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CHI E’ LIBERO?

CHI E’ LIBERO?

Il chi ama chi? nell’amore di sè per la donna, appare ancor più misterioso che per l’uomo. Perchè la donna non può porre se stessa per se stessa come oggetto. E perchè, sconcertata da questa mancanza di “posizione” possibile, lei si lascia porre dall’altro -uomo o madre. Non ama se stessa come oggetto. Può tentare di amarsi come interiorità, ma non può vedersi. Bisogna che giunga all’amore dell’invisibile e alla memoria di un contatto che non si vede mai, e che spesso lei avverte nel dolore

Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale

Una domanda: ma ad essere libero, chi è? Qual è quella essenza, quell’ente, quell’esistente, quell’io, quell’individuo, quel tizio, insomma che vive e amministra la propria libertà? chi siamo noi che possiamo chiamarci liberi? qual è il qui consistat della libertà essendo la libertà una virtù impensabile al di fuori di un individuo che la gode come virtù e come garanzia di salute psichica.

Scrive Paolo Flores D’Arcais:

“Il ‘chi’ del soggetto è determinato assai più da ciò che ciascuno si attende di essere”.

Il dover essere dunque? Il dover essere è il nostro “chi”?

Kant sembra non avere dubbi quando scrive, citato in Cassirer:

“Se giudico che questa o quella azione da me compiuta si sarebbe dovuta (Sollen) svolgere, allora un asserto siffatto, quando l’’io’ vi venisse preso esclusivamente in eccezione solo descrittiva, sarebbe privo di senso. Infatti l’io come fenomeno empirico-sensibile, come questa determinata volontà in queste determinate condizioni, non poteva non compiere l’azione: quando avessimo una conoscenza completa del carattere empirico di un uomo, ne potremmo prestabilire il comportamento e gli impulsi con la stessa esattezza con cui possiamo calcolare in anticipo una eclissi di sole o di luna”.

Ancora ci imbattiamo nel “principio di ragion sufficiente”, l’uomo è chi fa una determinata azione perchè diversamente non potrebbe fare, anche se l’uomo non è comportamentismo.

Alla domanda rivolta da Mosè sull’Horeb, Dio risponde Ego sum qui sum e, se vogliamo, giustamente liquida la questione e la curiosità di Mosè. Una curiosità, peraltro, tendente al risparmio, in quanto Mosè non volera fare il lavoro di definire Dio dentro se stesso. Ma noi non possiamo fare altrettanto, non possiamo rispondere all’altro che ci interroga “Sono quel che sono”, l’altro, inevitabilmente e giustamente ci prenderebbe per presuntuosi e superbi e girerebbe i tacchi. Per questo noi dobbiamo definirci, o almeno tentare, su parametri molto più modesti.

Una buona dritta per individuare il “chi” ce la offre Salvatore Natoli nel suo L’esperienza del dolore, sempre a partire dall’episodio sull’Horeb. Scrive Natoli:

“Mosè interroga Dio circa il suo nome e ottiene da lui questa risposta: “’ehejeh ‘asher ‘ehjeh”: io sono colui che sono. La traduzione greca delle parole ebraiche è: egò eimì o on . La definizione ontologica che il verbo eimì suggerisce è del tutto estranea alla cultura del Vecchio Testamento ed è più che mai distante dall’esperienza che gli Ebrei hanno di Dio. Qual è dunque il significato della risposta di Jahvè? L’esegesi biblica sia da parte ebraica che cattolica e protestante è concorde nel ritenere che le parole ‘io sono colui che sono’ non hanno nè il significato dell’astratto essere nè tanto di una pura esistenza, bensì di un accadere, di un divenire, di un esserci e, soprattutto, di un essere presente”.

Dunque il “chi”, il nome, è un “essere presente”, uno “starci” nel proprio posto (non tanto un dovere kantiano), nel posto nel quale si è stati chiamati a stare, un ricoprire il quale si è competenti, del quale si ha conoscenza, un presenziare con il proprio sapere.

E ancora una volta torna la questione della competenza: ad essere libero è il competente, l’incompetente non lo può essere, come ad amare ed essere amato è il competente, l’incompetente non lo si ama, lo si sopporta, al massimo.

Il competente è lo psicologo che abbiamo visto nella frase iniziale del nostro amico psicotico: “Siamo tutti psicologi nella vita”, se vogliamo, siamo tutti competenti sul nostro esserci, sul nostro stare al mondo. L’incompetente non si ama, come pure chi non ha capacità di intendere e di volere non si ama. Si può allora amare l’handicappato? Sì, solo se non lo si pensa handicappato.

Apro qui una parentesi. Ogni relazione funziona se entrambe le componenti sanno svolgere reciprocamente la funzione di Soggetto e la funzione di Altro. Ovvero, Soggetto è chi si muove verso l’altro, altro è chi aspetta il soggetto che si muove. Soggetto è colui che domanda, altro è colui che risponde, e così via. Due persone stanno bene assieme se sanno svolgere ora la funzione di soggetto ora la funzione di altro. Reciprocamente.

Il portatore di handicap, per definizione svolge solo la funzione di soggetto verso il quale gli altri devono muoversi, al quale gli altri devono dare, che gli altri devono aiutare. Bene, il portatore di handicap rimarrà tale se i soggetti che si occupano di lui non lo pongono nella condizione di svolgere anche lui, come tutti, la funzione di altro, ovvero di essere Altro per soggetti che si rivolgono a lui, dunque diventare responsabile ed essere trattato da responsabile. Chiusa la parentesi.

Abbiamo già visto in precedenza come la accoppiata Libertà=Esistenza sia fondante l’individuo. E abbiamo ancora visto come il target, l’obiettivo, l’oggetto del moto della libertà sia esterno, perchè è dall’esterno, dall’altro che viene la salute e la soddisfazione, e abbiamo visto nella introduzione come libertà sia sempre “con” un altro.

Giovanni Jervis, in un suo affascinante libro che ha come programma un tentativo di definire l’identità del soggetto, ha modo di scrivere: “ L’idea di psicologia nasce dalla separazione fra autoevidenza dei fenomeni considerati come mentali, situati nei confini di una sorta di mondo interno, e lo studio degli eventi considerati oggettivi, costituenti il mondo esterno alla mente”.

Freud direbbe “E’ l’ennesima questione del dentro e del fuori”. Ed in effetti è solo questa la questione. Noi nasciamo in questo passaggio, quando usciamo dalla nostra pelle o dai nostri sfinteri sia attraverso le sensazioni, ma soprattutto attraverso il nostro lavoro di elaborazione sulle sensazioni, ovvero il pensiero. C’è un inizio perchè noi possiamo dirci noi. Il leone salta una volta sola e il nostro inizio è quando rappresentiamo qualcosa fuori dalla nostra pelle e verso esso ci dirigiamo. Il fuori è il luogo della nostra conoscenza.

E in Cartesio il cogito altro non è che la certezza che il pensiero è il ponte che mette in comunicazione con il mondo. Ma di più, Cartesio identifica l’atto del conoscere con la scoperta di sè come essere razionale. Noi siamo il nostro pensiero come funzione producente una realtà che si inserisce nella Realtà, nell’Universo.

L’Io, quella entità che tutta la Psicologia tenta di definire, è il pensiero di esterno in cui pensiero è la prima tappa e realtà la tappa conclusiva, quella della soddisfazione, della salute, quella della libertà.

Il pensiero è un atto che va da…. a.

Ma, domanda infantile, da dove esce il pensiero? Risposta altrettanto banale: il pensiero esce da tutti i pori della nostra pelle. Il cervello che produce il pensiero non è un organo diverso da tutti gli altri organi del nostro corpo, dallo stomaco, dalla milza, dall’intestino, dal cuore. E’ il nostro corpo che pensa, non una astrazione che alcuni chiamano mente. Il corpo pensa significa che nel corpo sta la nostra realtà, nella naturalità del corpo della legge di natura sta la nostra salute e anche la possibilità di comunicarla.

La distinzione veterofilosofica tra mente e corpo è sempre stata una falsa distinzione, è il nostro corpo che vive e ci guida, cervello compreso, ma non cervello da un’altra parte, o, peggio, fuori dal corpo. Il pensiero allora esce dai pori della pelle che, assieme ad altri “buchi” costituisce i canali di comunicazione tra interno ed esterno. La nostra coscienza è il lavoro di pensiero dell’Io che cerca una strada, una dritta, una norma, come nel Salmo “Medito giorno e notte la tua legge, Signore”. E sappiamo come quello di Dio sia uno dei fondamentali nostri pensieri di Altro e di Esterno. E sappiamo anche che il pensiero è sempre teso verso la Legge, verso un sistema di soluzione, verso un ordine. Il pensiero è sempre pensiero che compone la Legge.

Cartesio in merito non ha dubbi quando scrive: “Sum autem res vera, et vere existens; sed qualis res?” . Cartesio sembra proprio chiedersi quale sia la natura che mi fa, di che pasta sono fatto che mi consente di chiamarmi individuo. E oltre: “Novi me existere; quaero quis sim ego ille quam novi (“Ho riconosciuto che esistevo, e cerco chi sono, io che ho riconosciuto di essere”).

Nell’”io penso” cartesiano ciò che si coglie come “cosa vera, veramente esistente” è la complessità della mente e nello stesso tempo il fascino del lavoro del pensiero, che affascinante è in quanto libero.

La cosa pensante è la totalità della vita psichica. La libertà viene dall’incontro con la alterità, non dalla fuga da essa. Lì sta la patologia. La quale patologia, sappiamo, tuttavia si affloscerebbe se non fosse sostenuta da un incessante e faticoso lavoro contrario (alla salute). Per essere ammalato, ovvero non libero, io ci devo dar dentro a olio di gomito, devo volerlo con tutte le mie forze. Qui Freud parla di tornaconto della malattia, ma non è questo il luogo per addentrarci in questa questione.

Alasdair McIntyre nel suo libro Oltre la virtù parla della aretè, della virtù nel mondo greco come un fare, un essere davanti agli altri, un esserci come prodotto del proprio pensiero produttivo. L’uomo è ciò che gli fa fare il proprio pensiero.

E’ questo che fa dire a Cartesio “ Res cogitans, sive mens, sive animus”.

Sul pensiero produttivo vorrei portare un paio di esempi per sottolineare che esso non è un obbligo, un dovere, una necessità, una forzatura alla quale noi tutti dobbiamo assolvere se vogliamo stare bene e… essere virtuosi. No, il pensiero produttivo è non opporsi alle realtà che avvengono in noi e fuori di noi, il pensiero produttivo è sì stare svegli ma è anche lasciare che la realtà attorno a noi, e gli altri attorno a noi, facciano quello che devono fare verso di noi, per il nostro beneficio appunto, senza che noi ci opponiamo alla bontà del lavoro degli altri.

Molto spesso l’altro reale è negativo se noi lo giudichiamo negativo. Il pensiero produttivo è mettere in atto il proprio diritto, è il pensarsi e farsi trattare da soggetti di diritto. Il primo esempio. Una signora ricorda che, da bambina, sta giocando a Monopoli con il proprio padre. La bambina è fortunata perchè possiede sia Viale dei Giardini sia Parco della Vittoria, il massimo. Il padre cade spesso dentro a queste caselle ma lei finge di non accorgersi e non fa mai pagare la tassa al padre. Questi, dopo un po’ le fa notare la questione, allora la bambina, rincuorata dalle parole del padre e vinto il senso di colpa che le impediva di fargli pagare la tassa, comincia a riscuotere il danaro e vince la partita.

Il pensiero produttivo, in questo caso, è rappresentato dall’abbandono, da parte della bambina, della sua opposizione ad avere diritto al pagamento della tassa da parte del padre. Evidentemente la bambina “non aveva il coraggio” di fare valere il proprio diritto davanti al padre ed era caduta nella inibizione. Superata la inibizione, la bambina mette in atto il proprio pensiero produttivo che recita: “Non opporti al tuo diritto”.

Il secondo esempio. E’ l’esempio della negazione del pensiero produttivo. Un signore racconta questo ricordo d’infanzia. Un giorno viene rotto in casa un vaso di ceramica. Il fatto viene raccontato al padre alla sera, quando torna dal lavoro, perchè , in qualche modo, faccia saltare fuori il colpevole tra i figli che non riconoscevano la loro colpa. Il padre afferma: “Il vaso si è rotto perchè nessuno lo teneva”. Ecco la negazione di quello che qui si intende per pensiero produttivo. Non si tratta di una ossessione, di una prevenzione, di una necessità (in questo caso anche assurda) di tenere il vaso fermo perchè non cada per terra finchè la terra stessa ruota attorno a se stessa. Il pensiero produttivo non è dannarsi l’anima per provvedere a tutto ma il semplice non opporsi al beneficio che noi possiamo ottenere dalla realtà e dal rapporto con l’altro. Il vaso sta in piedi da solo, non occorre che io lo tenga.

Il “chi” che stiamo cercando allora è quel soggetto che pensa produttivamente e si pensa libero dalla inibizione e disponibile ad avere soddisfazione come proprio diritto.

Il “chi” che stiamo cercando non è certo il “chi” del comportamentismo. Non è il chi che vuole o programma comportamenti, il chi… che segue le indicazioni, il chi che elabora strategie dell’adattamento ma è il chi, di propria testa e dunque anche di propria tasca, attua la propria competenza normativa attraverso il proprio Pensiero di Natura, ossia: “La mia stessa natura , se io non mi oppongo, mi conduce alla salute o alla salvezza, che poi sono la stessa cosa”.

Porto qui alcune riflessioni sul comportamentismo.

Il comportamentismo, e quella versione riveduta e aggiornata che si chiama cognitivismo, si sono imposti alle altre psicologie del Novecento tentando di dimostare che non esistono leggi naturali di pensiero: la loro corretta conclusione è stata che il moto del corpo umano (“comportamento”) non è governato dall’istinto.

E’ la stessa conclusione a cui era giunto Freud molto tempo prima della pubblicazione delle conclusioni di Watson, il padre del comportamentismo. Ma mentre per Freud non c’è istinto nell’uomo perchè è il soggetto stesso ad avere la competenza giuridico-psicologica nel porre leggi per il pensiero, per comportamentismo e cognitivismo si tratta al contrario di esautorare la competenza giuridico-economica del soggetto ponendo, al posto delle inesistenti leggi dell’istinto, i patterns o models of mind come se si trattasse di prescrizioni. Noi sappiamo invece che l’uomo non si programma, si incontra ma non si programma.

Ecco perchè la vita psichica, potendo vivere esclusivamente nella e della istituzione di rapporti con altri soggetti in ordine alla soddisfazione, è vita giuridica. Al concetto di rapporto il comportamentismo e il cognitivismo oppongono il concetto di interazione che è mutuato dalla fisica delle particelle in quanto le particelle si influenzano a vicenda. Finite le riflessioni. Questo “chi” è il luogo dove noi possiamo poggiare la nostra identità, dove stanno i nostri confini, dove stiamo di casa. Seguiamo allora un interessante percorso che traccia ancora Giovanni Jervis nel libro già citato quando chiama in causa Alice e il suo paese delle Meraviglie:

“Secondo una immagine ottocentesca diventata celebre Alice vede il Re Rosso che, sdraiato sotto un albero, la sta sognando e viene subito avvertita del fatto che se il Re si svegliasse ella svanirebbe all’istante (L. Carrol, Through the looking-glass and what Alice found there, 1872, chapt.4). In questa ipotesi il soggetto viene negato nella sua autonomia: Alice non è soggetto rispetto alla realtà perchè è lei stessa oggetto della precaria soggettività del Re Rosso. Il Re ha creato lei e lo scenario intorno; ha inventato una recita e la fa muovere come una marionetta. Dunque Alice non esiste? Esiste invece, eccome, proprio in senso cartesiano. Certo, il suo io primario è esportato dal Re Rosso, e quindi vanificato. Però nulla impedisce che il suo esistere abbia anche una autonomia: Alice è ontologicamente reale proprio come prodotto del sogno del Re. Alice può dire ‘Io esisto’. Del resto il Re stesso potrebbe fare parte di un sogno di Lewis Carrol o, come nel libro, del sogno di un’altra Alice; così come Lewis Carrol, e noi tutti, possiamo fare parte di un sogno di Dio”.

Apro qui una breve parentesi sul sogno e sul sonno.

Pensiamo a quanto economicamente vantaggioso sia il sonno. Finchè dormo, a farmi dormire è il sanissimo pensiero che qualcuno, proprio finchè dormo, pensa, lavora, si dà da fare per tenermi in vita finchè io mi riposo. Questa è la natura, questa è la legge della natura a cui ho accennato all’inizio e di cui parlerò diffusamente alla fine di questo lavoro. Il mio sonno è proprio il segno della presenza dell’altro, che qualcun altro manda avanti… la baracca, che qualcuno mi fa stare vivo, che fa battere il mio cuore e mi fa respirare, senza che io ci pensi. Questo significa “economia di un pensiero”, e noi sappiamo che l’economia è tale in quanto “contabile”, ovvero la si vede, è lì davanti agli occhi con i suoi responsi, con i suoi risultati. L’Alice di Lewis Carrol in fin dei conti vive perchè qualcuno ha narrato di lei, perchè qualcuno, come nel passo trattato, la sogna, esiste perchè è nel pensiero dell’altro. Tornando ancora una volta alla possibile definizione del “chi”, del soggetto che è libero possiamo ulteriormente procedere ipotizzando che un minimo di sicurezza del nostro “io” vivo ce la abbiamo nel sentirci esistere nel concreto, cioè al ritrovare noi stessi in carne ed ossa ad ogni attimo. E qui è d’obbligo il ritorno al sonno. Pensiamo a quale miracolo avviene ad ogni nostro risveglio, quando non dobbiamo fare tutto il lavoro di costruzione sensoriale, mnestica, rappresentativa, etc, di noi stessi, non dobbiamo ricominciare dall’inizio, ma ci basta qualche secondo per… riconoscerci “io”.

Finchè io dormo qualcuno pensa a me. La natura pensa per me. Io vado avanti nella mia vita da solo, senza dannarmi l’anima a controllare le funzioni del mio corpo. A farlo ci si ammala, garantito. Quando sentiamo, e quanto spesso capita, qualcuno che dice sconsolato: “Eh, ho tanti pensieri…!” stiamo pur certi che costui non ha pensieri seri, non ha pensieri produttivi, ma pensieri dietro cui… filare nella strada dell’ammalarsi o perdere le notti. La salute, lo sappiamo, è pensare quanto basta.

L’uomo allora è ciò che fa, e anche il suo pensiero se non è produttivo corre il rischio di diventare un pensiero che ammala. Ad essere è il moto del nostro corpo e il tragitto del nostro desiderio. Ed è la realtà l’unico luogo del nostro pensiero. Ricordiamo quanto Freud abbia lavorato attorno alla questione del Principio di Realtà, distinguendola dal Principio di Piacere, intendendo la prima istanza (ma sto grossolanamente semplificando) il fuori e la seconda il dentro.

Enzo Codignola si esprime in questi termini sul modo in cui Freud intende il Principio di realtà:

“Freud ha definito l’esame di realtà come una funzione dell’io deputata ad elaborare le informazioni provenienti dalla realtà esterna per permetterne una parziale conoscenza, ma soprattutto per rendere possibile il confronto tra realtà esterna e le rappresentazioni interne, di origine diversa e complessa (pulsioni e loro derivati, tracce mnestiche e loro elaborazioni, etc.).

Ora l’esame di realtà coincide con l’esame sul nostro “chi”. Chi siamo lo vediamo nella nostra realtà. Il problema, come sostiene Freud non è tanto capire di che cosa è fatto il mondo esterno, ma di quanto esso coincida con le rappresentazioni che noi ci siamo fatte di esso. In altre parole noi “siamo” in base alla nostra capacità di fare coincidere il nostro dentro con il fuori, il nostro Principio di Piacere, con il Principio di Realtà. Il pensiero del soggetto, originariamente inconscio e fantasmatico, via via diventa produttivo quando si relaziona con la realtà.

Come afferma Mauro Mancia quando annota:

“Nato come processo primario che tende alla scarica immediata di energia e alla soddisfazione diretta del desiderio sotto il dominio del principio di piacere, il processo entra nella categoria dei processi secondari quando l’apparato psichico deve tener conto della realtà”.

Guido Savio

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