Qohèlet e il vuoto di pensiero – la noia che non fa muovere – lo sforzo invano – Pavese e la solitudine – Wislawa Szimborska rimprovere Qohèlet – “a che cosa serve?” – il senso è già “dentro” alla vita
VANITA’
“Vanità delle vanità, dice Qohèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno Per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene. Ma la terra resta sempre la stessa.”
(Qoèlet, Prologo, 1 ,1)
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Questo Qohèlet poi è figlio di David, re di Gerusalemme che azzarda un pensiero importante, modernissimo, che suona così: non tutti di fronte alla manifestazione divina, alla magnificenza della terra e del cosmo, viviamo gioia, appagamento. Ci dobbiamo in qualche modo arrangiare. Siamo esposti alla noia e al “vacuum” dei nostri pensieri.
C’è chi, per l’appunto come Qoèlet di fronte al mondo e al suo tempo, vive noia, stanchezza, insipienza della vita, ovvero vanità”. La vanità, per l’appunto, chiama noia, tristezza, malinconia (nella modernità del termine). L’essere “poco” dell’uomo di fronte alla domanda della vita è il lascito della vanità.
La stessa “Bibbia di Gerusalemme” traduce “vanità” con “vapore umido”, “fiato”, tutti stereotipi che rientrano nel repertorio dell’immagine ebraica /acqua, fumo, ombra/) che stanno ad indicare la fragilità umana. Fragilità che rimanda alla inquietudine, dunque (nella accezione indicativa) al movimento. Se sto male, da qualche parte mi devo muovere. Ma questo antico significato di fragilità è portato avanti da Qohèlet, potremmo dire che viene modernizzato, in quanto per lui “vanità” è l’essere illusorio delle cose, ovvero la delusione inevitabile che l’uomo prova di fronte al mondo e al tempo che regge il mondo.
Dunque la vanità del mondo diviene la delusione del mondo. Dal mondo. Ma anche dalla delusione io ne devo venire fuori. Da qualche parte mi devo muovere.
Qohelet. L’Ecclesiaste. Colui che raduna l’assemblea. Ebraico “qabal”, latino “ecclesia”. Dunque Qohelet è colui che raduna e parla all’altro. E’ l’uomo della relazione ma anche della comunicazione. I contenuti. Presto detti: “Habel habalim hakkol habel”, il celebre “Vanitas vanitatum et omnia vanitas” della Vulgata. La parola Hebel è certo la sigla ma anche la cifra simbolica di Qohèlet, martellata all’interno di tutte le strofe più intense della sua poesia. Hebel. Vento. Tardo ebraico e tardo aramaico: soffio caldo, vapore, fumo, alito, nulla; arabo: vapore, fumo, vento; tardo egizio e etiopico: vento; mandeo: alito, soffio, vapore, fumo.
In altre parole “hebel” è tutto ciò che non ha esito, che è inefficace, tanto è vero che in ebraico si trasforma in una locuzione avverbiale equivalente al nostro “invano”: “perché mi consolate invano (hebel)?” (Gb 21-34).
Invano è sempre lo sforzo che non produce effetto. La vanità non è allora un pensiero ma la conseguenza di un atto che non siamo riusciti a compiere: non siamo riusciti a portare alla soddisfazione. Invano (vanità) è la mia insoddisfazione.
Bahya Ibn Paquda nella “Supplica” poetica posta in finale al suo capolavoro mistico “I doveri del cuore” riprende accuratamente il filo conduttore dell’Hebel di Qohelet:
“Ho meditato le mie vie, ho scrutato i miei sentieri, ho considerato i miei atti, ho esaminato il futuro di ogni mia ambizione. Ed ecco: tutto è vuoto E’ pascolo di vento. Ogni fine è vuoto, ogni futuro è illusione” (c.III)
>br> Pascolo di vento. Luogo dove il vento coltiva il proprio passaggio. E non è un passaggio di senso o di contenuti. E’ un passaggio di vento. Nulla altro che “hebel”. Tutto va verso un finire senza neppure la sicurezza che il finire sia poi un “finire”. Una pace.
E il finire lascia sempre soli, afferma Qohelet. Ha più speranza Cesare Pavese in questa solitudine quando scrive in “Il mestiere di vivere” : “La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto, la religione, consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è uno sfogo come con un amico. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri”.
Pavese Ecclesiaste più dell’Ecclesiaste. Pavese che cerca l’altro, sia esso Dio, più dell’Ecclesiaste stesso.
Pavese domanda all’altro e domanda l’altro. Possiamo dire altrettanto di Qohèlet? Quale rapporto ha Qohèlet con il “tu”, dentro al quale prende vita e forma e senso la domanda (anche se risposta garantita non c’è?). Qoèhelet “sembra” sapere e per questo non fa domande. Ha deciso per il vento, ha deciso per la fissità, ha deciso per il non avvenire, ha deciso per il ” nihil novi sub sole”. Non ha deciso per la domanda di avvicinanza all’altro.
Il grido di Qohèlet ha più di un bersaglio: il lavoro, la fatica, il sole che rende insopportabile la fatica. Non per nulla la espressione “sotto il sole” per ben otto volte nel libro è collegata al verbo della fatica ‘amal, e per ben nove volte si aggancia al verbo “fare”, al vuoto operare dell’umanità.
Qohèlet con queste tre semplici parole “valore, fatica, sole” ha costruito la triade riassuntiva delle dimensioni etiche, antropologiche e cosmiche in cui si aggrovigliano le insensatezze e le miserie dell’uomo. La sua più profonda solitudine e malinconia. Ma l’uomo anche di questo è fatto. In alcuni momenti della propria vita, soprattutto di questo è fatto. Qohèlet inizia a srotolare la sua matassa non per trovarne il bandolo, quanto piuttosto per stringere maggiormente il groviglio che stronca l’agire dell’uomo soffocandone illusioni e speranze. Fino alla fine della vita. E anche oltre.
“Una generazione passa via, una generazione entra su una terra eternamente ferma. Sorge il sole; tramonta il sole affannandosi Verso quel luogo da cui rispunterà. Soffia il vento dal sud, gira a settentrione, passa girando e rigirando il vento e sui suoi giri ritorna il vento. Tutti i fiumi scorrono verso il mare Eppure mai il mare si colma; alla foce scorrono i fiumi e di là essi riprendono a scorrere. Tutte le parole sono logore E l’uomo non può più usarle. Mai l’occhio è sazio di vedere, mai l’orecchio è sazio di sentire. Quel che è stato sarà, quel che si è fatto si rifarà: assolutamente niente di nuovo sotto il sole”
Qohèlet è l’immobile. Qohelet è il cerchio che non porta da nessuna parte. Qohèlet non si domanda o non domanda in merito al nuovo sotto il sole. Non c’è inizio e in quanto tale non c’è fine. Già sa Qohelet. Qohèlet non è “capax mundi”, buono di stare al mondo, uno che “si capacita” al viaggio che è un andare da… a. E poi basta. Sembra che la “vanitas” di Qohèlet scivoli verso un nulla che sa di immortale. Ma Qohèlet siamo tutti noi. Lui è il radunatore delle nostre voci contraddittorie. E dalle nostre contraddizioni ha fatto la sua voce.
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Nel giorno del conferimento del premio Nobel per la poesia la grande poetessa polacca Wislawa Szymborska tiene un bellissimo discorso all’assemblea di Stoccolma e tra le altre cose afferma:
“Mi capita di sognare situazioni irrealizzabili. Nella mia temerarietà immagino ad esempio di avere l’occasione di conversare con l’Ecclesiaste, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano. Mi inchinerei profondamente di fronte a lui perché si tratta – almeno per me- di uno dei poeti più importanti. E poi gli prenderei la mano. “Nulla di nuovo sotto il sole” hai scritto Ecclesiaste. Però tu stesso sei nato nuovo sotto il sole. E il poema di cui sei l’autore è anch’ esso nuovo sotto il sole, perché prima di Te non lo ha scritto nessuno. E nuovi sotto il sole sono tutti i tuoi lettori, perché quelli che sono vissuti prima di te, dopotutto, non hanno potuto leggerlo. Anche il cipresso alla cui ombra stavi seduto, non cresce qui dall’inizio del mondo. Gli ha dato inizio un qualche altro cipresso, simile al Tuo, ma non proprio lo stesso. E inoltre vorrei chiederti, o Ecclesiaste, che cosa intendi scrivere ora di nuovo sotto il sole? Qualcosa con cui contemplerai anche i Tuoi pensieri, o non sei forse tentato di smentirne qualcuno? Nel Tuo poema precedente hai intravisto la gioia, che importa seppure passeggera? Forse dunque è di essa che parlerà il Tuo nuovo poema sotto il sole? Hai già degli appunti, degli schizzi iniziali? Non credo che dirai ‘Ho scritto tutto, non ho nulla da aggiungere ’.Nessun poeta al mondo può dirlo. Figuriamoci un grande come di Te”.
Cosa chiede la Szimborska nel suo dialogo immaginario con Qohèlet? La vita, amico, dove è la vita? Quando, amico, tutto è vita? A partire dal tempo del vento e del sole?
Di che cosa accusa la poetessa polacca il poeta biblico? Vanità che diviene presunzione; fatica che diviene non senso; sangue che scorre nelle vene di Qohèlet, come i fiumi che lui canta vani nel loro scorrere ma che nei suoi muscoli portano la vita. Fino a finire. Allora finisce.
“Per questo – continua la Szimborska – apprezzo tanto due piccole paroline: ‘non so’. Piccole ma alate, parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto ‘non so’ le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come una grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta ‘non so’ sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe passato la sua vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva ‘non so’ e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca”.
L’animo inquieto. Qohèlet invece dava corpo alla sua anima disillusa, dunque quieta. Magari di una quiete mortale, nihilista, esistenziale, dolorosa. Qohèlet non sentiva la ex-citazione che caratterizza l’animo inquieto. Non chiamava e non si sentiva chiamato. Ma Qohelet siamo tutti noi quando non vogliamo o possiamo chiedere e chiamare. Anche se Qohèlet come tutti noi è portatore di contraddizione quando scrive: “Mai l’occhio è sazio di vedere, / mai l’orecchio è sazio di sentire”. E’ la denuncia di una mancanza, di una insoddisfazione che chiede riempimento, è il suo affermare “non so”? La sazietà è morte in quanto chiusura della domanda, de desiderio. L’Ecclesiaste commette il suo lapsus freudiano nell’ambito che è più intimo all ’uomo: la propria conoscenza. Ovvero il potere. Sapere è potere non è una scoperta dell’economia classica. La conoscenza sono gli infiniti Ulisse della letteratura mondiale, che siano stati chiamati con questo nome o con altri. Ognuno di noi porta come secondo o terzo nome Ulisse.
Il nostro Ulisse è il campione che sconfigge la noia, mentre Qoèlet vantava la noia come scorciatoia per sopportare il mondo, non per scoprirlo. Ed in effetti anche noi possiamo facilmente capire come “ridurre” lo scopo che noi viviamo del nostro vivere, ne dilatiamo il tempo. Il tempo della noia e delle vanità è assai più governabile di quello dalla “fattualità”, del fare del produrre: nell’ accezione che proprio ci si impegna meno. Si suda meno.
Ricordo un mio giovane paziente (che di nome Qohèlet non faceva) che, di fronte ad ogni mia offerta di “ lavoro” (studio, disegno, divertimento, musica, ascolto, etc..) mi rispondeva regolarmente e tragicamente: “Ma a che cosa serve?”.
Dopo molti sforzi (da parte mia e, penso, anche da parte sua) questo mio giovane paziente si è staccato da me. Dopo molti anni non si era giunti, nella nostra relazione, al capire comune che il “senso” delle cose, della vita, del lavoro, del tempo, della relazione, dell’amore, etc. costituiscono la salvaguardia dalla malattia.Il senso della vita sta nella vita stessa. Nel sole e anche nel vento. Che il senso è già dentro l’essere che ha la fortuna dell’esperienza di vivere. La salvaguardia dalla malattia è la autonomia (di giudizio, di pensiero, del tempo, della propria forza, della capacità contrattuale nei confronti dell’altro).
Allora l’Ecclesiaste è il negatore della autonomia. Si professa stanco del mondo, astratto da esso, proprio perché “non ha voglia” di mettersi in discussione, di discutere con l’altro. Perché è solo dalla discussione con l’altro che noi possiamo trovare la nostra autonomia.
La nostra poetessa predica la distinzione di ognuno di noi dall’altro, proprio perché ci sia unione con l ’altro. La Szimborska afferma che l’Ecclesiaste ha altro da dire come poeta. Ebbene, che ognuno di noi dica. Della sua specie, del suo calibro, del suo animo, della sua forza, affinchè l’Ecclesiaste, nella sua vanità, non vanifichi la nostra parola.
Guido Savio