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SANI E MALATI (Calvino e Cecov)

Essere sani significa “saper essere” incompleti e mancanti. Essere sani significa “saper essere” portatori di gioia e portatori di dolore allo stesso modo e tempo. “Portatori” nella doppia accezione del termine: ovvero “saper (sop)portare” dentro se stessi gioia e dolore: ovvero “saper portare” gioia e dolore agli altri.

Essere sani significa (Svevo docet: “Se l’anima duole, perché guarirla per forza?”) tenere dentro di sè una parte “malata”. Saperla tenere senza volerla liquidare a tutti i costi e senza voler lottarci contro per raggiungere una vittoria finale.

La vera malattia è la ribellione alla regola e alla logica della presenza del dolore dentro di noi in quanto esseri umani, ovvero incompleti e mancanti. Tutti, senza distinzione.

La vera malattia è la lotta accanita contro di essa che impedisce di vedere e capire il nostro limite, e nello tempo la spinta incontrollabile ad aspirare a una illusoria e inarrivabile “interezza”, “completezza”. O tutto o niente.

Aut/aut, o/o (o stare bene o stare male) è malattia. E&e (saper stare bene e saper stare male) è salute.

La accettazione del dolore e della mancanza non è passività o il soccombere al destino, bensì il punto di partenza, meglio, lo strumento il cui uso consentirà una “vita normale”.

“Così si potesse dimezzare ogni cosa intera – disse mio zio bocconi sullo scoglio, carezzando quelle convulse metà di polpo, – così ognuno potesse uscire dalla sua ottusa e ignorante interezza. Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di vedere tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te lo auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa”.

E’ la metà che manca, la accettazione del limite che permette al visconte Medardo di Terralba, “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino di arrivare alla propria profondità e alla profondità del mondo. E’ la convivenza del sano e del malato dentro di noi che permette la preziosità del vivere e del “sentire” noi stessi e le cose: la mancanza ci rende più sensibili, più potenti, più attenti, più fini e più vivi.

“Allora il buon Medardo disse: – O Pamela, questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminate ovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo”.

Convivere con la propria mancanza è l’unico strumento che abbiamo per “capire” l’altro e le sue mancanze, per portarle e per (sop)portarle. E’ la accettazione della mancanza che “fa” Universo, che fa l’uomo simile al proprio simile, che ci mette tutti su di una stessa barca.

Come “Lo studente” dei “Racconti” di Cecov che parla alla vedova Vasilisa e a sua figlia Lucer’ja del tradimento di Pietro e capisce, parlando, che Piero può essere perdonato solo se in lui tutti gli Uomini si riconoscono. Se sanno vedere nel suo passato il proprio presente. Si riconoscono nella sua mancanza, nella sua debolezza, nel suo limite umano. Ed è in questo limite che si “fa” Universo.

“ E gli pareva di aver scorto, poco prima, i due capi della catena: non appena aveva toccato uno dei due estremi, l’altro aveva vibrato”.

Guido Savio

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