“Consumare è vita”. Proprio nel senso che la vita, per avere senso, va consumata. Max Stirner nel suo L’Unico e la sua Proprietà, libro che potrebbe essere letto come l’inno all’individualismo dell’uomo, nel senso buono e anche nel senso cattivo come l’Idealismo può avere un senso buono e un senso cattivo. Scrive Stirner: “Ma come si usa la vita? Consumandola come una candela. La si usa bruciandola. Si fa uso della vita e insieme di se stesso, il vivente, consumando la vita come se stesso. Godere la vita significa usarla, consumarla”.
Uno. La candela produce luce, calore, bellezza, ricchezza, vita. Due. Ma è proprio espletando a questa funzione che essa si consuma, cioè si estingue, muore, va a finire tutta in cera persa sul tavolo.
E portando subito la questione sul piano della relazione, che è l’unica cosa che ci interessa al mondo, uso il vocabolario per definire meglio questa duplice strada della consumazione, che è poi la strada della concomitanza del vivere come avvicinamento alla morte.
Leggo nel Dizionario i due binari. La prima definizione della parola “consumazione” è: “Consumare, portare a termine, portare a conclusione, dare perfezione, portare a compimento, portare ad un fine”.
E dunque la prima accezione della parola come un legame stretto tra la consumazione e il tempo nel senso del prodotto. Fare qualche cosa insomma. Portare a termine qualche cosa come produzione di ricchezza, come produzione di vita. Anzi, direi di più. Consumare come vita stessa, la candela di Stirner insomma.
La seconda accezione della parola consumazione recita: “Ridurre a nulla togliendo poco per poco, dare fondo”. Andare alla ricerca, dare fondo al nostro desiderio, non averne paura (dell’altro, del Tu).
Premessa e conclusione: è il Tu che fa l’Io. Ovvero non senza l’altro, non siamo nulla. Il senso profondo del nostro essere è quello dello “scaturire” dalla relazione con il Tu. Dal “venirne fuori” non tanto nella logica dell’esserne contenuto passivamente, ma nella logica (come la intende Roberta De Monticelli nel suo “L’Ordine del Cuore” che la nostra identità stessa è sancita dalla relazione con l’altro. Se cambia l’altro della nostra storia cambiamo anche noi. Non solo la nostra esistenza è impossibile senza l’altro ma è impossibile anche il nostro avere un pensiero di noi stessi. Senza l’altro è impossibile la nostra stessa identità.
Quando si usa l’espressione “tenere un posto per l’altro”, ovvero usare disponibilità affinchè l’altro entri in noi, avere capienza per l’altro, ossia volontà di capirlo dentro di noi, dare ascolto, offrire la nostra nicchia, un agente contenitore pronto per l’altro. Tolleranza, accettazione… prendiamo per buone tutte queste accezioni.
Ci accorgiamo che non è tanto che dentro di noi ci sia “già” il posto per l’altro. Tale posto lo fa nascere l’altro, lo determina l’altro con il suo comparire davanti a noi. Non c’è la sedia vuota già pronta attorno alla tavola e… se arriva qualcuno ha dove sedersi. No. E’ il comparire dell’altro, il comparire del Tu che fa saltare fuori la sedia e allora noi la andiamo a prendere e ceniamo tutti contenti con il nuovo ospite in più. E’ stato il comparire del Tu che ha sanzionato il fargli posto dentro di noi. E’ il tu che crea la condizione per la nostra capienza, per la nostra accoglienza. E’ l’altro che con il suo comparire fa sì che salti fuori la sedia dentro di noi. La sedia non c’era già. Quando l’altro bussa salta fuori la sedia: è il Tu che determina l’Io, sempre. Quando entra il Tu fa l’Io.
Scrive la De Monticelli nel libro che ho citato prima su questo essere determinante del Tu nei confronti dell’Io. “Quello che c’è di indubbiamenmte misterioso nell’amore, perfino nelle sue forme più naturali e familiari, perfino in quello materno e filiale è la circostanza che l’amore apre gli occhi a un suo fondamento non altrimenti dato: la realtà di un individuo”. La De Monticelli afferma che la realtà, dunque la storia di un individuo è data dal fatto che un altro ha amore per lui. E’ il Tu della relazione che ci apre gli occhi su chi siamo. Siamo in quanto siamo amati.
Proprio come tuona Giovanni della Croce quando afferma che “Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore”. Dato e ricevuto. In quanto è il dare e ricevere amore che determina tutti gli Io e tutti i Tu che calcano la Terra con i loro passi. Io esisto come individuo in quanto c’è un altro che mi ama. Diversamente avrò mille difficoltà (patologie) nel cogliermi come individuo, individuum unico e irripetibile. Pronto a vivere e consumare la propria vita.
Per questo è fondamentale che il bambino nella sua crescita, senta l’amore dell’altro, dei suoi genitori, perché è attraverso questo sentire che egli struttura la sua identità, il suo essere pensante, il suo essere pensante un buon pensiero di se stesso in quanto altri lo hanno avuto. Il suo amare se stesso.
Guido Savio