Il padre è sempre un modello e, in ogni caso, per esserlo, deve godere della stima del figlio.La cosa non è affatto garantita, anzi, di questi tempi, difficile assai.
La reciprocità del rapporto tra padre e figlio e figlio e padre è una legge che non può mai essere scalzata: si va avanti solo in due. E solo se gode di tale stima il padre la può riconsegnare al figlio che giustamente la chiede. Ma il figlio, per “natura” chiede sempre un padre. Il suo.
Molti psicologi non si sorprendono di tutti i “perdoni” che il figlio piccolo è disposto a concedere al padre assente, incapace, timido, violento, aggressivo, pieno di se stesso, inaffidabile, etc. , non si sorprendono gli psicologi di come il bambino piccolo quasi elemosini la forza della sua personalità dalle mani del padre. Che ovviamente, per distribuire valori, dovrebbero essere mani “valorose”.
Il bambino piccolo, pur di non differire dai suoi compagni, pur di evitare la emarginazione, pur, in qualche caso (conoscendo la crudeltà dei bambini) di sottrarsi ai lazzi dei suei amici, compie azioni degne delle migliori spie di sua maestà britannica per evitare di negare la “assenza paterna”. Mente. Spergiura. Nega l’evidenza, tanto per lui è importante avere (e fare vedere) un padre che gli dia fiducia. Il padre è sempre l’eroe della sua vita, è il James Bond che risolve ogni inghippo, lui non può non averlo il suo eroe. Ma purtroppo la realtà non è questa.
Pur di mantenere dentro di sé l’idea di avere un “buon padre” e soprattutto di poter dire altrettanto ai propri amici, il bambino piccolo “abbandonato” dal padre, fa i salti mortali per mascherare l’abbandono.
Non se ne fa una ragione che il padre non sia capace di rispondere alle sue legittime domande, lotta per negare la realtà, moltiplica all’infinito le briciole di affetto e di stima che il padre concede, accetta le promisquità paterne e il loro malodore. Il figlio, in altre parole, necessita della stima di qualcuno. Di “quel” qualcuno. Si tappa il naso, se necessario. E non lo ottiene, non lo può ottenere. Ma fino a quando?
Stigmatizza molto bene la situazione Gustavo Pietropolli Charmet nel suo ‘Un nuovo padre’ quando scrive (p. 158): “Lo sanno bene i fondatori delle comunità terapeutiche e degli istituti di riabilitazione, i quali indossano i panni del padre con un enfasi magari caricaturale ma efficace: ‘I nostri ragazzi’, come li chiamano, non hanno trovato il genitore all’appuntamento con il loro desiderio e si sono abbandonati a se stessi. Ne hanno combinate di tutti i colori finchè alla fine, esausti, hanno sentito il bisogno di fermarsi in qualche posto, e sono capitati lì. E lì sono stati trattati malissimo da adulti che di mestiere raccolgono figli ‘orfani’ e somministrano loro grandi dosi di valori paterni. Una volta inoculati questi principi – proprio come un ‘vaccino antirabbico’ – i giovani sbandati rifioriscono. Così funziona l’adolescenza: senza la stima del padre, vero o putativo, non si cresce”.
Proprio così. Il figlio necessita della stima di qualcuno. Quel qualcuno non può che essere il padre. Ogni succedaneo (prete, professore, animatore, allenatore, zio, etc.) del padre che mai dovesse compiere questa funzione…la stima è minore.
Il figlio fa domande ad “un uomo” e da quell’uomo vuole sentire risposte. E allora la stima è quella buona, è la “massima”, quella che canta d’oro sotto i denti. L’uomo di un bambino è il propprio padre. Gli ealtri (anche se funzionanti) sono succedanei.
Ne ha pieno diritto il figlio per il semplice motivo, lo sappiamo tutti, che (e lo sanno i ragazzi che lo sputano in faccia ai loro genitori insolventi), “non sono stato io a chiederti di venire al mondo”.
La questione tanto dibattuta del “nome del padre” si riduce a questo: la domanda di stima che il figlio fa a “quell’uomo”, e da quell’uomo non deve essere evasa. Tutto qui. Qui sta la parola del padre, il posto del padre e il nome del padre. Anche da cane ma una risposta la deve dare. Ed io nella mia pratica clinica ho visto una infinità di padri che hanno dato risposte da cane al figlio e che al figlio hanno funcionato benissimo.
Il nome del padre è “uno”: non esistono succedanei nè sostituti. E se questi dovessero funzionare, funzionererbbero meno. Se questi posti e queste domande non vengono rispettate, qui comincia un percorso di dolore. Tipo quello descritto da Pietropolli Charmet.
Ultimamente ho notato una cosa nei giovani, anche adolescenti, che vengono a parlare con me: si vede, meglio, si “sente” in loro, nelle loro parole, nei loro comportamenti, un dato biologico, di pelle, pronto a riconoscere un eventuale figlio anche prima che nasca. Ragazzi pronti ad essere padri prima che la natura (o la morosa/moglie) glielo chieda. E questi allora saranno i futuri padri che avranno in bocca la risposta (giusta o sbagliata che sia) alla domanda del figlio.
Dall’altro verso della medaglia.E’ abbastanza semplice e deludente “sentire” (in analisi) quegli uomini in cui non esiste assolutamente l’idea di avere un bambino, non ne sentono la necessità, non sanno neppure cosa sia la rappresentazione di un figlio proprio, non vogliono pensare per altri, il pensiero li spaventa, se la fanno sotto se la loro donna pone la questione. Restano bambini, richiesti di fare bambini: l’assurdo dell’assurdo!
Morale della favola: il figlio lo si pensa e lo si vuole (se capita per caso meglio: vuol dire che non c’è stata “maligna” premeditazione!”). Il padre è “padre” ben prima di entrare imbottito di valium in sala parto per “assistere” al lieto evento, ma soprattutto (quello che a noi interessa) il figlio reclama un diritto: quello ad una risposta dal padre, dall’uomo, dal “suo primo uomo” in merito al suo valore.
Quale sia questa domanda credo non conti più di tanto, meglio se verte sulla questione del lavoro e del sesso. Oppure la più disarmante: “Perchè mi hai messo al mondo?”.
Guido Savio