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LA TV VIOLENTA

LA TV VIOLENTA

I dati statistici

Esiste indubbiamente una certa problematicità nella lettura dei dati statistici, ed affidarsi a loro per trarre conclusioni può essere fuorviante.

Dai dati statistici raccolti in I figli della tv, a cura di Pietro Bertolini e Milena Manini emergono i seguenti numeri:

– la media giornaliera di fruizione della tv del preadolescente va da una media di 2 ore e 1/2 a una punta massima di 5, 6 ore.

– il ragazzo guarda da solo la televisione nel 47% dei casi, mentre la guarda in compagnia di una figura genitoriale, prevelentemente la mamma, nel 25% dei casi.

– la tabella dei programmi preferiti distinti in maschi e femmine attorno all’età dei 12 anni:

maschi femmine

film 6%

film 3%
telefilm 13%

telefilm 23%
cartoni 5%

cartoni 3%
musica 14%

musica 10%
sport 22%

sport – varietà 20%

varietà 27%
cultura 20%

cultura 10%

La lettura dei dati porta alla ovvia conclusione che il maschio usufruisce maggiormente della fermmina del mezzo televisivo.

Prima di adentrarci nel nostro discorso è bene considerare questa regola: la televisione è pur sempre un medium “intrusivo” (differenze con il libro su cui è possibile una scelta – la televisione invade con l’immagine e con il richiamo i possibili vuoti di attenzione del ragazzo)che entra non sempre voluto e chiamato dal fruitore.

Nel procedere tuttavia è da evitarsi un atteggiamento apocalittico e demonizzante del mezzo televisivo, che in sè e per sè costituisce un notevole strumento di istruzione, maturazione e confronto.

L’invasione della Nippon Animation

” Dal 1976 ad oggi sono state messe in onda oltre duecento serie giapponesi. Tenendo conto che le puntate sono di trenta minuti, che la durata media di una serie è di cinquanta episodi, e che ogni serie è stata replicata almeno una volta e ripetuta una seconda in una diversa fascia oraria, si rafggiunge un totale di 20.000 ore di programmazione: oltre sei ore al giorno, tutti i giorni per nove anni (…) un bombardamento sufficiente a rincretinire chiunque, e a far sembrare ripetitivo qualunque prodotto nato per essere diffuso con altri tempi e altri ritmi. Ciò che i distributori italiani hanno avuto interesse a propinarci in soli nove anni, in Giappone è stato infatti diluito in più di venti anni di programmazione” (A. Castalli, G. Bono, L’ascesa della Nippon Animation).

Il cartone animato deforma la realtà attraverso la deformazione della immagine e delle categorie spaziotemporali. Un basso tasso estetico è accompagnato da una alta valenza di contenuto violento (reale e psicologico = la meritocrazia giapponese).

La violenza in tv

Le scene di violenza rappresentate in tv hanno una loro particolare posizione e una ricorrenza che è bene vedere da vicino.

“Le scene di violenza sono inserite in contesti narrativi dove un “prima” e un “dopo” e una certa articolazione del racconto consentono di darne una lettura in termini connotativi. La violenza viene così, a livelli più o meno elementari, problematizzata e interpretata attraverso la comprensione del contesto, delle tipologie dei personaggi, dello sviluppo di una certa situazione, etc.” (Dieci anni dopo Goldrake, di Roberto Farnè, in I figli della tv).

La violenza dunque è un punto di partenza che viene ragionata come possibile soluzione delle questioni conflittuali che il testo della fiction propone e si pone quasi come un evento ineluttabile.

Nel tempo narrativo le scene di violenza diventano sempre più centrali, mentre il prima e il dopo si riducono ad appendici preparatorie. A questo si aggiunga l’uso del telecomando che consente di saltare i “tempi morti” e di concentrarsi solo sulle sene violente.

I ragazzi, accaniti ricevitori e ricercatori di emozioni forti, diventano ben presto degli abili slalomisti, alla ricerca dell’emozione cruenta, riuscendo anche a tagliare i tessuti narrativi del telefilm, del film o del cartoon.

A questo si può aggiungere il fenomeno della multimedialità, ovvero il film che è accompagnato dal disco, dalla cassetta, dalla pubblicità, dalle magliette, dall’adesivo, etc. che si abbatte sul ragazzo come un tam tam di richiamo, con le caratteristiche della ripetitività delle vecchie fiabe, tanto richiesta dal bambino.

La tv non è la verità

La tv è una finzione, anche quando riporta la realtà, essa è sempre una manipolazione della realtà. Il problema che si pone è se il ragazzo abbia una autonoma capacità di giudizio per difendersi da questo tipo di invasività.

La frase “l’hanno detto in televisione” è tutt’altro che sinonimo di fatto realmente accaduto così come è presentato.

La tv cambia e manipola la realtà stessa che presenta in quanto sua funzione, suo destino, ma anche suo limite è quello di creare il cosiddetto pubblico maggioritario; in parole povere la tv deve andare in cerca della gente e presentare ciò che la gente si aspetta, la qual cosa non sempre rispetta la verità dei fatti. (es: il bestiario di Costanzo, i processi in tv, “Chi l’ha visto?”, “Stranamore”, etc.).

A questo proposito lo studioso Dino Balestra, inventandosi un suo dialogo con un venditore di programmi televisivi, pone alcune questioni tra cui la seguente:” I bisogni indotti nascono dal nulla? Se la televisione si insinui negli interstizi e nelle crepe degli individui e della società, queste fessure già esistevano da qualche parte?”.

La nostra risposta a questa domanda è fin troppo semplice: la televisione crea dal nulla bisogni e valori e i ragazzi sono un mercato sicurissimo.

Accenno ad un pericolo

Nel libro Le dimensioni del vuoto (I giovani e il suicidio), Paolo Crepet pone il serio problema di quella che possa essere l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa sulle condotte suicidarie. Molti fatti di cronaca e alcuni dati statistici farebbero pensare che alla notizia reale di un suicidio o alla rappresentazione della fiction di un suicidio farebbe seguito un innalzamento dei comportamenti suicidari presso i giovani che hanno assistito alla notizia o preso parte alla visione del suicidio in tv o al cinema.

Questi dati statistici non sono sicuri, anche perchè, come afferma Durkheim, il primo processo che si instaura, che è quello della imitazione, influenza solo le modalità e i tempi del comportamento suicidario, ma non affatto lo determina tout court.

Diciamo che se per l’adulto la principale caratteristica della morte, ovvero il non ritorno, è un dato consolidato, altrettanto non lo è per i bambini e anche per giovani immaturi che quindi si avvicinano alla morte con un pensiero non completamente difensivo (autoconservazione) nei confronti di essa.

Quella che Crepet chiama “seduzione fatale” indubbiamente è un fatto da considerare seriamente e in questo senso egli offre un vademecum a cui dovrebbero attenersi i mezzi di comunicazione di massa nell’affrontare l’argomento, ma che forse puù essere utilizzato da tutte le persone che in qualche modo devono comunicare ai giovani un suicidio: – non “romanticizzare” il caso di suicidio – evitare le prime pagine – evitare di pubblicare le foto – evitare di tornare sulla notizia – evitare di scendere in particolari sulle modalità.

La violenza prodotta in tv è la regola e non l’eccezione

Esiste una nettissima differenza tra i tempi reali e i tempi televisivi: la televisione fa del tempo quello che vuole. Dunque se nella nostra vita di singoli individui, padri, madri, lavoratori, etc. la violenza, nel nostro giudizio, è considerata una eccezione, e nel nostro riscontro quotidiano altrettanto, la televisione riesce a scardinare tale semplicissima realtà e a proporre la violenza non tanto come un fatto eccezionale ma assolutamente normale. Normale nella frequenza (quantità) e nella logica (qualità) ovvero sistema per risolvere le controversie.

Lo psichiatra Vittorino Andreoli nel suo libro La violenza parla dell’adolescente che arriva ad agire nel mondo credendo di essere dentro al video, mosso dunque da spinte, desideri, bisogni, ma soprattutto regole, che non sono affatto quelle della realtà comune.

Ciò è confermato dalla sempre maggiore freddezza con cui si risponde a reali richieste di aiuto che ci vengono porte da reali persone in difficoltà nella nostra vita reale: si può anche vedere una persona morire per davvero pensando di essere davanti al video (il cinismo dei preadolescenti e degli adolescenti).

Sempre Andreoli fa una interessante osservazione sulla violenza che la tv propone ripostandola dalla cronaca. Mai come in questi ultimi tempi abbiamo assistito a scene in cui la violenza vera viene gettata senza filtro in pasto al telespettatore, violenza della guerra, delle carestie, violenza familiare, violenza verbale, violenza delle calamità naturali, e chi ne ha più ne metta.

A che cosa porta tutto ciò? Indubbiamente ad un nostro abituarci alla violenza, per l’adulto augurabilmente a condannarla, ma per l’adolescente malaugurabilmente a goderla.

Allora la tv riesce ad usare la violenza come spettacolo, perfino nei programmi non impegnati, negli intrattenimenti pomeridiani, nella rivista, nei giochi. Ma quello che maggiormante interessa è la violenza della cronaca che diviene spettacolo.

Scrive ancora Andreoli a questo proposito: “La violenza come spettacolo è dunque un veicolo commerciale forte, occorre “produrla”, a basso costo, naturalmente, e ciò spinge ad usare quella della cronaca, riprendendo le guerre, le torture e i massacri di regime, le lotte tra razze. Insomma, la fiction è più crudele della realtà”.

Un po’ di psicologia della violenza

Non si pretende qui nemmeno di affrontare la questione della motivazione alla violenza dal punto di vista della psicologia, ma soltanto, restando in tema, di esporre un pensiero che è questo: ogni forma di violenza ha a che fare con una oggettivazione delle relazioni, e le televisione opera pesantemente in questo senso.

La televisione presenta relazioni finte, false, convenienti, rabbiose, aggressive, premeditate, manipolatorie e qui potremmo aggiungere tutto il repertorio del malaffare, ma soprattutto lascia capire, questo anche con il notevole apporto del messaggio pubblicitario, che l’altra persona può e a volte va trattata come un oggetto. Come un oggetto significa che non c’è pensiero della diversità dell’altro ma pensiero che l’altro rappresenti un campo di conquista o un invito all’impossessamento.

La violenza che così frequentemente viene presentata in tv afferma che non esiste una regola, una legge nella relazione con l’altro, a cui tutti si deve sottostare, ma che esiste la legge del più forte, che per l’appunto dice che io posso trattare l’altro come un oggetto se io mi pongo in una condizione di superiorità.

I rapporti umani funzionano se esiste una legge che va rispettata, la quale legge dice prima di tutto che l’altro è diverso, che il suo desiderio è diverso e che io non posso aspettarmi che l’altro sia a immagine e somiglianza del desiderio che io ho verso di lui.

Ovvero esiste la differenza e la differenza è tanto la regola quanto l’unica capacità che due persone hanno per stare insieme. La pretesa o l’illusione che l’altro sia uguale a me fa saltare sicuramente tutte le mie relazioni.

E qui la violenza è il braccio armato che fa saltare questa legge, che non è una semplice legge della convivenza, del rispetto o della bontà reciproca, ma l’unica strada perchè ci sia rapporto tra individui e l’unica strada che ci tiene lontani dalla malattia.

Guido Savio

 

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