psicoanalitica, Armando 1983, p. 176). Nel transfert e dunque nel controtrasfert si confrontano le “soluzioni edipiche” di analista e paziente.
Terapeuta ideale
La interpretazione del transfert sta allora alla base del processo e del progresso terapeutico? Certamente sì, ma nella humanitas del rapporto, nel senso che il paziente “aggrava” la propria patologia nel momento in cui “idealizza” (terapeuta e relazione). Il pericolo, per il paziente ma soprattutto per l’analista, è che si prospetti nella terapia, la individuazione dell’”analista ideale”.
“Idealmente l’analista fornisce tutto questo – il contenimento, la tolleranza e la sopportazione – nell’ambito della relazione transferale. Anzi, stimola addirittura queste crisi mediante l’interpretazione della misure difensive adottate dal paziente per evitare di sottoporre la relazione a questa verifica cruciale. E l’analista supera questa prova, non grazie ad una ordinaria gentilezza affettuosa, ma rimanendo saldamente un analista che interpreta, riconoscendo con franchezza gli attacchi, consentendo che si sviluppino e persistano alla luce della loro importanza ai fini dello sviluppo, aiutando il paziente a sopportarli, comprendendoli in modo più completo in tutta la loro cruciale importanza, sia attuale che infantile. Avendo soddisfatto a queste condizioni, l’analista viene amato con gratitudine come madre, padre, seno, utero, fallo, amico e analista buono. Non subito, naturalmente, non una volta per sempre e non totalmente, perché questa è solo una parte del lavoro” ( R. Shafer, L’atteggiamento analitico, p. 122).
E’ prassi comune di tutte le psicoterapie e di tutte le analisi che il terapeuta/analista venga idealizzato. Sappiamo che il processo di idealizzazione ha come fine ultimo l’evitamento del rapporto reale. Per esempio l’isterico/a innalza l’analista nel posto più alto possibile in modo poi, se decide di farlo “cadere” si faccia il più male possibile. La strutturazione e la finalità della idealizzazione devono essere intesi come pericoli da parte del terapeuta (anche se a volte egli si fa trarre in inganno, e dunque, una volta caduto, si farà davvero molto male).
A riguardo del transfert: l’analista non deve mai dare per scontato nulla di ciò che gli viene presentato dall’analizzato. La “prova” sta nei fatti della vita reale del paziente che l’analista riesce a verificare e non sulla descrizione che il paziente stesso ne fa. In questa prospettiva l’analista “interpreta”.
La interpretazione è una ridescrizione creativa, da parte dell’analista, delle offerte storiche che il paziente gli offre. Perciò ogni interpretazione “aggiunge” nuove azioni alla vita che l’analizzato ha già vissuto, nuove possibilità di rilettura e di reinterpretazione. Un punto visuale diverso. L’analista non offre un “punto di visata” diverso al paziente, bensì una “visuale” diversa. Visuale si intende che “si può vedere una seconda volta”.
Il transfert (domanda del paziente) consiste in qualche cosa del genere : “non voglio stare da solo, voglio essere nel pensiero di qualcuno”. La quale cosa è il pensiero primo di tutti, a partire dal bambino, di contrastare la solitudine e la angoscia.
Il controtransfert
Il controtransfert è tutto ciò che l’analista “prova” nei confronti del paziente. Tutto ciò che egli pensa che il paziente provi per lui. Tutto ciò che l’infanzia (Edipo) dell’analista gli suggerisce che possa passare tra lui/lei e il paziente. A mio modo di vedere il controtransfert dell’analista si deve misurare sostanzialmente con la “teoria patologica” di cui ogni paziente è portatore. Anche perché il transfert vero e proprio da parte del paziente si conforma sul controtransfert dell’analista.
La teoria patologica
La teoria patologica è prima di tutto un pensiero, o una struttura di pensiero che il paziente porta per “giustificare”, “sostenere”, “motivare”, etc. la propria patologia. In altre parole: “ Ne so più io, più di qualunque altro, sulla mia patologia, sui miei problemi, sulla mia sofferenza, e se qualcuno “si mette in mezzo” a questa mia teoria, mi sento in pieno diritto di contrastarlo. Questa è la “teoria patologica”.
In sostanza il paziente vuole “avere ragione”, sostenere potere del proprio giudizio che afferma che “le cose sono andate come ho visto io e come dico io. Ed io ne sono la conseguenza vivente”. “Avere ragione”, la pretesa di avere ragione è una delle modalità con cui il paziente si avvicina alla analisi. Sempre. La quale cosa tradotta in termini economici significa che il paziente pone immediatamente al terapeuta la questione del “potere”. Chi “sa” di più.
Per il paziente, (la resistenza) la sua missione è quella di avere ragione di fronte a qualcuno che si impegna a fartela vacillare. Il rapporto terapeutico è un rapporto “corpo a corpo”, non è una semplice richiesta di soccorso (la qual cosa tuttavia sarebbe peggio). Avere ragione con se stessi, su se stessi e sull’altro è il regno del potere che nessun paziente è disposto a cedere con tanta facilità. Egli, nella accezione del transfert, può usare tutti gli strumenti validi. Il primo è il “tornaconto della malattia”.
Freud stesso parla di un tornaconto primario della malattia (legata al soggetto, alla “calmazione” della angoscia interna attraverso il sintomo, alla attenzione sul sintomo che svia la attenzione dalla angoscia stessa, etc.). E un tornaconto secondario (che è quello che ha a che fare con il vantaggio che il paziente ha nella sue relazioni “usando” il proprio sintomo, come maggiore attenzione, sgravio da responsabilità, considerazione “privilegiata” dei parenti in quanto malato, etc). La “teoria patologica” comprende anche il “ritorno del rimosso”.
Ovvero quella irresistibile attrazione che il malato (ma anche il sano) ha nei confronto della sofferenza.
Ogni terapeuta dovrebbe sempre tenere presente che lo “status” del paziente è uno status “equilibrato”, conosciuto, sperimentato (anche nella sofferenza) e che ogni possibile prospettato cambiamento è senz’altro visto come pericolo, ansia, angoscia da parte del paziente.
Ogni terapeuta dovrebbe sempre ben chiedersi come mai, ogni paziente, pur conoscendo la strada dell’uscita dai propri mali, fa così fatica ad imboccarla.
Mi sembra molto significativa in merito alla opposizione del paziente a cambiare lo status quo una osservazione di E. Glover: “Questa è proprio la difficoltà cruciale di tute le analisi in cui durante gli stadi precedenti non si è avuto automaticamente un miglioramento. A questo punto spesso dobbiamo affrontare non solo un inasprimento dei sintomi, ma una resistenza totale in cui si impiega ogni espediente per impedire la buona riuscita dell’analisi” ( E. Glover, La tecnica della psicoanalisi, Astrolabio p. 122).
Il paziente si oppone al cambiamento, come se il cambiamento dovesse essere una sconfitta alla strutturazione della “teoria patologica” che egli ha costruito “da” se stesso “su” se stesso. Accade assai spesso che il paziente, a livello conscio, presenti la propria pretesa ad avere ragione su se stesso come difesa della propria “integrità”, a difesa della propria “naturalità”, quasi della propria “verginità”, per cui ogni possibilità di cambiamento offerta dal terapeuta viene intesa come un “vulnus” lanciato contro la globalità della propria interezza.In parole povere: “Se mi fai cambiare, mi snaturi (e io non voglio essere “violentato”)”.
La non accettazione da parte del paziente di qualsiasi intrusione nella propria “teoria patologica”, ovviamente va letta da parte del terapeuta nel senso edipico: il bambino non vuole essere toccato nella sua idea della madre tutta per sé. Madre tutta per sé che poi significa la madre che (io penso) mi dà sempre ragione, mi capisce pienamente, forse mi perdona tutto. L’analista, in questa dinamica, è visto come il padre che “mette il palo tra le ruote” alla conservazione concettuale del bambino/paziente della propria idea. Poco conta poi che questa idea comporti dolore e sofferenza. Purchè io abbia ragione.
Se la relazione paziente-analista viene rifiutata, significa che prima era stato rifiutato il rapporto edipico da parte del paziente (ovvero, prima la coppia padre-madre, e poi io). Esiste un pensiero che sorregge, governa la teoria patologica: il pensiero, del paziente, che “cambiare” equivalga al perdere la propria “natura”, la propria storia, la propria identità, il proprio status, la propria integrità (teoria patologica) = c’è gente che muore pur di dimostrare che “ha ragione”. Molte persone, sull’altare dell’ “aver sempre ragione” sacrificano la loro libertà e anche la loro possibilità di cambiare (con il contributo dell’altro).
Molte persone, sull’altare dell’ “aver sempre ragione” , istituiscono la loro “causa” di soggetti che pensano di essere…offesi, svalutati, denigrati, emarginati, castrati, etc. e in questo modo si trincerano dietro un pregiudizio, il loro pregiudizio su se stessi che recita “io sono come dico io” e non diversamente. Il tornaconto della malattia recita, sostanzialmente, “ho ragione io, malgrado tutto quello che tu dica” (dentro transfert e controtransfert).
Allora l’analista “usa” (dovrebbe usare) la propria nevrosi (più o meno guarita) per prendersi cura del paziente? Senza ombra di dubbio “si”. Non ci si può prendere cura di nessuna sofferenza se non attraverso la propria sofferenza. Poi che la “sofferenza” del terapeuta sia guarita o meno ha a che fare con la morale(anche deontologica) del terapeuta. Ma poi il terapeuta “si accorge” immediatamente se ha la presunzione di curare qualcuno senza essersi curato prima lui. La cartina di tornasole è la sofferenza durante le sedute. Magari durante certe sedute dove i rimossi, i sintomi, le inibizioni, etc., sono le stesse tra paziente e terapeuta.
Controtransfert ancora. Il paziente è un portatore di disagio nel momento in cui si presenta all’analista. E l’analista deve tenere bene in considerazione questo dato. Come se alla mia porta si presentasse una persona che io “non desidero” : “ Dobbiamo quindi considerare tre fattori: primo, il disturbo emotivo dell’analista, di cui dovrà occuparsi in silenzio, dentro se stesso, prima di riuscire a disimpegnarsi a sufficienza per capire gli altri due; secondo, il ruolo del paziente nel causare tale disturbo; e infine l’effetto che esso ha su di lui” (R. Money-Kyrle, Scritti, 1927-1977, p. 495).
Il controtransfert è l’impatto dell’incontro di due persone (analista e paziente). Non si incontrerebbero nella loro vita normale, ma si incontrano in un percorso (domanda-risposta) di sofferenza. E’ ovvio che chi si rivolge a me nella qualità di sofferente, io ci sto attento. E’ questo l’inizio del controtransfert. Il paziente che si avvicina all’analista porta una domanda fondamentale: “ Fammi capire (non con le parole ma con la tua presenza) come si sta al mondo. Come io devo fare per stare bene al mondo”. A partire da questo è inevitabile che il paziente si ponga nella condizione di chiedersi quale possa essere il giudizio che l’analista, il terapeuta, ha su di lui.
E’ la prima forma di resistenza ma è anche la prima forma di legame tra paziente e analista. E tale domanda spesso si disperde nei meandri della storia del paziente, dove il giudizio degli altri su di lui/lei non è sempre stato favorevole. L’analista spesso si trova a raccogliere dei cocci di giudizi. Dalla storia, dall’immaginario, dalla fantasia del paziente. Ecco, mi viene da dire che l’analista dovrebbe tenere una certa “distanza” nei confronti di tutto questo.
Distanza nei confronti delle “confessioni”, “ammissioni”, “seduzioni” del paziente. La distanza edipica di chi ascolta ma “non partecipa” immediatamente alla “causa” senza prima avere bene capito le “questioni” della causa.
Ogni paziente è portatore, nella sua domanda di terapia, di un avvallo alla sua “causa” al suo pensiero su se stesso, alla immagine che egli ha tracciato di sé. L’analista deve stare bene attento che ciò che il paziente porta all’inizio della terapia è quello che ha sempre portato nelle sue relazioni.
E che ha fatto funzionare o anche naufragare le sue stesse relazioni. Per questo la distanza del terapeuta dal paziente (idee, pensieri, confronti, deduzioni causa-effetto, etc.) è il luogo ideale dove instaurare un rapporto. Il luogo dove le dipendenze sono estinte e la libertà è istaurata.
Guido Savio