Sto leggendo in questi giorni due libri, due classici, come i filosofi potrebbero dire.
Il primo è “Principi razionali della Natura e della Grazia”, di Gottfried Wilhelm Leibniz, uscito alle stampe nel 1721, il secondo è “Leviatano” di Thomas Hobbes, uscito alle stampe tra il 1650 e il ’51.
Due opere fondamentali, direbbero sempre i filosofi, sulla questione dell’uomo nella sua relazione con lo Stato e della relazione dello Stato nei confronti del singolo cittadino. La valenza delle due opere, in questo senso, è fin troppo nota. Quello invece che mi richiama l’attenzione non è la valenza “politica” degli scritti, ma la “questione morale”, che ovviamente dalla politica non può discostarsi.
La questione morale posta dal Leibniz: il “principio di ragion sufficiente”.
“Niente avviene senza la possibilità, per chi conosce abbastanza le cose, di rendere una ragione che sia sufficiente a spiegare perché avvenga così e non altrimenti. Una volta stabilito questo principio, la prima domanda che si ha il diritto di porre è: ‘Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla? Infatti il Nulla è più semplice e più facile del Qualcosa. In secondo luogo, ammesso che debbano esistere delle cose, bisogna che allora sia possibile rendere ragione del perché esse devono esistere e non altrimenti” (Leibniz, Monadologia, Bompiani, p. 47).
Non è questo di Leibniz un gioco di parole, né una provocazione dialettica, né una tautologia che chiama a confutazioni che mai potrebbero finire. Quella di Leibniz è una domanda capitale. Perché esistiamo? E visto il fatto che esistiamo, quale ne è la ragione? Quale ne è lo scopo?
La ragione (meno lo scopo) è il dato oggettivo che “così è, e diversamente con potrebbe essere”.
Se io vivo…ci sarà pure un motivo, che non sta nella “logica umana” ma in un principio effettuale, reale: ovvero che diversamente non potrebbe essere. Noi viviamo su questa terra perché altrimenti non sarebbe possibile né la terra né noi. Dato logico. Quasi dato ontologico.
Va da sé che poi Leibniz ponga il “principio di ragion sufficiente” in Dio, ma non è questa parte del suo discorso che mi interessa. Mi interessa la articolazione del suo pensiero in merito (visto che la realtà è questa e non potrebbe essere diversamente) al Mondo, che, a rigor di logica, dovrebbe essere “il miglior mondo possibile”.
Ed infatti il filosofo tedesco scrive poco oltre: “Ora, dalla perfezione suprema di Dio segue che, nel creare l’universo, Egli ha scelto il miglior piano possibile, in cui c’è la massima varietà col massimo ordine, il terreno, il luogo e il tempo più adeguati, la massima quantità di effetti prodotta nei modi più semplici; le creature inoltre, sono state dotate del massimo di potenza, di conoscenza, di felicità e di bontà possibili nell’universo” (Leibniz, Monadologia, idem, p. 49).
Questo è il punto: che visto che oggettivamente non si è potuto e non si può “fare di meglio” quello in cui viviamo è il miglior mondo possibile. Viste che le nostre relazioni con il mondo e con gli altri, migliori non sono (non non potrebbero essere), ciò significa che quello che noi, come singoli soggetti, in questa vita è il meglio che possiamo dare. Non possiamo dire che potremmo dare di più perché non ne siamo stati ancora capaci di farlo. La logica non fa una grinza. E nemmeno il dato constatativo della realtà.
“Il presente è gravido dell’avvenire – scrive ancora Leibniz a p. 51 -, il futuro si può leggere nel passato, la cosa lontana è espressa dalla cosa vicina”: ovvero tute le cose3 del mondo sono regolate con il massimo di ordine e di corrispondenza possibile. La questione per Leibniz si gioca sul “possibile” ovvero tutto è così in quanto altrimenti non potrebbe essere.
Proviamo ad applicare questo principio alla nostra esistenza, ovvero che noi siamo così perché altrimenti non avremmo potuto “riuscire” e dunque così come siamo riusciti è il migliore modo possibile. Se io svolgo un lavoro, vivo con una persona, ho realizzato dei guadagni, mi sono formato una cultura, ho delle relazioni, etc., ebbene, tutto quello che costituisce il mio “essere” è il migliore che io potessi realizzare.
E questa regola, applicata al passato, significa che tutto che in tutto quello che è stato il mio fare passato, non ci può essere”errore” in quanto quello che io ho fatto non avrei potuto farlo diversamente in quanto allora come ora quelle o questo erano e sono la mie capacità. Se sono arrivato qui nella mia vita è perché non potevo arrivare, in questo preciso istante, né un centimetro prima né un centimetro più avanti.
Il giudizio di “errore” è un giudizio che esprimo a posteriori ma che non avrei mai potuto esprimere nel momento della mia scelta. E questo è quello che conta.
Certo, potrei servirmi di questo pensiero per evitare rimpianti o rimorsi, e, si badi bene, questo non è un pensiero “sbagliato” né logicamente né realisticamente, è un pensiero che sta nel mio diritto fare, non certo per evitare le assunzioni di responsabilità sul mio operato (come vedremo in seguito), ma per tenermi lontano da inutili, dannosi e dolorosi “sensi di colpa”.
Anche perché la nostra “conoscenza” sulla giustezza, sulla opportunità, sulla bontà delle nostre scelte passate è del tutto relativa. Noi possiamo dire ora che sappiamo, ma non certo allora. Il nostro giudizio, va da sé che è legato al passato, avviene a bocce ferme; ma nel momento della scelta non era certo “questo” giudizio a posteriori che ci aiutava.
“Ciascuna anima conosce l’infinito – continua Leibniz nel suo scritto a p. 51 -, ma confusamente, come quando, passeggiando lungo la riva del mare e sentendo il gran rumore che fa, sentiamo sì i rumori particolari di ciascuna onda di cui è composto il rumore totale, ma senza distinguerli”. Ovvero cogliamo il risultato ma non distinguiamo le singole parti. Le singole parti le possiamo intendere a posteriori (ovvero nel giudizio a posteriori che noi diamo) ma non certo nel momento dell’accadere, nel momento in cui siamo con il viso verso il mare e con l’orecchio al suo rumore.
Tutto accade come deve accadere, senza che noi siamo “obbligati ad intervenire” su questo accadimento. Tutto è scritto, in un certo senso, senza che noi siamo “obbligati ad intervenire” sulla carta. Lo possiamo anche fare (ed è forse questo il senso della vita) ma nella accettazione del nostro limite, nella accettazione che noi siamo fatti di tante parti, di tante onde, che possono fare il nostro bene ed anche il nostro male: non per questo il male è da combattere e scacciare al di fuori di noi.
Io sono portatore di felicità e di dolore, tuttavia non sarò più felice se “sconfiggo” il dolore dentro di me. Posso essere solo più “io”, unico e irripetibile (pieno di felicità e di dolore al contempo), ma “io” nel giusto amore che può, anzi, deve animare i miei giorni.
E dunque Hobbes che nel Capitolo quattordicesimo del Leviatano, dal titolo “La prima e la seconda legge naturale e i contratti” scrive: “Il diritto di natura, che gli scrittori chiamano comunemente ‘Jus Naturale’, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine. Secondo il significato proprio del termine, si intende per libertà l’assenza di impedimenti esterni. Questi impedimenti possono frequentamente diminuire il potere posseduto da una persona per fare ciò che vorrebbe, ma non possono impedire di usare il potere che le è rimasto nei modi che il suo giudizio e la sua ragione lo determinano” (Thomas Hobbes, Leviatano, Editori Laterza, p. 105).
Io sono portatore di felicità e di dolore, ma mi richiamo alla mia libertà di scelta (della felicità e del dolore). Il portatore sono sempre io (senza drammi). Il mezzo più idoneo, come dice Hobbes. Ma capita più spesso che io non disponga della forza di governare. Di governarmi, Di scegliere. Mi capita anzi di essere “impedito” come dice Hobbes da impedimenti interni ed esterni alla mia felicità. E allora?
E allora mi animo di un principio. Sano, unico, morale: scelgo la mia conservazione, scelgo il mio curarmi di me, il mio curarmi di stare in vita (qualunque essa sia).
Così continua Hobbes: “Una legge di natura (Lex Naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conserva, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla” (Thomas Hobbes, ibidem).
Anche nel (mio) dubbio che io sia portatore di felicità, non posso permettermi di aggredire me stesso, e ovviamente di distruggere me stesso, attraverso il pensare che io “sono sbagliato” perché nella mia vita “ho sbagliato” (e vedi sopra il beneficio dell’inventario).
Nessuno sbaglia. Ognuno vive. Nel pensiero che non è la assoluzione di me che mi risolve i problemi. Ma neppure la autoaccusa me li toglie di torno.
Se Hobbes parla di ‘Lex Naturalis’, noi intendiamo che la legge naturale è la legge della autoconservazione. Dritto per dritto. Io vivo per il bene di tutti ma soprattutto per il bene mio e non vado a tormentarmi nei sensi di colpa e/o nelle autocommiserazioni (che sono la stessa cosa) che un pensiero malato potrebbe dettarmi. Mi emancipo da questo pensiero “malato” , e ne abbraccio uno di sano: quello che è stato è stato, non nel senso di scordarci del passato, ma nella logica di vedere il futuro fuori dalla finestra come nostro primario e responsabile giudizio. Oltre già è nebbia.
“Di conseguenza – passa oltre Hobbes – ciascuno deve cercare la propria pace per quanto ha speranza di ottenerla, gli sia lecito di cercare e utilizzare tutti gli aiuti della guerra” (T. Hobbes, ibidem, p.105).
Ovvero che fino alla guerra noi dobbiamo cercare la nostra pace. Ad ognuno cercare nella storia questa “applicazione”.
La felicità non mi permette di aggredire me stesso. Ma la mia ricerca di felicità sì. Allora la rivolta, allora la rivoluzione. Il “Leviatano” non è un viatico per la rivoluzione. nemmeno la invoca, ma è un processo attraverso il quale noi tutti possiamo intendere che la nostra “natura” è nostra, che il nostro giudizio vigila sulle nostre (prima di tutto) e anche altrui trasgressioni, o peccati o malefatte.
Se io vivo se ce ne è un motivo, un motivo “sufficiente”. Ma a me verrebbe da dire un “motivo emerito”, come esistono gli uomini emeriti, i lavoratori emeriti, le donne emerite.
Guido Savio